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Italo Calvino: l’unico partito possibile (1979)

Di Calvino si ricorda sempre e giustamente l’uscita dal PCI nel 1957 ma spesso si dimentica che rimase sempre compagno di strada del partito. Su Calvino comunista consiglio di leggere questi appunti

L’unico partito possibile. Così L’Unità il 26 maggio 1979 titolava la dichiarazione di voto dello scrittore Italo Calvino ripresa dalla rivista «Nuova Società». Andrebbe verificato cosa disse e scrisse nel periodo successivo. Buona lettura!

Io voto scheda bianca. Almeno dico a tutti che voto scheda bianca. È il mio solo modo di protestare contro queste elezioni che non rìsolveranno niente.
L’occasione dell’unità nazionale della passata legislatura che poteva servire almeno per gettare le basi di qualcosa di positivo è stata sprecata. Va bene che tutto è stato fatto per impedire uno sviluppo positivo e che l’uccisione di Moro ha dato subito i frutti voluti da quelli che l’hanno architettata, che possono essere molti. Ma già il fatto che le possibilità di sviluppo si basassero sull’esile filo della politica condotta da un uomo indica una debolezza sostanziale.
Il partito comunista, che resta la forza più responsabile e con più senso della realtà, ha nutrito troppo poco la sua politica di proposte concrete e ha subordinato troppo tutto alla tenuta dello schieramento mentre avrebbe doluto puntare i piedi fin da principio su una serie di punti fondamentali (mi rendo conto che anch’io sto facendo dei discorsi generici, ma siamo annegali in questa genericità veramente pestilenziale).
Oggi tutti sembrano d’accordo nell’affrontare un argomento che fino a ieri era tabù, cioè quello di rendere più efficiente il sistema politico anche attraverso riforme elettorali. Però questo doveva essere fatto in un clima di unità nazionale e se l’unità non continua non so come si risolva. Insomma la mia sarà una scheda bianca anche se poi all’ultime momento mi verrà da tracciare un piccolo segno sul simbolo di quello che resta l’unico partito possibile.

