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![]() Spartacus è un film hollywoodiano del 1960 basato su un libro scritto segretamente dal romanziere Howard Fast, inserito nella lista nera, e adattato dallo sceneggiatore Dalton Trumbo, uno dei “10 di Hollywood” che furono banditi per la loro politica “antiamericana”. È una parabola di resistenza e di eroismo che parla senza alcun dubbio ai nostri tempi.
Entrambi gli scrittori erano comunisti e vittime del senatore Joseph McCarthy, presidente della Commissione per le Operazioni Governative e della sua Sottocommissione Permanente per le Indagini del Senato degli Stati Uniti che, nel corso della Guerra Fredda, distrusse le carriere e spesso le vite di coloro che avevano saldi principi e il coraggio sufficiente per opporsi a un fascismo in versione locale Usa.
“Questo è un momento critico, ora, in questo momento preciso …” scriveva Arthur Miller ne Il crogiuolo “Non viviamo più nel crepuscolo pomeridiano in cui il male si mescolava al bene e confondeva il mondo”.
C’è un provocatore “preciso” ora; è evidente a tutti coloro i quali vogliono vederlo e prevedere le sue azioni. Si tratta di una banda di Stati guidata dagli Stati Uniti, il cui obiettivo dichiarato è la “full spectrum dominance” (il dominio a tutto spettro). La Russia è tuttora ùl’odiata, la Cina Rossa la temuta.
Da Washington e Londra, la virulenza non ha limiti. Israele, anacronismo coloniale e mastino sguinzagliato, è armato fino ai denti e gode di un’impunità storica, in modo tale che “noi” occidentali ci assicuriamo che il sangue e le lacrime non si asciughino mai in Palestina.
I parlamentari britannici che osano chiedere un cessate il fuoco a Gaza sono messi al bando, la porta di ferro della politica bipartitica è chiusa loro da un leader del partito laburista che vorrebbe che acqua e cibo fossero negati ai bambini.
Ai tempi di McCarthy, vi erano comunque spiragli di verità. I cani sciolti accolti allora diventano eretici oggi; esiste un giornalismo sotterraneo (come questo sito, Consortium News) in un paesaggio di conformismo ipocrita. I giornalisti dissenzienti sono stati defenestrati dal “mainstream” (come scrisse il grande editore David Bowman); il compito dei media è quello di capovolgere la verità e di sostenere le illusioni della democrazia, compresa una “stampa libera”.
La socialdemocrazia si è ridotta alla larghezza di una carta di sigarette che separa le politiche principali dei partiti maggiori. La loro comune adesione è a un culto capitalistico, il neoliberismo, e a una povertà imposta, descritta da un relatore speciale delle Nazioni Unite, come “l’immiserimento di una parte significativa della popolazione britannica”.
La guerra oggi è un’ombra immobile; le guerre imperiali “per sempre” sono considerate normali. L’Iraq, il modello, viene distrutto al costo di un milione di vite e di tre milioni di profughi. Il distruttore, Blair, si arricchisce personalmente e viene adulato al congresso del suo partito come un vincitore elettorale.
Blair e la sua controparte morale, Julian Assange, vivono a 14 miglia di distanza l’uno dall’altro, l’uno in una villa di stile Regency, l’altro in una cella in attesa dell’estradizione all’inferno.
Secondo uno studio della Brown University, dall’11 settembre quasi sei milioni di uomini, donne e bambini sono stati uccisi dall’America e dai suoi accoliti nella “guerra globale al terrorismo”. A Washington verrà costruito un monumento per “celebrare” questo assassinio di massa, il cui comitato è presieduto dall’ex presidente
George W. Bush, mentore di Blair. L’Afghanistan, dove tutto è iniziato, è stato definitivamente distrutto quando il Presidente Biden ha rubato le riserve bancarie nazionali afghane.
Ci sono stati molti Afghanistan. Il giornalista d’inchiesta William Blum si è dedicato a dare un senso a un terrorismo di Stato che raramente ha pronunciato il suo nome e che quindi richiede una ripetizione: Nel corso della mia vita, gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare più di 50 governi, la maggior parte dei quali democratici. Hanno interferito in elezioni democratiche in 30 Paesi. Hanno sganciato bombe sulla popolazione di 30 paesi, la maggior parte dei quali poveri e indifesi. Ha combattuto per reprimere i movimenti di liberazione in 20 Paesi. Ha tentato di assassinare numerosi leader.
