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Eric Hobsbawm: Problemi di storia comunista (1969)

togliatti giovane

foto segnaletica di Palmiro Togliatti, 1926

(…) Per coloro i cui ricordi politici non vanno oltre la denuncia di Stalin da parte di Chruscëv o la spaccatura tra Cina e Russia è quasi impossibile capire che cosa abbia significato la rivoluzione d’ottobre per quelli che sono ora in età avanzata. Fu la prima rivoluzione proletaria, il primo regime della storia che riuscì a instaurare l’ordinamento socialista, fu la prova sia della profondità delle contraddizioni del capitalismo che produceva guerre e depressioni, sia della possibilità, della certezza che la rivoluzione socialista avrebbe avuto successo. Fu l’inizio della rivoluzione mondiale. Fu l’inizio del nuovo mondo. Soltanto gli ingenui credettero che la Russia fosse il paradiso dei lavoratori, ma anche fra i più smaliziati essa godette della generale indulgenza che oggi la sinistra degli anni ’60 concede soltanto ai regimi rivoluzionari di alcuni piccoli paesi, come Cuba e il Vietnam. Nello stesso tempo la decisione da parte di rivoluzionari di altri paesi di adottare il modello di organizzazione bolscevico, di subordinarsi a un’Internazionale bolscevica, cioè alla fine al PCUS e a Stalin, fu dovuta non soltanto al naturale entusiasmo ma anche all’evidente fallimento di tutte le forme alternative di organizzazione, di strategia e di tattica. La socialdemocrazia e l’anarco-sindacalismo erano falliti, mentre Lenin aveva avuto successo. Sembrava ragionevole seguire la ricetta del successo.

Prevalse sempre più l’elemento del calcolo razionale, dopo il riflusso di quella che, negli anni successivi al 1917, era sembrata la marea della rivoluzione globale. In pratica, naturalmente, è quasi impossibile separare questo elemento dall’appassionata e completa devozione che i singoli comunisti sentivano per la loro causa, la quale veniva identificata col loro partito, e significava quindi fedeltà all’Internazionale comunista e all’Urss, cioè a Stalin.

Eppure, qualunque fossero i loro sentimenti privati, divenne ben presto chiaro che il distacco dal partito comunista, che fosse per espulsione o per secessione, significava la fine di un’efficace attività rivoluzionaria.(…)

Quelli che lasciarono il partito furono dimenticati oppure non svolsero alcuna azione efficace, tranne quando passarono ai riformisti o entrarono in qualche gruppo chiaramente borghese, nel qual caso non interessavano più ai rivoluzionari, o quando scrissero libri che forse avrebbero potuto influire sulla sinistra trent’anni dopo. La vera storia del trockismo, come orientamento politico nel movimento comunista internazionale, è postuma. Fra questi marxisti esiliati i più forti lavorarono silenziosamente, in isolamento, finché i tempi cambiarono. I più deboli non ressero alla tensione e diventarono violenti anticomunisti fornendo militanti alla cultura della CIA degli anni ’50, mentre la media si ritrasse nel duro guscio del settarismo. Il movimento comunista non subì una vera spaccatura eppure pagò il prezzo della sua coesione, una sostanziale e talvolta abnorme rotazione dei suoi membri. La battuta che il partito più grosso è quello degli ex-comunisti ha un fondamento reale.

La scoperta che i comunisti avevano scarse possibilità di scelta sulla loro fedeltà a Stalin e all’Urss venne fatta per la prima volta a metà degli anni ’20, anche se forse soltanto ai livelli più alti dei partiti. Capi comunisti perspicaci e intelligenti come Palmiro Togliatti capirono ben presto che, nell’interesse del movimento nazionale, non potevano permettersi di opporsi al capo del PCUS, chiunque esso fosse, e cercarono di spiegarlo a quelli, come Gramsci, meno in contatto con quanto avveniva a Mosca. Naturalmente negli anni ’30, neppure un’assoluta disponibilità a compiacere Stalin era una garanzia di sopravvivenza politica, o per coloro che risiedevano nell’Urss, di sopravvivenza fisica. Date le circostanze, la fedeltà a Mosca cessò di dipendere dall’approvazione della linea seguita da Mosca, ma divenne una necessità. Il fatto che la maggior parte dei comunisti cercasse di razionalizzare tutto ciò, dimostrando a se stessa che Mosca aveva sempre ragione è un’altra questione, sebbene importante per la discussione, perché rafforzò negli appartenenti a quella minoranza che aveva le idee chiare la convinzione che essi non sarebbero mai riusciti a trascinare con sé i loro partiti contro Mosca. (…)

