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MONTALBAN – ROSSANDA: DISCUSSIONE SU ‘TERRA E LIBERTÀ’ DI KEN LOACH

L’ormai classico film di Ken Loach ‘Terra e libertà‘ nel 1995 suscitò un ampio dibattito in Spagna come in Italia. Vi ripropongo il confronto sul film tra lo scrittore comunista spagnolo Manuel Vazquez Montalban e Rossana Rossanda che fu pubblicato sul Manifesto. Trovate in rete anche il dibattito tra storici sulla rivista ‘Spagna contemporanea’ con interventi di Gabriele Ranzato e Claudio Venza.
Ken, l’intruso
di MANUEL VAZQUEZ MONTALBAN 
NEL MAGGIO 1937, soprattutto a Barcellona ma anche altrove in Catalogna, si verificarono scontri armati tra le milizie del Poum (Partito operaio di unificazione marxista), alleate con gli anarchici della Cnt-Fai, e il resto delle forze armate e politiche repubblicane che lottavano contro il generale Franco. Al fondo di questo scontro, che avrebbe indebolito le capacità di resistenza della Repubblica, c’era la preponderanza conquistata dalle forze repubblicane moderate e dal Partito comunista (Psuc, in Catalogna) sull’avanguardismo rivoluzionario del Poum e degli anarchici. L’insieme delle forze repubblicane voleva vincere la guerra e restaurare la democrazia formale, il Partito comunista considerava prioritario vincere la guerra prima di fare la rivoluzione; al contrario, gli anarchici e i “poumisti” volevano mantenere le milizie popolari e lanciare un processo di collettivizzazione che avrebbe impegnato i lavoratori nella difesa di una Repubblica dei lavoratori. Questa alternativa avanguardista non era uniforme: il Poum era radicalmente marxista-leninista e la Cnt-Fai anarchica.
Il governo della repubblica, con i comunisti come forza d’urto fondamentale, schiacciò l’opposizione di quelle avanguardie e, da quel momento, si produssero effetti logici, come il passaggio delle milizie popolari armate sotto la disciplina dell’esercito repubblicano, e altre conseguenze che meritano un posto nella Storia dell’Infamia rivoluzionaria. Da Mosca si profittò dello scontro per “liquidare il trotzkismo” anche in Spagna, rappresentato, secondo gli agenti sovietici, dal Poum. Il legame del Poum con Trotski non era sicuro e, anche se in origine c’era stata una certa sintonia tra i dirigenti catalani Andreu Nin e Joaquin Maurin, la loro rottura con l’Internazionale trotzkista si era già prodotta alla metà degli anni trenta, prima della guerra civile. Implicare il Poum nella cospirazione “nazi-trotzkista” corrispondeva alla tattica intossicatrice dello stalinismo e dei processi di Mosca. Così, se gli anarchici catalani coinvolti nei fatti di maggio subirono una blanda repressione, quelli del Poum furono incarcerati, e alcuni erano ancora in prigione quando Franco entrò in Catalogna, alla fine del 1938. Il leader Andreu Nin “scomparve” e l’apertura degli archivi del Kgb ha provato che egli morì sotto le torture degli agenti della polizia politica sovietica che agivano in Spagna.
Ken Loach, nel girare “Tierra y libertad”, si è accostato alla storia dei fatti di maggio del 1937 sotto l’influenza di un suo compatriota che aveva combattuto nelle Brigate internazionali e che aveva osservato da vicino questa lotta per l’egemonia repubblicana alla fine convertita in un regolamento di conti tra comunisti: quelli del Poum e quelli del Psuc. “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell aveva già illustrato quello scontro da un punto di vista partigiano a favore del Poum.
E’ puro anacronismo cercare ora di risolvere la questione se fosse prioritario vincere la guerra o fare la rivoluzione, ma è necessario che la memoria storica dei comunisti obbedienti alla Terza internazionale assuma la mostruosità del caso Nin e della repressione contro il Poum. Se il film di Loach si fosse giovato della consulenza di storici conoscitori delle circostanze non sarebbe stato tanto manicheo. I comunisti del Psuc avevano la loro logica rivoluzionaria, come l’avevano quelli del Poum, e in quella svolta della storia le due parti in conflitto convergevano sulla necessità della violenza e del terrore rivoluzionario. Non si può trattare una parte come intrinsecamente violenta e totalitaria e l’altra come inerme e innocente nelle mani della barbarie comunista. Una cosa era denunciare la sconfitta della ragione libertaria rappresentata dal caso Nin e l’alienazione della maggioranza dei seguaci dello stalinismo; altra cosa è demonizzare un settore comunista protagonista di buona parte della lotta contro il franchismo durante e dopo la guerra.