Forse sento qualcuno di voi che dice: basta così. Mentre la Soluzione Finale di Gaza viene trasmessa in diretta a milioni di persone, i piccoli volti delle vittime impressi nelle macerie bombardate, incorniciati tra le pubblicità televisive di automobili e
pizza, sì, questo è sicuramente abbastanza. Quanto è profana questa parola “abbastanza”?
L’Afghanistan è stato il luogo in cui l’Occidente ha mandato giovani uomini oberati dal rituale di “guerrieri” che debbono uccidere persone e divertirsi. Sappiamo che alcuni di loro si sono divertiti grazie alle prove dei sociopatici delle forze speciali australiane della SAS, compresa una loro fotografia che li ritrae mentre bevono dalla protesi di un uomo afghano.
Nessun sociopatico è stato incriminato per questo e per altri crimini come il lancio di un uomo da un dirupo, l’uccisione di bambini a bruciapelo, lo sgozzamento: niente di tutto questo “in battaglia”. David McBride, un ex avvocato militare australiano che ha prestato servizio per due volte in Afghanistan, era un “vero credente” nel sistema, ritenuto sistema morale e onorevole. Ha anche una profonda fede nella verità e nella lealtà. È in grado di definirle come pochi sanno fare. La prossima settimana sarà in tribunale a Canberra come presunto criminale.
“Un informatore australiano”, riferisce Kieran Pender, avvocato esperto dell’Australian Human Rights Law Centre, “dovrà affrontare un processo per aver denunciato un’orrenda irregolarità. È profondamente ingiusto che la prima persona processata per crimini di guerra in Afghanistan sia l’informatore e non un presunto criminale di guerra”.
McBride può ricevere una condanna fino a 100 anni per aver rivelato l’insabbiamento del grande crimine dell’Afghanistan. Ha cercato di esercitare il suo diritto legale di informatore in base al Public Interest Disclosure Act, che secondo l’attuale procuratore generale, Mark Dreyfus, “mantiene la nostra promessa di rafforzare le protezioni per chi denuncia irregolarità nel settore pubblico”.
Eppure è stato Dreyfus, ministro laburista, a firmare il processo a McBride, dopo un’attesa punitiva di quattro anni e otto mesi dal suo arresto all’aeroporto di Sydney: un’attesa che ha distrutto la sua salute e la sua famiglia.
Coloro che conoscono David e sanno dell’orribile ingiustizia che gli è stata fatta riempiono la sua strada a Bondi, vicino alla spiaggia di Sydney, per salutare quest’uomo buono e rispettabile. Per loro, e per me, è un eroe.
McBride rimase sconvolto da ciò che trovò nei documenti e files che gli fu ordinato di ispezionare. C’erano prove di crimini e del loro insabbiamento. Passò centinaia di documenti segreti all’Australian Broadcasting Corporation e al Sydney Morning Herald. La polizia fece irruzione negli uffici della ABC a Sydney, mentre giornalisti e produttori assistevano scioccati alla confisca dei loro computer da parte della polizia federale.
Il procuratore generale Dreyfus, autodefinitosi riformatore liberale e amico degli informatori, ha il singolare potere di fermare il processo McBride. Una ricerca della Freedom of Information sulle sue azioni in questa direzione rivela poco, al massimo l’indifferenza.
Non si può gestire una democrazia vera, compiuta e una guerra coloniale; una aspira alla decenza, l’altra è una forma di fascismo, a prescindere dalle sue pretese. Basti pensare ai campi di sterminio di Gaza, bombardati a tappeto dall’apartheid israeliano.
Non è un caso che nella ricca ma impoverita Gran Bretagna sia in corso una “inchiesta” sull’uccisione da parte dei soldati delle SAS britanniche di 80 afghani, tutti civili, tra cui una coppia nel suo letto.