L’Unità sabato 26 maggio 1979

John Pilger: Noi siamo Spartaco

Spartacus è un film hollywoodiano del 1960 basato su un libro scritto segretamente dal romanziere Howard Fast, inserito nella lista nera, e adattato dallo sceneggiatore Dalton Trumbo, uno dei “10 di Hollywood” che furono banditi per la loro politica “antiamericana”. È una parabola di resistenza e di eroismo che parla senza alcun dubbio ai nostri tempi.
Entrambi gli scrittori erano comunisti e vittime del senatore Joseph McCarthy, presidente della Commissione per le Operazioni Governative e della sua Sottocommissione Permanente per le Indagini del Senato degli Stati Uniti che, nel corso della Guerra Fredda, distrusse le carriere e spesso le vite di coloro che avevano saldi principi e il coraggio sufficiente per opporsi a un fascismo in versione locale Usa.
“Questo è un momento critico, ora, in questo momento preciso …” scriveva Arthur Miller ne Il crogiuolo “Non viviamo più nel crepuscolo pomeridiano in cui il male si mescolava al bene e confondeva il mondo”.
C’è un provocatore “preciso” ora; è evidente a tutti coloro i quali vogliono vederlo e prevedere le sue azioni. Si tratta di una banda di Stati guidata dagli Stati Uniti, il cui obiettivo dichiarato è la “full spectrum dominance” (il dominio a tutto spettro). La Russia è tuttora ùl’odiata, la Cina Rossa la temuta.
Da Washington e Londra, la virulenza non ha limiti. Israele, anacronismo coloniale e mastino sguinzagliato, è armato fino ai denti e gode di un’impunità storica, in modo tale che “noi” occidentali ci assicuriamo che il sangue e le lacrime non si asciughino mai in Palestina.
I parlamentari britannici che osano chiedere un cessate il fuoco a Gaza sono messi al bando, la porta di ferro della politica bipartitica è chiusa loro da un leader del partito laburista che vorrebbe che acqua e cibo fossero negati ai bambini.
Ai tempi di McCarthy, vi erano comunque spiragli di verità. I cani sciolti accolti allora diventano eretici oggi; esiste un giornalismo sotterraneo (come questo sito, Consortium News) in un paesaggio di conformismo ipocrita. I giornalisti dissenzienti sono stati defenestrati dal “mainstream” (come scrisse il grande editore David Bowman); il compito dei media è quello di capovolgere la verità e di sostenere le illusioni della democrazia, compresa una “stampa libera”.
La socialdemocrazia si è ridotta alla larghezza di una carta di sigarette che separa le politiche principali dei partiti maggiori. La loro comune adesione è a un culto capitalistico, il neoliberismo, e a una povertà imposta, descritta da un relatore speciale delle Nazioni Unite, come “l’immiserimento di una parte significativa della popolazione britannica”.
La guerra oggi è un’ombra immobile; le guerre imperiali “per sempre” sono considerate normali. L’Iraq, il modello, viene distrutto al costo di un milione di vite e di tre milioni di profughi. Il distruttore, Blair, si arricchisce personalmente e viene adulato al congresso del suo partito come un vincitore elettorale.
Blair e la sua controparte morale, Julian Assange, vivono a 14 miglia di distanza l’uno dall’altro, l’uno in una villa di stile Regency, l’altro in una cella in attesa dell’estradizione all’inferno.
Secondo uno studio della Brown University, dall’11 settembre quasi sei milioni di uomini, donne e bambini sono stati uccisi dall’America e dai suoi accoliti nella “guerra globale al terrorismo”. A Washington verrà costruito un monumento per “celebrare” questo assassinio di massa, il cui comitato è presieduto dall’ex presidente
George W. Bush, mentore di Blair. L’Afghanistan, dove tutto è iniziato, è stato definitivamente distrutto quando il Presidente Biden ha rubato le riserve bancarie nazionali afghane.
Ci sono stati molti Afghanistan. Il giornalista d’inchiesta William Blum si è dedicato a dare un senso a un terrorismo di Stato che raramente ha pronunciato il suo nome e che quindi richiede una ripetizione: Nel corso della mia vita, gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare più di 50 governi, la maggior parte dei quali democratici. Hanno interferito in elezioni democratiche in 30 Paesi. Hanno sganciato bombe sulla popolazione di 30 paesi, la maggior parte dei quali poveri e indifesi. Ha combattuto per reprimere i movimenti di liberazione in 20 Paesi. Ha tentato di assassinare numerosi leader.
Forse sento qualcuno di voi che dice: basta così. Mentre la Soluzione Finale di Gaza viene trasmessa in diretta a milioni di persone, i piccoli volti delle vittime impressi nelle macerie bombardate, incorniciati tra le pubblicità televisive di automobili e
pizza, sì, questo è sicuramente abbastanza. Quanto è profana questa parola “abbastanza”?
L’Afghanistan è stato il luogo in cui l’Occidente ha mandato giovani uomini oberati dal rituale di “guerrieri” che debbono uccidere persone e divertirsi. Sappiamo che alcuni di loro si sono divertiti grazie alle prove dei sociopatici delle forze speciali australiane della SAS, compresa una loro fotografia che li ritrae mentre bevono dalla protesi di un uomo afghano.
Nessun sociopatico è stato incriminato per questo e per altri crimini come il lancio di un uomo da un dirupo, l’uccisione di bambini a bruciapelo, lo sgozzamento: niente di tutto questo “in battaglia”. David McBride, un ex avvocato militare australiano che ha prestato servizio per due volte in Afghanistan, era un “vero credente” nel sistema, ritenuto sistema morale e onorevole. Ha anche una profonda fede nella verità e nella lealtà. È in grado di definirle come pochi sanno fare. La prossima settimana sarà in tribunale a Canberra come presunto criminale.
“Un informatore australiano”, riferisce Kieran Pender, avvocato esperto dell’Australian Human Rights Law Centre, “dovrà affrontare un processo per aver denunciato un’orrenda irregolarità. È profondamente ingiusto che la prima persona processata per crimini di guerra in Afghanistan sia l’informatore e non un presunto criminale di guerra”.
McBride può ricevere una condanna fino a 100 anni per aver rivelato l’insabbiamento del grande crimine dell’Afghanistan. Ha cercato di esercitare il suo diritto legale di informatore in base al Public Interest Disclosure Act, che secondo l’attuale procuratore generale, Mark Dreyfus, “mantiene la nostra promessa di rafforzare le protezioni per chi denuncia irregolarità nel settore pubblico”.
Eppure è stato Dreyfus, ministro laburista, a firmare il processo a McBride, dopo un’attesa punitiva di quattro anni e otto mesi dal suo arresto all’aeroporto di Sydney: un’attesa che ha distrutto la sua salute e la sua famiglia.
Coloro che conoscono David e sanno dell’orribile ingiustizia che gli è stata fatta riempiono la sua strada a Bondi, vicino alla spiaggia di Sydney, per salutare quest’uomo buono e rispettabile. Per loro, e per me, è un eroe.
McBride rimase sconvolto da ciò che trovò nei documenti e files che gli fu ordinato di ispezionare. C’erano prove di crimini e del loro insabbiamento. Passò centinaia di documenti segreti all’Australian Broadcasting Corporation e al Sydney Morning Herald. La polizia fece irruzione negli uffici della ABC a Sydney, mentre giornalisti e produttori assistevano scioccati alla confisca dei loro computer da parte della polizia federale.
Il procuratore generale Dreyfus, autodefinitosi riformatore liberale e amico degli informatori, ha il singolare potere di fermare il processo McBride. Una ricerca della Freedom of Information sulle sue azioni in questa direzione rivela poco, al massimo l’indifferenza.
Non si può gestire una democrazia vera, compiuta e una guerra coloniale; una aspira alla decenza, l’altra è una forma di fascismo, a prescindere dalle sue pretese. Basti pensare ai campi di sterminio di Gaza, bombardati a tappeto dall’apartheid israeliano.
Non è un caso che nella ricca ma impoverita Gran Bretagna sia in corso una “inchiesta” sull’uccisione da parte dei soldati delle SAS britanniche di 80 afghani, tutti civili, tra cui una coppia nel suo letto.
La grottesca ingiustizia di cui è stato vittima David McBride è sul calco dell’ingiustizia di cui è stato vittima il suo compatriota Julian Assange. Entrambi sono miei amici. Ogni volta che li vedo, sono ottimista. “Mi rallegri”, dico a Julian quando alza un pugno di sfida alla fine della nostra visita. “Mi fai sentire orgoglioso”, dico a David nel nostro caffè preferito a Sydney.
Il loro coraggio ha permesso a molti di noi, che potrebbero non avere speranza, di comprendere il vero significato di una resistenza che tutti condividiamo se vogliamo impedire la conquista di noi stessi, della nostra coscienza, del nostro rispetto, se preferiamo la libertà e la decenza alla condiscendenza e alla collusione. In questo siamo tutti Spartaco.
Spartaco era il capo ribelle degli schiavi di Roma nel 71-73 a.C. Nel film Spartaco di Kirk Douglas c’è un momento emozionante in cui i Romani chiedono agli uomini di Spartaco di rivelare il loro capo e di essere così graziati. Invece centinaia di suoi compagni si alzano in piedi, alzano i pugni in segno di solidarietà e gridano: “Io sono Spartaco!”. La ribellione è in corso.
Julian e David sono Spartaco. I palestinesi sono Spartaco. Le persone che riempiono le strade con bandiere, principi morali e solidarietà sono Spartaco. Siamo tutti Spartaco, se vogliamo esserlo.