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Walden Bello: una rivolta di massa contro la Matrix neoliberista

Walden Bello è un economista filippino con cui abbiamo condiviso la ormai lunga storia dei movimenti altermondialisti contro la globalizzazione neoliberista. In questo articolo si interroga sul perchè nel suo paese non ci sia stata finora una rivolta di massa contro il neoliberismo come in Cile e quindi anche un cambiamento politico. Per molti versi le Filippine ricordano l’Italia. Da leggere.

Pochi mesi prima che il coronavirus chiudesse il mondo, il Cile era esploso contro il neoliberismo. Un economista della Banca Mondiale, Sebastian Edwards, era sul posto per documentare la ribellione:

Il 18 ottobre 2019, con sorpresa della maggior parte degli osservatori, sono scoppiate massicce proteste in tutto il Paese. Le manifestazioni sono state innescate da un piccolo aumento delle tariffe della metropolitana: trenta pesos, ovvero l’equivalente di quattro centesimi di dollaro. Ma i raduni sono stati molto più importanti dell’aumento delle tariffe. Centinaia di migliaia di persone hanno marciato in diverse città e manifestato contro le élite, gli abusi aziendali, l’avidità, le scuole a scopo di lucro, le pensioni basse e il modello neoliberista. I manifestanti hanno chiesto la cancellazione del debito per gli studenti e servizi sanitari universali gratuiti.

Avendo svolto la mia tesi di laurea sul Cile più di 40 anni prima e avendo partecipato alla solidarietà internazionale contro il dittatore Augusto Pinochet, che aveva sottoposto il Paese sia alla trasformazione neoliberista che alla repressione di massa, ero euforico. Ho persino pensato che la ribellione in Cile potesse essere la scintilla per una rivolta globale contro il neoliberismo, proprio come i bolscevichi pensavano che la loro presa di potere in Russia avrebbe innescato la rivoluzione socialista in Europa. Ma questo pensiero fantasioso è stato rapidamente accantonato. Nonostante la copertura internazionale degli eventi, il Cile rimase solo.

Ma non invano: un presidente anti-neoliberista, Gabriel Boric, è stato eletto presidente nel 2021 e le politiche neoliberiste sono ora in fase di rallentamento nel Paese, anche se con la forte opposizione dell’élite locale, dei tecnocrati, degli investitori stranieri e delle agenzie multilaterali.

La domanda successiva è quindi ovvia: perché, nonostante i suoi evidenti fallimenti, il neoliberismo non ha provocato ribellioni simili in altre parti del Sud globale? Continue reading Walden Bello: una rivolta di massa contro la Matrix neoliberista

Israele, Palestina e PCI. Una lettera di Terracini e la risposta di Pajetta (1969)

Sto leggendo la fondamentale biografia di Umberto Terracini dello storico Claudio Rabaglino. Mi sono imbattuto nella citazione, in una nota, di una lettera che il dirigente comunista scrisse a L’Unità e che fu pubblicata con una risposta del direttore Gian Carlo Pajetta il 25 luglio 1969 col titolo “Il nostro giornale e il Medio Oriente“. Ve la ripropongo perchè la questione rimane purtroppo tragicamente attuale. Il dialogo tra questi due leggendari dirigenti comunisti italiani si aggiunge a altri reperti storici che sto pubblicando su questo blog relativi al conflitto israeliano-palestinese e al dibattito che ha attraversato la sinistra internazionale in anni ormai lontani (Herbert Marcuse, Paul Sweezy – Leo HubermanIsaac DeutscherAlbert Einstein). Su Terracini ho scritto un profilo che spero stimoli la lettura della biografia. 