La grottesca ingiustizia di cui è stato vittima David McBride è sul calco dell’ingiustizia di cui è stato vittima il suo compatriota Julian Assange. Entrambi sono miei amici. Ogni volta che li vedo, sono ottimista. “Mi rallegri”, dico a Julian quando alza un pugno di sfida alla fine della nostra visita. “Mi fai sentire orgoglioso”, dico a David nel nostro caffè preferito a Sydney.
Il loro coraggio ha permesso a molti di noi, che potrebbero non avere speranza, di comprendere il vero significato di una resistenza che tutti condividiamo se vogliamo impedire la conquista di noi stessi, della nostra coscienza, del nostro rispetto, se preferiamo la libertà e la decenza alla condiscendenza e alla collusione. In questo siamo tutti Spartaco.
Spartaco era il capo ribelle degli schiavi di Roma nel 71-73 a.C. Nel film Spartaco di Kirk Douglas c’è un momento emozionante in cui i Romani chiedono agli uomini di Spartaco di rivelare il loro capo e di essere così graziati. Invece centinaia di suoi compagni si alzano in piedi, alzano i pugni in segno di solidarietà e gridano: “Io sono Spartaco!”. La ribellione è in corso.
Julian e David sono Spartaco. I palestinesi sono Spartaco. Le persone che riempiono le strade con bandiere, principi morali e solidarietà sono Spartaco. Siamo tutti Spartaco, se vogliamo esserlo.
Continue reading John Pilger: Noi siamo Spartaco Brian Eno non è solo un grande artista ma anche un attivista di lungo corso. Ultimamente è diventato anche portavoce di Stop the War Coalition. Vi segnalo un suo intervento che merita massima diffusione sul massacro di #Gaza e l’atteggiamento di governi e media occidentali.
In quale universo morale viviamo quando un ministro del governo inglese può affrontare la crisi degli alloggi cercando di confiscare le tende in cui sono costretti a vivere i senzatetto?
In quale universo morale viviamo quando lo stesso ministro può descrivere una marcia destinata a salvare le vite di civili disarmati come una “marcia dell’odio”?
In quale universo morale viviamo quando giornalisti ebrei israeliani che chiedono un cessate il fuoco vengono cacciati dalle loro case da bande di coloni armati di fucile?
In quale universo morale viviamo quando una donna ebrea israeliana che protesta in Germania per l’annientamento di Gaza viene arrestata per antisemitismo?
In quale universo morale viviamo quando il nostro governo sostiene uno Stato che sgancia 20000 tonnellate di bombe per demolire ospedali, moschee, scuole, centrali elettriche, strade e convogli di aiuti e rende inabitabili cinquantamila edifici civili?
In quale universo morale viviamo quando Itamar ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza, dice alla polizia di sparare sui palestinesi che difendono le loro case dai coloni e dice ai palestinesi: “Siamo noi i padroni di casa qui, ricordatelo, io sono il vostro padrone di casa”.
In quale universo morale viviamo quando B’tselem, la più grande organizzazione israeliana per i diritti umani, viene liquidata come antisemita per aver detto che “la Striscia di Gaza è in preda a un disastro umanitario causato dall’uomo. Questo è il risultato diretto della politica ufficiale di Israele, che continua a determinare la vita quotidiana a Gaza. Israele potrebbe cambiare questa politica e migliorare significativamente la qualità della vita a Gaza. Potrebbe anche persistere nella sua politica insensibile e indifendibile che condanna i quasi due milioni di residenti della Striscia di Gaza a una vita di abietta povertà in condizioni quasi disumane”.
Non si tratta di ebrei contro il resto di noi: si tratta di persone, ebree e non, che credono nella pace contro persone che credono nella guerra.