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BRIAN ENO: SI TRATTA DI PERSONE CHE CREDONO NELLA PACE CONTRO PERSONE CHE CREDONO NELLA GUERRA

Brian Eno non è solo un grande artista ma anche un attivista di lungo corso. Ultimamente è diventato anche portavoce di Stop the War Coalition. Vi segnalo un suo intervento che merita massima diffusione sul massacro di #Gaza e l’atteggiamento di governi e media occidentali. 
In quale universo morale viviamo quando un ministro del governo inglese può affrontare la crisi degli alloggi cercando di confiscare le tende in cui sono costretti a vivere i senzatetto?
In quale universo morale viviamo quando lo stesso ministro può descrivere una marcia destinata a salvare le vite di civili disarmati come una “marcia dell’odio”?
In quale universo morale viviamo quando giornalisti ebrei israeliani che chiedono un cessate il fuoco vengono cacciati dalle loro case da bande di coloni armati di fucile?
In quale universo morale viviamo quando una donna ebrea israeliana che protesta in Germania per l’annientamento di Gaza viene arrestata per antisemitismo?
In quale universo morale viviamo quando il nostro governo sostiene uno Stato che sgancia 20000 tonnellate di bombe per demolire ospedali, moschee, scuole, centrali elettriche, strade e convogli di aiuti e rende inabitabili cinquantamila edifici civili?
In quale universo morale viviamo quando Itamar ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza, dice alla polizia di sparare sui palestinesi che difendono le loro case dai coloni e dice ai palestinesi: “Siamo noi i padroni di casa qui, ricordatelo, io sono il vostro padrone di casa”.
In quale universo morale viviamo quando B’tselem, la più grande organizzazione israeliana per i diritti umani, viene liquidata come antisemita per aver detto che “la Striscia di Gaza è in preda a un disastro umanitario causato dall’uomo. Questo è il risultato diretto della politica ufficiale di Israele, che continua a determinare la vita quotidiana a Gaza. Israele potrebbe cambiare questa politica e migliorare significativamente la qualità della vita a Gaza. Potrebbe anche persistere nella sua politica insensibile e indifendibile che condanna i quasi due milioni di residenti della Striscia di Gaza a una vita di abietta povertà in condizioni quasi disumane”.
Non si tratta di ebrei contro il resto di noi: si tratta di persone, ebree e non, che credono nella pace contro persone che credono nella guerra.

testo originale: https://www.stopwar.org.uk/article/brian-eno-this-is-about-who-believe-in-peace-vs-people-who-believe-in-war/

Socializzo anche una sua intervista su guerra in Ucraina:

 

 

Marcuse, Israele e gli ebrei

Nel Natale del 1971, invitato a tenere lezioni all’Università Ebraica di Gerusalemme, Herbert Marcuse visitò Israele per la prima volta. Fu per lui l’occasione per visitare il Paese e confrontarsi con la popolazione araba e israeliana sulla questione palestinese. Incontrò anche Moshe Dayan come ha rivelato Zvi Tauber su Telos. Questa è l’articolo che pubblicò sul quotidiano israeliano in lingua inglese “ Jerusalem Post” il 2 gennaio 1972 sotto il titolo “Israel is Strong Enough to Concede”. Una traduzione ebraica di quell’articolo apparve contemporaneamente sul quotidiano israeliano quotidiano Haaretz con il titolo “Le mie opinioni sul conflitto arabo-israeliano: Israele deve accettare l’esistenza di uno Stato palestinese”. Tradotto all’epoca in arabo, suscitò un intenso dibattito. Pubblico anche la traduzione di un intervento precedente del 1967 in un dibattito con Rudi Dutschke e Wolfgang Lefèvre che fu pubblicato su Elements, rivista del Comitato della Sinistra per la Pace Negoziata in Medio Oriente, n° 1, dicembre 1968

Le mie opinioni sul conflitto arabo-israeliano: Israele deve accettare l’esistenza di uno Stato palestinese (1972)

Molti amici, soprattutto tra studenti, mi hanno chiesto di esprimere loro la mia opinione sulla situazione in Medio Oriente. Rispondo loro con questa dichiarazione. Questa è un’opinione personale basata sulle discussioni che ho avuto con molte persone, sia ebrei che arabi, in diverse parti del Paese, e su una lettura abbastanza approfondita di documenti e fonti secondarie. Sono pienamente consapevole dei suoi limiti e lo offro come semplice contributo al dibattito.

Credo che l’obiettivo storico dietro la fondazione dello Stato di Israele fosse quello di prevenire il riemergere di campi di concentramento, pogrom e altre forme di persecuzione e discriminazione. Sostengo pienamente questo obiettivo che, per me, è parte della lotta per la libertà e l’uguaglianza di tutte le minoranze etniche e nazionali nel mondo.

Nell’attuale contesto internazionale, il perseguimento di tale obiettivo presuppone l’esistenza di uno Stato sovrano capace di accogliere e proteggere gli ebrei perseguitati o che vivono sotto minaccia di persecuzione. Se un tale Stato fosse esistito quando il regime nazista salì al potere, avrebbe impedito lo sterminio di milioni di ebrei. Se un tale Stato fosse stato aperto ad altre minoranze perseguitate, comprese le vittime di persecuzioni politiche, avrebbe salvato molte più vite.

Alla luce di questi fatti, la nostra discussione deve basarsi sul riconoscimento di Israele come Stato sovrano e sulla considerazione delle condizioni in cui è stato fondato, vale a dire l’ingiustizia che è stata fatta alla popolazione araba indigena.

La creazione dello Stato di Israele è stato un atto politico, reso possibile dalle grandi potenze perché rientrava nel perseguimento dei propri interessi. Durante il periodo di insediamento precedente alla fondazione dello Stato, e durante la fondazione stessa, i diritti e gli interessi della popolazione indigena non furono adeguatamente rispettati.

La fondazione dello Stato ebraico ha comportato, fin dall’inizio, l’evacuazione del popolo palestinese, in parte con la forza, in parte sotto pressione (economica e non), in parte “volontariamente”.  La popolazione araba rimasta in Israele si trovò ridotta allo status economico e sociale di cittadini di seconda classe, nonostante i diritti loro concessi. Le differenze nazionali, razziali e religiose sono diventate differenze di classe: la vecchia contraddizione è riemersa nella nuova società, aggravata dalla fusione di conflitti interni ed esterni.

Sotto tutti questi aspetti, le origini dello Stato di Israele non sono fondamentalmente diverse da quelle di praticamente qualsiasi stato nella storia: fondazione attraverso la conquista, l’occupazione e la discriminazione. (L’approvazione delle Nazioni Unite non cambia la situazione: questa approvazione ha confermato di fatto la conquista.)