Caro Direttore,

nel leggere il testo del discorso pronunciato dal compagno Berlinguer alla Conferenza di Mosca avevo constatato come egli, cosa d’altronde ovvia, avesse in quella sede ribadito la posizione assunta e sempre mantenuta anche nei documenti ufficiali dal nostro Partito sulla questione del Medio-Oriente. Essa, come è noto, condanna l’iniziativa aggressiva israeliana del giugno 1967, chiede il ritiro delle truppe nei confini anteriori all’ultimo conflitto e dichiara il diritto di tutti gli Stati, compreso quindi Israele, all’esistenza entro confini sicuri e riconosciuti. Berlinguer disse testualmente: «Devono essere reintegrati i diritti dei popoli arabi, fermo restando il diritto all’esistenza di Israele come Stato sovrano, vincolato a un regime di pacifica convivenza e di sicurezza collettiva. In questa prospettiva, che è implicita nella risoluzione dell’ONU del 22-11-67, occorre operare per l’integrale riconoscimento dei diritti del popolo arabo-palestinese, da venti anni privato della sua esistenza nazionale».
Questa posizione del Partito tiene presente dunque il diritto all’autonomia nazionale sia del popolo arabo-palestinese, sia del popolo ebraico, questo ultimo storicamente espresso nella forma specifica dello Stato di Israele. Questo Stato è nato di fatto dall’autodeterminazione di quella parte degli ebrei che, date le condizioni storiche in cui erano venuti a ritrovarsi, si ricostituirono in nazione e di essa ottennero, lottando, il pieno riconoscimento giuridico secondo il Diritto Internazionale. Questi ebrei sono oggi uniti non solo da legami religiosi, ma anche e soprattutto da una comune esperienza secolare che li ha visti sparsi in altre società nazionali, ma non dissolti quanto a cultura, a tradizioni, e per certi versi, anche nei confronti della lingua.
Contestare la validità di questo processo significherebbe andare contro il principio del riconoscimento delle nazionalità e della loro autodeterminazione, come sì vorrebbe ora fare, e noi lo biasimiamo, per il popolo arabo palestinese negando agli ebrei un loro Stato sovrano, nel quale essi possano sviluppare ulteriormente e liberamente la loro cultura, la loro lingua, la loro tradizione, nel quadro di una politica autonoma rispetto alle nazioni circostanti.
Eppure spesso la stampa del Partito, quanto meno l’Unità, si atteggia in questo modo, negando con le più diverse motivazioni la legittimità sul piano del Diritto Internazionale di uno Stato ebraico e  sul piano storico-politico i suoi titoli all’esistenza.

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Zangheri: Anni 30, di pace si discuteva così

Visto che in Europa ci troviamo di nuovo ad avere a che fare con la crescita delle estreme destre e con la guerra giova rileggere la storia degli anni ’30. Nel 1935 Dimitrov e Togliatti riuscirono a modificare la linea dell’Internazionale comunista. Lo raccontava Renato Zangheri in questo articolo uscito su L’Unità il 18 giugno 1982. Segnalo che dal carcere Gramsci e Terracini avevano anticipato quella indicazione strategica. 