testo originale: https://www.stopwar.org.uk/article/brian-eno-this-is-about-who-believe-in-peace-vs-people-who-believe-in-war/ Socializzo anche una sua intervista su guerra in Ucraina:
Le mie opinioni sul conflitto arabo-israeliano: Israele deve accettare l’esistenza di uno Stato palestinese (1972) Molti amici, soprattutto tra studenti, mi hanno chiesto di esprimere loro la mia opinione sulla situazione in Medio Oriente. Rispondo loro con questa dichiarazione. Questa è un’opinione personale basata sulle discussioni che ho avuto con molte persone, sia ebrei che arabi, in diverse parti del Paese, e su una lettura abbastanza approfondita di documenti e fonti secondarie. Sono pienamente consapevole dei suoi limiti e lo offro come semplice contributo al dibattito. Credo che l’obiettivo storico dietro la fondazione dello Stato di Israele fosse quello di prevenire il riemergere di campi di concentramento, pogrom e altre forme di persecuzione e discriminazione. Sostengo pienamente questo obiettivo che, per me, è parte della lotta per la libertà e l’uguaglianza di tutte le minoranze etniche e nazionali nel mondo. Nell’attuale contesto internazionale, il perseguimento di tale obiettivo presuppone l’esistenza di uno Stato sovrano capace di accogliere e proteggere gli ebrei perseguitati o che vivono sotto minaccia di persecuzione. Se un tale Stato fosse esistito quando il regime nazista salì al potere, avrebbe impedito lo sterminio di milioni di ebrei. Se un tale Stato fosse stato aperto ad altre minoranze perseguitate, comprese le vittime di persecuzioni politiche, avrebbe salvato molte più vite. Alla luce di questi fatti, la nostra discussione deve basarsi sul riconoscimento di Israele come Stato sovrano e sulla considerazione delle condizioni in cui è stato fondato, vale a dire l’ingiustizia che è stata fatta alla popolazione araba indigena. La creazione dello Stato di Israele è stato un atto politico, reso possibile dalle grandi potenze perché rientrava nel perseguimento dei propri interessi. Durante il periodo di insediamento precedente alla fondazione dello Stato, e durante la fondazione stessa, i diritti e gli interessi della popolazione indigena non furono adeguatamente rispettati. La fondazione dello Stato ebraico ha comportato, fin dall’inizio, l’evacuazione del popolo palestinese, in parte con la forza, in parte sotto pressione (economica e non), in parte “volontariamente”. La popolazione araba rimasta in Israele si trovò ridotta allo status economico e sociale di cittadini di seconda classe, nonostante i diritti loro concessi. Le differenze nazionali, razziali e religiose sono diventate differenze di classe: la vecchia contraddizione è riemersa nella nuova società, aggravata dalla fusione di conflitti interni ed esterni. Sotto tutti questi aspetti, le origini dello Stato di Israele non sono fondamentalmente diverse da quelle di praticamente qualsiasi stato nella storia: fondazione attraverso la conquista, l’occupazione e la discriminazione. (L’approvazione delle Nazioni Unite non cambia la situazione: questa approvazione ha confermato di fatto la conquista.) Una volta accettato questo fatto compiuto e l’obiettivo storico fondamentale che lo Stato di Israele si è posto, si pone la questione se questo Stato, così come è costituito oggi e con la politica che attualmente conduce, sia in grado di raggiungere il suo obiettivo pur esistendo come una società progressista che mantiene relazioni normalmente pacifiche con i suoi vicini. Risponderò a questa domanda facendo riferimento ai confini di Israele nel 1948. Qualsiasi annessione, qualunque sia la sua forma, suggerirebbe già, a mio avviso, una risposta negativa. Significherebbe che Israele potrebbe garantire la propria sopravvivenza solo come fortezza militare in un vasto ambiente ostile, e che la sua cultura materiale e intellettuale si sottometterebbe alle crescenti richieste militari. La natura pericolosamente precaria ed effimera di tale soluzione è fin troppo evidente. Mentre una superpotenza (o i suoi satelliti) possono esistere in queste condizioni per un periodo prolungato, questa possibilità è esclusa per Israele a causa delle sue dimensioni geografiche e della politica degli armamenti delle superpotenze. Partendo dalla situazione attuale, il primo prerequisito per una soluzione è un trattato di pace con la Repubblica Araba Unita; un trattato che includa