Una volta accettato questo fatto compiuto e l’obiettivo storico fondamentale che lo Stato di Israele si è posto, si pone la questione se questo Stato, così come è costituito oggi e con la politica che attualmente conduce, sia in grado di raggiungere il suo obiettivo pur esistendo come una società progressista che mantiene relazioni normalmente pacifiche con i suoi vicini.

Risponderò a questa domanda facendo riferimento ai confini di Israele nel 1948. Qualsiasi annessione, qualunque sia la sua forma, suggerirebbe già, a mio avviso, una risposta negativaSignificherebbe che Israele potrebbe garantire la propria sopravvivenza solo come fortezza militare in un vasto ambiente ostile, e che la sua cultura materiale e intellettuale si sottometterebbe alle crescenti richieste militari. La natura pericolosamente precaria ed effimera di tale soluzione è fin troppo evidente. Mentre una superpotenza (o i suoi satelliti) possono esistere in queste condizioni per un periodo prolungato, questa possibilità è esclusa per Israele a causa delle sue dimensioni geografiche e della politica degli armamenti delle superpotenze.

Partendo dalla situazione attuale, il primo prerequisito per una soluzione è un trattato di pace con la Repubblica Araba Unita; un trattato che includa il riconoscimento dello Stato di Israele, il libero accesso al Canale di Suez e al Golfo di Akaba e una soluzione alla questione dei rifugiati. Credo che sia possibile negoziare un simile trattato adesso, e che la risposta dell’Egitto alla missione Jarring (15 febbraio 1971) fornisca una base accettabile per negoziati immediati.

Soprattutto, l’Egitto chiede che Israele si impegni a ritirare le sue forze armate dal Sinai e dalla Striscia di Gaza. La creazione di una zona smilitarizzata, posta sotto la protezione di una forza delle Nazioni Unite, potrebbe scongiurare la possibilità di un devastante attacco arabo al quale, secondo alcuni, questo ritiro esporrebbe Israele. Il rischio corso non mi sembra maggiore del rischio permanente di guerra esistente nelle condizioni attuali. La potenza più forte può permettersi le maggiori concessioni – e sembra che Israele sia quella potenza.

Lo status di Gerusalemme potrebbe rivelarsi l’ostacolo più serio ad un trattato di pace. Un sentimento religioso profondamente radicato, su cui giocano costantemente i loro leader, rende inaccettabile agli occhi degli arabi (e dei cristiani?) che Gerusalemme sia la capitale di uno Stato ebraico. Una soluzione alternativa potrebbe consistere nel porre la città una volta riunificata (Est e Ovest) sotto amministrazione e protezione internazionale.

Nella sua risposta, l’Egitto chiede anche una “giusta soluzione del problema dei rifugiati in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite”. La formulazione di queste risoluzioni (compresa la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza) è soggetta a interpretazione e, in questo senso, deve essere essa stessa oggetto di negoziati. Vorrei menzionare solo due possibilità (o la loro combinazione), che sono state suggerite nelle discussioni che ho avuto con personalità ebraiche e arabe.

1. Ritorno in Israele dei palestinesi che sono stati sfollati e desiderano ritornare. Questa possibilità è limitata in anticipo nella misura in cui le terre arabe sono diventate terre ebraiche e le proprietà arabe sono proprietà ebraiche. Questo è un altro fatto storico sul quale non possiamo ritornare senza commettere un nuovo torto. Ciò potrebbe essere mitigato se questi palestinesi si stabilissero su terreni ancora disponibili e/o se venissero offerte loro strutture e risarcimenti adeguati.

Questa soluzione è ufficialmente respinta sulla base (di per sé corretta) che un simile ritorno trasformerebbe rapidamente la maggioranza ebraica in una minoranza e, quindi, distruggerebbe lo scopo stesso della creazione dello Stato ebraico. Tuttavia, ritengo che proprio la politica volta a garantire una maggioranza permanente sia, di per sé, destinata al fallimento. La popolazione ebraica è condannata a rimanere una minoranza all’interno del vasto gruppo delle nazioni arabe, dalla quale non può separarsi indefinitamente senza ricadere nelle condizioni di un ghetto su scala più ampia. Israele, certamente, potrebbe mantenere una maggioranza ebraica attraverso una politica di immigrazione aggressiva, che, a sua volta, rafforzerebbe continuamente il nazionalismo arabo. Ma Israele non può esistere come Stato progressista se continua a vedere i suoi vicini come il Nemico, l’Erbfeind. Non è nell’esistenza di una maggioranza chiusa in se stessa, isolata e preda della paura che il popolo ebraico trovi una protezione duratura, ma solo nella convivenza tra ebrei e arabi come cittadini beneficiari degli stessi diritti e libertà. Questa coesistenza può solo risultare da un lungo processo di tentativi ed errori, ma ora esistono i prerequisiti per muovere i primi passi.

Si scopre che il popolo palestinese vive da secoli in un territorio oggi parzialmente occupato e amministrato da Israele. Queste condizioni rendono Israele una potenza occupante (anche all’interno di Israele), e il Movimento di Liberazione della Palestina un movimento di liberazione nazionale – per quanto liberale possa essere la potenza occupante.

2. Le aspirazioni nazionali del popolo palestinese potrebbero essere soddisfatte dalla creazione di uno Stato nazionale palestinese accanto allo Stato di Israele. Spetterà al popolo palestinese decidere, attraverso un referendum sotto il controllo delle Nazioni Unite, se questo Stato dovrà essere un’entità indipendente o federato con Israele o Giordania.

La soluzione ottimale sarebbe la coesistenza tra israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, su un piano di parità all’interno di una federazione socialista di stati del Medio Oriente. Questa prospettiva resta utopica. Le possibilità discusse sopra rimangono soluzioni temporanee che si presentano qui e ora: rifiutarle completamente potrebbe causare danni irreparabili.