Naturalmente vi fu un altro fattore importante, l’internazionalismo. Oggi che il movimento comunista ha in gran parte cessato di esistere, come tale, è difficile comprendere la forza immensa che i suoi membri traevano dalla consapevolezza di essere soldati di un unico esercito internazionale che conduceva, pur con una grande multiformità e flessibilità tattica, un’unica grandiosa strategia di rivoluzione mondiale. Di qui l’impossibilità di un qualsiasi conflitto fondamentale o di lunga durata fra gli interessi di un movimento nazionale e l’Internazionale che era il vero partito, di cui le unità nazionali non erano altro che disciplinate sezioni. Questa forza si fondava sia su ragioni realistiche sia sulla convinzione morale. Ciò che convinceva in Lenin non era tanto la sua analisi socio-economica – dopo tutto, se vogliamo, alcune cose come la sua teoria dell’imperialismo si possono far derivare da precedenti scritti marxisti – bensì la sua evidente abilità nell’organizzare il partito rivoluzionario, nel conoscere la tattica e la strategia per fare la rivoluzione. Contemporaneamente il Comintern, come fece in larga misura, doveva servire a rendere il movimento immune dalle conseguenze del tragico crollo dei suoi ideali.

Si riconobbe in generale che i comunisti non si sarebbero mai comportati come la socialdemocrazia nel 1914 abbandonando la propria bandiera per seguire quella del nazionalismo in un reciproco massacro. E bisogna dire che non lo fecero. C’è qualcosa di eroico nel PC inglese e in quello francese nel settembre 1939. Il nazionalismo, il calcolo politico, perfino il senso comune spingevano in una direzione, eppure essi scelsero senza esitazioni di porre al primo posto gli interessi del movimento internazionale. Si dà il caso che sbagliassero in modo tragico e assurdo. Ma il loro sbaglio, o piuttosto quello della linea sovietica del momento, e la tesi sostenuta a Mosca, e assurda dal punto di vista politico, che una data situazione internazionale comportasse le stesse reazioni in partiti di diversissima collocazione non dovrebbe portarci a deridere lo spirito della loro azione. È questo che avrebbero dovuto fare, e invece non fecero, i socialisti d’Europa nel 1914: attuare le decisioni della loro Internazionale. È questo ciò che fecero in effetti i comunisti quando scoppiò un’altra guerra mondiale. Non fu colpa loro se l’Internazionale avrebbe dovuto dare ordini diversi.

Il problema di scrivere la storia dei partiti comunisti è quindi insolitamente difficile. Bisogna far rivivere il carattere del bolscevismo, unico e senza precedenti fra i movimenti laici, ugualmente lontano dal liberalismo della maggior parte degli storici e dall’attivismo permissivo e indulgente della maggior parte degli estremisti contemporanei. Non è possibile capirlo senza afferrare quel senso di totale devozione che ad Auschwitz consentiva al partito di far pagare ai suoi membri i propri debiti sotto forma di sigarette, incalcolabilmente preziose e quasi impossibili da ottenere nei campi di sterminio, che faceva accettare ai quadri l’ordine non solo di uccidere i tedeschi a Parigi occupata, ma di acquistare in precedenza e individualmente le armi per farlo, e che fece loro ritenere praticamente inconcepibile rifiutare di ritornare a Mosca nonostante la certezza di essere arrestati o uccisi. Senza aver capito ciò, non è possibile capire né le conquiste né le perversioni del bolscevismo, che furono entrambe enormi. E certamente non si può capire lo straordinario successo del comunismo come sistema educativo per il lavoro politico. (…)

Quelli che hanno cambiato l’orientamento del partito non erano uomini con un passato di critica e di dissenso, ma di indiscutibile fedeltà allo stalinismo, da Chruscëv e Mikojan a Tito, Gomulka e Togliatti. La ragione non è soltanto che costoro negli anni ’20 e ’30 ritennero preferibile lo stalinismo alle altre alternative comuniste e neppure che, a partire dagli anni ’30, le critiche contribuivano ad abbreviare l’esistenza di coloro che risiedevano nell’Urss. E’ anche che i comunisti che se ne andavano dal partito – e per molto tempo questa fu la conseguenza della loro posizione dissidente – perdevano ogni possibilità di avere un’influenza su di esso.

da E.J. Hobsbawm, I rivoluzionari, Einaudi 1975

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* annotazione: per il cinquantenario della morte di Palmiro Togliatti sul sito di Rifondazione Comunista è stato opportunamente pubblicato il testo di uno storico intervento “La via italiana al socialismo” del leader comunista italiano che fu dirigente di primo piano dell’Internazionale sollecitato dall’ondata di sdegno e sconcerto seguita alle rivelazioni di Chruscëv sui crimini di Stalin al XX Congresso del PCUS nel 1956.

 

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