il riconoscimento dello Stato di Israele, il libero accesso al Canale di Suez e al Golfo di Akaba e una soluzione alla questione dei rifugiati. Credo che sia possibile negoziare un simile trattato adesso, e che la risposta dell’Egitto alla missione Jarring (15 febbraio 1971) fornisca una base accettabile per negoziati immediati. Soprattutto, l’Egitto chiede che Israele si impegni a ritirare le sue forze armate dal Sinai e dalla Striscia di Gaza. La creazione di una zona smilitarizzata, posta sotto la protezione di una forza delle Nazioni Unite, potrebbe scongiurare la possibilità di un devastante attacco arabo al quale, secondo alcuni, questo ritiro esporrebbe Israele. Il rischio corso non mi sembra maggiore del rischio permanente di guerra esistente nelle condizioni attuali. La potenza più forte può permettersi le maggiori concessioni – e sembra che Israele sia quella potenza. Lo status di Gerusalemme potrebbe rivelarsi l’ostacolo più serio ad un trattato di pace. Un sentimento religioso profondamente radicato, su cui giocano costantemente i loro leader, rende inaccettabile agli occhi degli arabi (e dei cristiani?) che Gerusalemme sia la capitale di uno Stato ebraico. Una soluzione alternativa potrebbe consistere nel porre la città una volta riunificata (Est e Ovest) sotto amministrazione e protezione internazionale. Nella sua risposta, l’Egitto chiede anche una “giusta soluzione del problema dei rifugiati in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite”. La formulazione di queste risoluzioni (compresa la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza) è soggetta a interpretazione e, in questo senso, deve essere essa stessa oggetto di negoziati. Vorrei menzionare solo due possibilità (o la loro combinazione), che sono state suggerite nelle discussioni che ho avuto con personalità ebraiche e arabe. 1. Ritorno in Israele dei palestinesi che sono stati sfollati e desiderano ritornare. Questa possibilità è limitata in anticipo nella misura in cui le terre arabe sono diventate terre ebraiche e le proprietà arabe sono proprietà ebraiche. Questo è un altro fatto storico sul quale non possiamo ritornare senza commettere un nuovo torto. Ciò potrebbe essere mitigato se questi palestinesi si stabilissero su terreni ancora disponibili e/o se venissero offerte loro strutture e risarcimenti adeguati. Questa soluzione è ufficialmente respinta sulla base (di per sé corretta) che un simile ritorno trasformerebbe rapidamente la maggioranza ebraica in una minoranza e, quindi, distruggerebbe lo scopo stesso della creazione dello Stato ebraico. Tuttavia, ritengo che proprio la politica volta a garantire una maggioranza permanente sia, di per sé, destinata al fallimento. La popolazione ebraica è condannata a rimanere una minoranza all’interno del vasto gruppo delle nazioni arabe, dalla quale non può separarsi indefinitamente senza ricadere nelle condizioni di un ghetto su scala più ampia. Israele, certamente, potrebbe mantenere una maggioranza ebraica attraverso una politica di immigrazione aggressiva, che, a sua volta, rafforzerebbe continuamente il nazionalismo arabo. Ma Israele non può esistere come Stato progressista se continua a vedere i suoi vicini come il Nemico, l’Erbfeind. Non è nell’esistenza di una maggioranza chiusa in se stessa, isolata e preda della paura che il popolo ebraico trovi una protezione duratura, ma solo nella convivenza tra ebrei e arabi come cittadini beneficiari degli stessi diritti e libertà. Questa coesistenza può solo risultare da un lungo processo di tentativi ed errori, ma ora esistono i prerequisiti per muovere i primi passi. Si scopre che il popolo palestinese vive da secoli in un territorio oggi parzialmente occupato e amministrato da Israele. Queste condizioni rendono Israele una potenza occupante (anche all’interno di Israele), e il Movimento di Liberazione della Palestina un movimento di liberazione nazionale – per quanto liberale possa essere la potenza occupante. 2. Le aspirazioni nazionali del popolo palestinese potrebbero essere soddisfatte dalla creazione di uno Stato nazionale palestinese accanto allo Stato di Israele. Spetterà al popolo palestinese decidere, attraverso un referendum sotto il controllo delle Nazioni Unite, se questo Stato dovrà essere un’entità indipendente o federato con Israele o Giordania. La soluzione ottimale sarebbe la coesistenza tra israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, su un piano di parità all’interno di una federazione socialista di stati del Medio Oriente. Questa prospettiva resta utopica. Le possibilità discusse sopra rimangono soluzioni temporanee che si presentano qui e ora: rifiutarle completamente potrebbe causare danni irreparabili. Herbert Marcuse