Herbert Marcuse

 

Intervento a Berlino (1967)

“Vorrei permettermi una breve digressione, apparentemente estranea al tema del dibattito attuale. Ho notato nei vostri interventi un fenomeno singolare, una sorta di blocco: una totale assenza di allusione al conflitto mediorientale. Al contrario, credo che sia più che legittimo integrare il problema del conflitto arabo-israeliano nel dibattito sull’attuale situazione dell’archeocapitalismo nel Terzo Mondo, a causa del suo impatto disastroso sulle diverse forze del progresso e in particolare della sinistra marxista.

Soprattutto negli Stati Uniti, la sinistra emerse da questo conflitto più divisa che mai. Inoltre, ritengo non sia esagerato affermare che il conflitto in Medio Oriente abbia ulteriormente indebolito la già limitata opposizione alla guerra in Vietnam. Le ragioni di questo fenomeno sono evidenti: esiste infatti, all’interno delle forze progressiste, una tendenza molto forte e molto comprensibile ad identificarsi con Israele. D’altra parte, questa sinistra, e in particolare la sinistra marxista, non possono fingere di ignorare che il mondo arabo coincide in parte con il campo antimperialista.

In queste condizioni, la solidarietà sentimentale e la solidarietà razionale appaiono oggettivamente distinte, addirittura dissociate. Detto questo dovete interpretare quanto vi dico come un parere personale che sottopongo al vostro giudizio piuttosto che come un’analisi oggettiva del problema. Dovete capire quanto mi sento solidale e mi identifico con Israele per ragioni personali, ma non solo per queste ragioni. Io stesso, che ho sempre affermato la piena legittimità dei sentimenti, delle concezioni morali e dei sentimenti nella politica e anche nella scienza, io che ho sempre sostenuto l’impossibilità di realizzare scienza e politica senza l’elemento umano, sono obbligato a vedere in questa solidarietà più che un semplice pregiudizio personale.

Non posso dimenticare che per secoli gli ebrei furono perseguitati e oppressi e che non molto tempo fa sei milioni di loro furono sterminati. Questo è un fatto oggettivo.

Gli ebrei hanno finalmente trovato una terra dove non devono più temere persecuzioni, persecuzioni e oppressione e mi identifico con l’obiettivo che hanno raggiunto. Sono felice di poter concordare, anche in questo caso, con Jean-Paul Sartre che ha affermato: «L’unica cosa che dobbiamo impedire a tutti i costi è una nuova guerra di sterminio contro Israele».

Per risolvere il problema bisogna partire da questa premessa, ma ciò non implica l’accettazione totale delle tesi di Israele, né di quelle dei suoi nemici. Permettetemi di esprimere la mia opinione in modo più completo e chiaro: la fondazione di Israele come Stato autonomo può essere definita illegittima nella misura in cui è stata effettuata sulla base di un accordo internazionale, su un territorio straniero e senza tener conto della popolazione locale e del suo destino.

Ma questa ingiustizia non può essere riparata da una seconda ingiustizia. Lo Stato di Israele esiste e deve trovare un terreno di incontro e di comprensione con il mondo ostile che lo circonda. Questa soluzione è l’unica possibile. Ammetto che alla prima ingiustizia se ne sono aggiunte altre da parte di Israele. Il trattamento riservato alla popolazione araba è stato quantomeno riprovevole, se non peggiore.

La politica di Israele ha avuto aspetti razzisti e nazionalisti che noi ebrei avremmo dovuto essere i primi a condannare. È assolutamente inaccettabile che gli arabi in Israele siano trattati come cittadini di seconda classe, anche se esiste l’uguaglianza giuridica.

Una terza ingiustizia (e si vede che non sto semplificando le cose) è il fatto che ritengo incontestabile che dalla creazione dello Stato la politica israeliana sia stata troppo servile e la politica estera americana troppo passiva (…). E questo atteggiamento ha facilitato l’identificazione di Israele con l’imperialismo, consentendo al contrario l’identificazione della causa araba con quella dell’antimperialismo.

Ma anche qui non voglio semplificare le cose: il mondo arabo non costituisce un’unità. Sapete bene quanto me come è composto da stati e società sia progressisti che reazionari. Quando parliamo di sostegno all’imperialismo, dobbiamo sempre chiederci se quest’ultimo non sia meglio servito dalle continue forniture di petrolio provenienti dall’Arabia Saudita e dal Kuwait che dai voti di Israele all’ONU.

In secondo luogo, dobbiamo tenere conto delle ripetute offerte di pace di Israele, offerte che i rappresentanti del mondo arabo hanno costantemente rifiutato.

In terzo luogo, non possiamo perdere di vista le dichiarazioni precise, chiare e clamorose dei portavoce arabi che proclamano il loro desiderio di scatenare una guerra di sterminio contro Israele. Questo è un fatto che mi dispiace terribilmente e, purtroppo, basta fare qualche ricerca per averne la prova.

È in tale contesto che la guerra preventiva (perché tale era infatti il carattere della guerra condotta contro Egitto, Giordania e Siria) può e deve essere compresa e giustificata.

Attualmente il problema è: cosa si può fare per porre fine a un susseguirsi di conflitti così terribile? Purtroppo, da molto tempo il confronto tra Israele e gli Stati arabi si è evoluto in un confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, passando dalla sfera regionale a quella della diplomazia, pubblica e segreta, non per citare quello della concorrenza tra fornitori di armi da entrambe le parti.

Come riportare il conflitto alla sua estensione originaria? Tutti noi dobbiamo cercare, per quanto possibile, di convincere i rappresentanti di Israele e dei paesi arabi a incontrarsi per discutere e, in definitiva, cercare di risolvere i loro problemi, che in realtà sono diversi da quelli delle grandi potenze.

La soluzione ideale sarebbe che da queste discussioni emergesse un fronte comune, formato da Israele e dai suoi avversari arabi, contro l’attacco delle potenze imperialiste.

Questo è un problema che è già maturo. Anche nei Paesi arabi, infatti – non dimentichiamolo – resta ancora da fare la rivoluzione sociale, rivoluzione che, forse, rappresenta un compito più urgente e imperativo della distruzione di Israele. 

…..