La collaborazione e l’intesa fra Dimitrov e Togliatti furono particolarmente strette all’epoca del VII congresso, nello spirito della svolta che venne allora impressa agli indirizzi dell’Internazionale. A Togliatti venne affidato, com’è noto, il rapporto su «La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell’I.C.». Egli intervenne attivamente nella preparazione del congresso e poi nell’attuazione delle sue direttive. Così Dimitrov trattò dei problemi della pace, nel suo rapporto generale e dopo. Per l’Internazionale comunista quei tempi furono soprattutto di analisi dei pericoli di guerra, di allarme per le minacce portate specialmente dal governo nazista all’Urss, di mobilitazione dei partiti comunisti in una lotta che doveva trovare obiettivi e alleati nuovi, estendendosi oltre i confini abbastanza ristretti entro cui si erano mossi fino a pochi mesi prima i partiti comunisti.
Dimitrov afferma nel suo rapporto al congresso che dalla crisi del capitalismo la borghesia dominante cerca sempre più di salvarsi affidandosi al fascismo, «al fine di ottenere più dure misure per derubare i lavoratori, preparare una guerra imperialistica rapace, aggredire l’Unione Sovietica, soggiogare e spartire la Cina e, in tal modo, prevenire la rivoluzione». Dovunque, a Roma, a Varsavia, a Berlino, nella varietà delle sue forme, il fascismo si presenta come il più feroce nemico dei lavoratori, esso è «lo sciovinismo sfrenato e la guerra di conquista». Per sconfiggerlo, sostiene Dimitrov, è necessario costruire non solo dal basso il fronte unico della classe operaia e sulla sua base dar vita ad un largo fronte popolare antifascista.
Sono posizioni conosciute, per il coraggioso superamento di precedenti «ristrettezze settarie» ed anche per il difetto di tendere a fondare la proposta unitaria, indubbiamente innovatrice, su una sostanziale assimilazione dei caratteri dei partiti comunisti, piuttosto che sulla ricerca di punti inediti e duraturi d’incontro con l’Internazionale socialista e con i partiti socialisti. È significativa da questo punto di vista l’insistenza con cui Dimitrov e Togliatti parlano di una continuità con le tesi del VI congresso e di rettifiche semplicemente tattiche, anche se sembra evidente il tentativo loro di far passare i cambiamenti riducendone l’apparenza di novità, a causa delle resistenze presenti nelle file dell’Internazionale e nello stesso congresso, e sebbene Togliatti avesse insistito nella fase di preparazione sulla necessità dell’autocritica, sugli elementi di mutamento.

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Perchè due liste? Chiedete a Fratoianni e Bonelli

Tante persone mi scrivono chiedendo perchè non c’è una lista unitaria della sinistra contro la guerra. La risposta è semplice: perchè Fratoianni e Bonelli non l’hanno voluta fare nonostante noi abbiamo insistito fino all’ultimo. Va detto che per mesi anche Mimmo Lucano sostenne che si sarebbe candidato solo in caso di lista unitaria salvo poi all’improvviso andare con chi l’aveva rifiutata (probabilmente ha fatto i suoi legittimi calcoli sulle possibilità di elezione). Vi ripropongo l’articolo che a gennaio scrissi per il Manifesto rispondendo positivamente all’appello di Basilio Rizzo e Emilio Molinari. Sul sito della rivista Left trovate una mia intervista.

Una lista di scopo per la pace e per non ripetere l’errore

di Maurizio Acerbo

Condivido le preoccupazioni di Emilio Molinari e Basilio Rizzo in vista delle ormai imminenti elezioni europee. E per questo sostengo dall’inizio l’appello di Michele Santoro e Raniero La Valle per una lista per la pace che metta al centro della campagna elettorale la deriva guerrafondaia dell’Italia e dell’Unione europea al seguito della Nato e degli Usa, lo stop all’invio di armi in Ucraina (rivotato da destra e Pd), il taglio delle spese militari, la solidarietà coi popoli palestinese e curdo, la riforma e il rilancio dell’Onu per la risoluzione delle controversie internazionali, il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Una lista per la pace che non può non avere un programma di giustizia sociale e ambientale alternativo all’ordoliberismo europeo e alle politiche razziste e xenofobe. La proposta di Michele Santoro e Raniero La Valle ha il pregio di non proporre semplicemente sommatorie elettorali – che tra l’altro non sempre funzionano come verificato cinque anni fa con la Sinistra – ma un compito ben più importante e necessario, quello di far uscire l’Italia dalle guerre e dalle logiche di guerra, di portare nel parlamento europeo la voce di chi si riconosce nel ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione. La «lista per la pace» va fatta non tanto per unire i partiti ma per imporre la centralità della questione della guerra e la critica della deriva dell’Unione europea. Proprio per questo offre un terreno positivo di convergenza.

La «sinistra pacifista, ambientalista, dei diritti sociali e civili così ben scritti nella nostra Costituzione» ha il dovere di dare il proprio contributo superando ogni autoreferenzialità. Ricordo che anche alle elezioni politiche noi proponemmo la coalizione del fronte pacifista e quindi come Rifondazione Comunista abbiamo dato la nostra disponibilità alla costruzione di una lista «di scopo» che unisca su un programma condiviso chi ha assunto posizioni coerentemente contro la guerra. Continue reading Perchè due liste? Chiedete a Fratoianni e Bonelli