Intervento a Berlino (1967) “Vorrei permettermi una breve digressione, apparentemente estranea al tema del dibattito attuale. Ho notato nei vostri interventi un fenomeno singolare, una sorta di blocco: una totale assenza di allusione al conflitto mediorientale. Al contrario, credo che sia più che legittimo integrare il problema del conflitto arabo-israeliano nel dibattito sull’attuale situazione dell’archeocapitalismo nel Terzo Mondo, a causa del suo impatto disastroso sulle diverse forze del progresso e in particolare della sinistra marxista. Soprattutto negli Stati Uniti, la sinistra emerse da questo conflitto più divisa che mai. Inoltre, ritengo non sia esagerato affermare che il conflitto in Medio Oriente abbia ulteriormente indebolito la già limitata opposizione alla guerra in Vietnam. Le ragioni di questo fenomeno sono evidenti: esiste infatti, all’interno delle forze progressiste, una tendenza molto forte e molto comprensibile ad identificarsi con Israele. D’altra parte, questa sinistra, e in particolare la sinistra marxista, non possono fingere di ignorare che il mondo arabo coincide in parte con il campo antimperialista. In queste condizioni, la solidarietà sentimentale e la solidarietà razionale appaiono oggettivamente distinte, addirittura dissociate. Detto questo dovete interpretare quanto vi dico come un parere personale che sottopongo al vostro giudizio piuttosto che come un’analisi oggettiva del problema. Dovete capire quanto mi sento solidale e mi identifico con Israele per ragioni personali, ma non solo per queste ragioni. Io stesso, che ho sempre affermato la piena legittimità dei sentimenti, delle concezioni morali e dei sentimenti nella politica e anche nella scienza, io che ho sempre sostenuto l’impossibilità di realizzare scienza e politica senza l’elemento umano, sono obbligato a vedere in questa solidarietà più che un semplice pregiudizio personale. Non posso dimenticare che per secoli gli ebrei furono perseguitati e oppressi e che non molto tempo fa sei milioni di loro furono sterminati. Questo è un fatto oggettivo. Gli ebrei hanno finalmente trovato una terra dove non devono più temere persecuzioni, persecuzioni e oppressione e mi identifico con l’obiettivo che hanno raggiunto. Sono felice di poter concordare, anche in questo caso, con Jean-Paul Sartre che ha affermato: «L’unica cosa che dobbiamo impedire a tutti i costi è una nuova guerra di sterminio contro Israele». Per risolvere il problema bisogna partire da questa premessa, ma ciò non implica l’accettazione totale delle tesi di Israele, né di quelle dei suoi nemici. Permettetemi di esprimere la mia opinione in modo più completo e chiaro: la fondazione di Israele come Stato autonomo può essere definita illegittima nella misura in cui è stata effettuata sulla base di un accordo internazionale, su un territorio straniero e senza tener conto della popolazione locale e del suo destino. Ma questa ingiustizia non può essere riparata da una seconda ingiustizia. Lo Stato di Israele esiste e deve trovare un terreno di incontro e di comprensione con il mondo ostile che lo circonda. Questa soluzione è l’unica possibile. Ammetto che alla prima ingiustizia se ne sono aggiunte altre da parte di Israele. Il trattamento riservato alla popolazione araba è stato quantomeno riprovevole, se non peggiore. La politica di Israele ha avuto aspetti razzisti e nazionalisti che noi ebrei avremmo dovuto essere i primi a condannare. È assolutamente inaccettabile che gli arabi in Israele siano trattati come cittadini di seconda classe, anche se esiste l’uguaglianza giuridica. Una terza ingiustizia (e si vede che non sto semplificando le cose) è il fatto che ritengo incontestabile che dalla creazione dello Stato la politica israeliana sia stata troppo servile e la politica estera americana troppo passiva (…). E questo atteggiamento ha facilitato l’identificazione di Israele con l’imperialismo, consentendo al contrario l’identificazione della causa araba con quella dell’antimperialismo. Ma anche qui non voglio semplificare