Su Herbert Marcuse su questo blog anche una lezione di Angela Davis e un dialogo sul comunismo democratico

J Arch Getty: Affamare l’Ucraina, sul libro di Robert Conquest (1987)

E’ ritornato nelle librerie il libro di Robert Conquest a dar man forte alla narrazione del nazionalismo ucraino sull’Holodomor, fatta propria senza tanti approfondimenti dal parlamento europeo e vari parlamenti nazionali. Ovviamente anche l’Italia l’ha fatto con il voto di tutti i partiti. Mi sembra utile socializzare la recensione assai critica che del libro fece lo storico J. arch. Getty sulla London Review of Books nel 1987. Non è sospettabile di filoputinismo perchè allora c’era ancora l’URSS e Putin era un oscuro agente del Kgb in Germania est.

Sull’Holodomor consiglio su questo blog anche un lungo articolo di J.Arch. Getty del 2018 che ho tradotto in italiano. 

L’essere antistalinisti non implica l’assecondare l’uso politico della storia degli anticomunisti che sono mediamente anche guerrafondai occidentali.

La “questione contadina”, in una forma o nell’altra, è stata quella che i governi russi hanno dovuto affrontare per centinaia di anni. Sebbene si presentasse sotto molti aspetti, il problema essenziale era come mettere sotto controllo un’agricoltura dispersa e arretrata per soddisfare i bisogni statali. Nel 20° secolo un partito bolscevico orientato alla trasformazione ha lottato con il tradizionalismo contadino, il capitalismo, la bassa produzione agricola e i propri preconcetti ideologici nel tentativo di modernizzarsi lungo le linee socialiste. Lo sviluppo economico e l’industrializzazione erano in cima all’agenda bolscevica dopo la rivoluzione russa. Per raggiungere questi obiettivi era necessario, tra le altre cose, accumulare capitale d’investimento per l’espansione, assicurando nel contempo il tipo di approvvigionamento alimentare in espansione necessario per la rivoluzione industriale. All’inizio, hanno cercato di fare tutto questo nel quadro di un’economia mista capitalista/socialista. Dal 1921 al 1929, dopo aver vinto un’aspra e devastante guerra civile, i bolscevichi si ritirarono temporaneamente dai loro obiettivi di nazionalizzazione e collettivizzazione e consentirono la proprietà  terriera privata e un’agricoltura di libero mercato. Nel 1929 la posizione cambiò bruscamente quando la direzione del partito decise per uno schema radicalmente di sinistra che prevedeva la “liquidazione” del commercio privato, un’industrializzazione rapida e pianificata dallo stato e la collettivizzazione dell’agricoltura. I piani quinquennali e i colcos di oggi sono l’eredità  di quella decisione di fine anni Venti.

A quel tempo, Stalin diede il suo appoggio ai radicali del Partito che vedevano l’economia mista degli anni Venti come una concessione ingiustificata al capitalismo. Questi uomini di sinistra, di cui Stalin era il portavoce e il leader, sostenevano che il libero mercato del grano poneva lo stato di fronte a un approvvigionamento alimentare imprevedibile, inefficiente e costoso. La necessità  di pagare ai contadini il prezzo di mercato per il grano e di sovvenzionare i prezzi del cibo per i loro sostenitori della classe operaia urbana significava che ai bolscevichi rimanevano pochi fondi da utilizzare per gli investimenti di capitale e l’espansione industriale. Questi attivisti radicali, che divennero le truppe d’urto della volontarista “Rivoluzione di Stalin” che travolse l’Unione Sovietica negli anni Trenta, erano concentrati nei gruppi della classe operaia e dei giovani. Agitatori urbani entusiasti, determinati e inflessibili scesero nelle campagne per distruggere il capitalismo e costruire il socialismo secondo le loro idee.

La collettivizzazione dell’agricoltura, dal 1929 al 1934 circa, procedette in diverse campagne incerte, caratterizzate da confusione, sbalzi a destra e a sinistra e dalla sostituzione dell’entusiasmo, dell’esortazione e della violenza a un’attenta pianificazione. I funzionari e i volontari della linea dura costrinsero i contadini riluttanti a entrare in fattorie collettive improvvisate. I contadini resistettero abbattendo gli animali e rifiutandosi di piantare, raccogliere o commercializzare il grano. Nessuna delle due parti voleva cedere. Nel 1934 gli stalinisti avevano vinto, almeno nella misura in cui il sistema delle fattorie collettive era stato stabilito in modo permanente, ma avevano pagato un prezzo doloroso: perdite catastrofiche di bestiame, dislocazione sociale e, in alcuni luoghi, carestia. Milioni di persone morirono di fame, deportazione e violenza.

Robert Conquest, autore di The Great Terror e di molte altre opere sull’Unione Sovietica, fornisce un resoconto di questi eventi. Inizia con un’indagine informativa in quattro capitoli sul problema contadino e sui tentativi bolscevichi di risolverlo prima del 1928. La seconda parte, “Schiacciare i contadini”, porta la storia al 1930 e tratta delle campagne di esproprio dei kulaki – i contadini benestanti che gli stalinisti incolpavano di trattenere il grano – e dell’attuazione della collettivizzazione d’urto. La terza parte, “La carestia del terrore”, discute la tragica carestia del 1932 in Ucraina e propone una tesi controversa: che la carestia sia stata organizzata e mantenuta intenzionalmente da Stalin come atto consapevole di genocidio contro il popolo ucraino.

Le ipotesi, le fonti e le prove di Conquest non sono nuove. In effetti, lui stesso ha esposto per la prima volta la sua opinione due anni fa in un lavoro sponsorizzato dall’American Enterprise Institute. La storia della carestia intenzionale, tuttavia, è stata un articolo di fede per gli emigrati ucraini in Occidente sin dalla Guerra Fredda. Gran parte della descrizione più dettagliata di Conquest è tratta da pezzi d’epoca come The Golgoltha of the Ukraine (1953), The Black Deeds of the Kremlin (1953) e Communism the Enemy of Mankind(1955). Il libro di Conquest darà  così una certa credibilità  accademica a una teoria che non è stata generalmente accettata da studiosi apartitici al di fuori dei circoli delle nazionalità  in esilio. Nel clima politico conservatore di oggi, con il suo discorso sull'”impero del male”, sono sicuro che il libro sarà  molto popolare.