le cose: il mondo arabo non costituisce un’unità. Sapete bene quanto me come è composto da stati e società sia progressisti che reazionari. Quando parliamo di sostegno all’imperialismo, dobbiamo sempre chiederci se quest’ultimo non sia meglio servito dalle continue forniture di petrolio provenienti dall’Arabia Saudita e dal Kuwait che dai voti di Israele all’ONU. In secondo luogo, dobbiamo tenere conto delle ripetute offerte di pace di Israele, offerte che i rappresentanti del mondo arabo hanno costantemente rifiutato. In terzo luogo, non possiamo perdere di vista le dichiarazioni precise, chiare e clamorose dei portavoce arabi che proclamano il loro desiderio di scatenare una guerra di sterminio contro Israele. Questo è un fatto che mi dispiace terribilmente e, purtroppo, basta fare qualche ricerca per averne la prova. È in tale contesto che la guerra preventiva (perché tale era infatti il carattere della guerra condotta contro Egitto, Giordania e Siria) può e deve essere compresa e giustificata. Attualmente il problema è: cosa si può fare per porre fine a un susseguirsi di conflitti così terribile? Purtroppo, da molto tempo il confronto tra Israele e gli Stati arabi si è evoluto in un confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, passando dalla sfera regionale a quella della diplomazia, pubblica e segreta, non per citare quello della concorrenza tra fornitori di armi da entrambe le parti. Come riportare il conflitto alla sua estensione originaria? Tutti noi dobbiamo cercare, per quanto possibile, di convincere i rappresentanti di Israele e dei paesi arabi a incontrarsi per discutere e, in definitiva, cercare di risolvere i loro problemi, che in realtà sono diversi da quelli delle grandi potenze. La soluzione ideale sarebbe che da queste discussioni emergesse un fronte comune, formato da Israele e dai suoi avversari arabi, contro l’attacco delle potenze imperialiste. Questo è un problema che è già maturo. Anche nei Paesi arabi, infatti – non dimentichiamolo – resta ancora da fare la rivoluzione sociale, rivoluzione che, forse, rappresenta un compito più urgente e imperativo della distruzione di Israele. ….. Su Herbert Marcuse su questo blog anche una lezione di Angela Davis e un dialogo sul comunismo democratico ![]() Il leader di Hamas Ismail Haniyeh e altri leader di Hamas guidano una preghiera prima di ospitare una cena di fine digiuno dell’Iftar Ramadan in Qatar con funzionari del Qatar e diplomatici internazionali, 13 aprile 2023 (Hamas.ps) Pubblico un articolo dello scomparso Samir Amin, economista egiziano marxista e antimperialista, pubblicato nel 2013. Visto che si parla tanto di Hamas credo che sia utile alla riflessione. Per approfondire consiglio il suo saggio Sconfiggere l’Islam politico e l’imperialismo e il suo classico sull’eurocentrismo che ben descrive la fase che stiamo vivendo e che riguarda l’Occidente come il mondo musulmano e in generale il capitalismo globale: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (la citazione è tratta da una recensione che consiglio). Rimango convinto che solo la rifondazione di un socialismo/comunismo del XXI secolo può contrastare questa deriva del capitalismo globale sempre più caratterizzato dalla guerra. A proposito di alternativa socialista/comunista vi segnalo una testimonianza di Samir Amin su Thomas Sankara e soprattutto un suo testo ESSERE MARXISTA, ESSERE COMUNISTA, ESSERE INTERNAZIONALISTA OGGI che trovate nella biblioteca di Rifondazione. Su Hamas in Qatar ho scritto un articolo. Questo breve articolo, che è solo complementare rispetto a scritti più approfonditi dell’autore, non vuole essere né provocatore, né polemico. Intendo solo mettere i puntini sulle “i”. Ricordo quindi con brevi parole ciò che ho già scritto e ripetuto: io non discuto della possibilità teorica di “un islam politico moderno che sia democratico”, ma dei partiti che di fatto esistono e che si dicono islamisti. Non discuto nemmeno dell’islam come religione. Ho spesso scritto in arabo, in francese e in inglese, e con precisione, su cosa intendo per “islam politico reazionario”, riassumibile nella perifrasi che di tanto in tanto ricordo: “movimento sedicente islamico e di fatto politico reazionario e antidemocratico”. Continue reading Samir Amin: L’islam politico è solubile nella democrazia? (2013) |
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