Potremmo interrogarci proficuamente sulla rinascita della storia della carestia intenzionale proprio ora. Sembra essere parte di una campagna dei nazionalisti ucraini per promuovere l’idea di una “carestia del terrore” in Occidente. Sforzi sono in corso in diversi stati degli USA però inserire il genocidio ucraino nei programmi scolastici, e sta facendo il giro di un film piuttosto raccapricciante con lo stesso titolo del libro di Conquest. Il messaggio politico non così nascosto dietro la campagna coincide con le agende politiche di lunga data dei gruppi di emigrati: dato che i sovietici potevano uccidere così tante persone del loro stesso popolo, potrebbero non essere disposti a lanciare una guerra nucleare distruttiva per diffondere la loro malvagia dottrina? Poichè i sovietici sono come i nazisti, dobbiamo evitare la pacificazione, mantenere la nostra vigilanza e smettere di deportare gli accusati criminali di guerra della seconda guerra mondiale nell’Europa orientale.

Conquest non nasconde le sue simpatie politiche. Per lui, “la lezione principale sembra essere che l’ideologia comunista ha fornito la motivazione per un massacro senza precedenti di uomini, donne e bambini”. E sebbene non sia interessato a fermare la caccia ai nazisti, sostiene che la sua lezione sul terrore e sulla carestia “non può essere scrollata di dosso come parte del passato morto” ma è rilevante per la situazione politica internazionale odierna. Racconta con ammirazione la sopravvivenza e la crescita del nazionalismo ucraino nell’ultimo mezzo secolo e usa persino toponimi ucraini piuttosto che le loro versioni russe più standardizzate. È quindi comprensibile che debba omettere qualsiasi menzione dei nazionalisti ucraini anticomunisti che premettero il grilletto nelle fosse della morte di Babi Yar e altrove in collaborazione con le SS, e i numeri sostanziali che scelsero di seguire i nazisti fuori dall’URSS alla fine della guerra? Naturalmente, sarebbe sbagliato accusare tutti gli ucraini (o i sovietici) di essere fatti della stessa pasta, o negare la legittimità  delle lamentele e delle aspirazioni ucraine. Allo stesso tempo, gli studiosi sono obbligati a evitare la polemica a favore di un’analisi equilibrata.

Robert Conquest è uno scrittore seducente e un maestro di stile. Intreccia abilmente storie di dolore e sofferenza (particolarmente struggenti i capitoli sui nomadi e sui bambini) con brani scelti da fonti ufficiali per produrre un effetto potente. I racconti più sorprendenti di atrocità  sono generalmente di seconda mano e non verificabili; sembrano competere tra loro nei conteggi dei morti e nella rappresentazione della ferocia. Alcuni di loro sono sicuramente veri. Ciò nonostante, la presentazione implacabile di scene sempre più scioccanti crea un effetto speciale sul lettore. Il libro di Conquest mostra che il Biafra e l’Etiopia non hanno affievolito la nostra risposta alla sofferenza e, mentre leggiamo, il nostro dolore si trasforma in rabbia e indignazione: disprezziamo i responsabili e siamo pronti a credere a qualsiasi cosa su di loro.

Non ci sono, per inciso, dubbi sulla responsabilità  del disastro. In primo luogo deve risponderne Stalin in quanto principale sostenitore delle richieste eccessive ai contadini e primo sostenitore della linea dura sulla collettivizzazione. Ma c’è molta colpa da attribuire a tutti. Deve essere condivisa dalle decine di migliaia di attivisti e funzionari che portarono avanti la politica e dai contadini che scelsero di macellare gli animali, bruciare i campi e boicottare le coltivazioni per protesta. Al di là  dell’attribuzione delle colpe, tuttavia, la allettante conclusione sull’intenzionalità  è ingiustificata: la tesi di una carestia intenzionale è debolmente supportata dalle prove e si basa su un’interpretazione molto forzata delle stesse.

L’argomentazione di Conquest a favore di una carestia genocida pianificata nel 1932 è la seguente. Stalin era stato informato dai bolscevichi ucraini e quindi sapeva che le sue proposte di requisizione del grano avrebbero prodotto un disastro. In seguito, quando seppe cosa stava accadendo lì, mantenne la rotta perchè considerava la carestia un’arma politica. Le riserve strategiche di cibo militare dell’URSS non furono  assegnate all’Ucraina e i suoi confini vennero sigillati per impedire la fuga di massa e il dirottamento di cibo verso l’Ucraina. Secondo Conquest, queste misure costituiscono un genocidio. A prima vista, la tesi sembra convincente. Perchè altrimenti Stalin avrebbe fissato le sue richieste così in alto? Perchè l’Ucraina doveva essere isolata?

Eppure ci sono ragioni per cui la maggior parte degli studiosi ha finora respinto la teoria. In primo luogo, in realtà  sappiamo molto poco sull’entità  della carestia. Utilizzando i calcoli del censimento sulla mortalità  in eccesso, Conquest arriva a una cifra di circa cinque milioni di vittime della carestia ucraina. Tuttavia, esperti economici e demografici di tutto rispetto come SG Wheatcroft, Barbara Anderson e Brian Silver hanno esaminato gli stessi dati del censimento e hanno suggerito che le cifre sostenute da Conquest sono troppo alte. Inoltre, Conquest osserva che la carestia variava notevolmente da luogo a luogo in Ucraina. Secondo le interviste del secondo dopoguerra agli emigranti ucraini, in alcuni luoghi la carenza di cibo era minima o inesistente. Quali differenze regionali o locali potrebbero spiegare questo fatto? Le quote di grano erano stabilite arbitrariamente dai funzionari locali? Gli alti livelli di resistenza dei contadini o i boicottaggi hanno contribuito alla carestia? Non lo sappiamo.

In secondo luogo, Conquest non è riuscito a stabilire un movente convincente per il genocidio. Certamente Stalin era capace di una crudeltà  vendicativa e di una repressione spietata, ma coloro che lo hanno conosciuto e che hanno avuto a che fare con lui durante la guerra e dopo, tra cui molti occidentali, concordano sul fatto che non era pazzo o irrazionale. Sebbene fosse certamente intenzionato a spezzare la resistenza dei contadini al suo marchio di socialismo, ci si deve chiedere perchè un leader nazionale dovrebbe deliberatamente mettere a repentaglio la sopravvivenza del Paese, la sua forza militare e quindi la sua stessa sicurezza, decidendo di sterminare metodicamente coloro che producono il cibo – e poi fermarsi prima di completare il presunto genocidio. Naturalmente si può minimizzare l’importanza di queste considerazioni. Forse non abbiamo bisogno di prove dirette per il genocidio, forse basta un caso circostanziale. Forse la carestia fu della portata che Conquest sostiene; forse Stalin era pazzo. Tuttavia, la nostra conoscenza delle fonti suggerisce che uno Stalin genocida non è necessario per spiegare gli eventi della carestia così come li conosciamo. Spiegazioni più convincenti possono essere avanzate se consideriamo elementi dell’ideologia, della pratica amministrativa e della sociologia del primo stalinismo.

Alla fine degli ani Venti, molti bolscevichi condividevano una particolare visione stereotipata dei contadini e della loro psicologia. Il muzhik era visto come un tipo astuto e testardo, la cui astuzia, avidità  e ostilità  al cambiamento erano nascoste sotto una patina di amabilità  e innocenza. La dubbia accuratezza di questa immagine (che aveva dei precedenti nella letteratura russa) non è in discussione. È chiaro in ogni caso che Stalin e la maggioranza del partito che si schierava con lui la accettavano. Era quindi facile credere che i kulaki e gli altri contadini sottostimassero abitualmente il raccolto, accumulassero grano e sabotassero la trasformazione nazionale. Di conseguenza, coloro che vedevano i contadini come mendaci imbroglioni presero l’abitudine di chiedere il 90% per ottenere il 50%. Le lamentele e le proteste dal basso venivano interpretate come piagnistei fuori luogo di chi si era fatto abbindolare dalla dissimulazione contadina. Stalin mostrò questa percezione abbastanza chiaramente in una lettera al romanziere Mikhail Sholokhov: “Gli stimati coltivatori di grano del vostro distretto… hanno fatto uno “sciopero all’italiana” (sabotaggio!) e non hanno esitato a lasciare gli operai e l’Armata Rossa senza pane… gli stimati coltivatori di grano non sono così innocui come potrebbero sembrare da lontano”. I disagi in Ucraina derivavano quindi, almeno in parte, da un’inflessibile concezione teorica e psicologica che giunse a plasmare la politica.

L’argomentazione di Conquest sulla carestia del terrore presuppone una situazione in cui la leadership di Stalin è sempre stata in grado di realizzare la sua volontà  nel paese. Potremmo anzitutto osservare che quasi tutti gli studiosi degli anni Trenta concordano sul fatto che il potere di Stalin non era assoluto nemmeno ai vertici fino alle Grandi Purghe del 1937-1939. Qualsiasi genocidio intenzionale sarebbe stato un progetto comune. In secondo luogo, più gli studiosi vengono a conoscenza degli anni Trenta, più rimangono colpiti dai limiti e dalle inibizioni all’esercizio del potere di Mosca nelle province. Gli ordini del Cremlino, che all’inizio erano vaghi e spesso contraddittori, venivano sistematicamente bloccati, trasformati, ignorati o addirittura annullati man mano che si facevano strada lungo la catena di comando. Dalle opere di Lynn Viola, Peter Solomon, Sheila Fitzpatrick e altri, ora abbiamo molte prove di questa compartimentazione burocratica, inefficienza e autonomia locale nell’agricoltura, nell’amministrazione della giustizia, nella struttura dei partiti e nell’industria. La burocrazia stalinista degli anni Trenta era più sconnessa che efficiente. Lo stesso Conquest cita numerosi casi in cui l’attuazione locale della collettivizzazione differiva nettamente dalle presunte intenzioni di Mosca. In alcuni luoghi, le proiezioni originali di Stalin per l’espropriazione dei kulak furono ampiamente superate. In altri, i leader locali minimizzarono o addirittura ignorarono gli appelli di Mosca per una piena collettivizzazione.

All’interno di parametri piuttosto ampi e vaghi, i leader locali del partito gestivano le loro satrapie come meglio credevano. Mosca era lontana e i poco frequenti ispettori, plenipotenziari e le minacce di Mosca potevano spesso essere ignorati. I funzionari si proteggevano a vicenda, facevano pressioni e negoziavano per sé e per le loro regioni a Mosca e governavano i loro territori in modo arbitrario. Negli anni Trenta, la politica e le politiche erano fatte a tutti i livelli. Nils Erik Rosenfeldt ha recentemente affermato che Mosca non controllava molte delle “porte” dell’informazione, come lui le definisce, al di sotto del vertice della struttura. Nella misura in cui gli stalinisti stabilirono le politiche generali del periodo, sono responsabili della conseguente tragedia. Ma non possiamo più essere sicuri che ciò che accadde sul campo riflettesse accuratamente i loro piani. Era sicuramente più facile innescare una rivoluzione sociale – dare carta bianca ai militanti urbani incontrollabili nelle campagne, conferire un mandato radicale ma poco chiaro ai piccoli politici locali ed esortare la popolazione alla lotta di classe – che prevederne o controllarne i risultati.

Come sottolinea Conquest, gli stalinisti non sempre sapevano cosa volevano fare. Nel 1929 “non è chiaro se la leadership avesse ancora capito cosa avesse fatto”. Successivamente, non ci furono direttive chiare sulla disposizione dei kulaki, sulla collettivizzazione del bestiame o sull’organizzazione delle fattorie collettive. Gli obiettivi dichiarati da Mosca erano spesso contraddittori. Nel gennaio 1930, Stalin ordinò una collettivizzazione d’emergenza, per poi frenarla sessanta giorni dopo. Nell’agosto 1932, Stalin richiese una pesante repressione dei nemici politici, ma nel maggio 1933 ordinò la fine degli arresti di massa e il rilascio di un gran numero di prigionieri politici. Non è difficile immaginare l’effetto di questa confusione e della scarsa preparazione sulla vita locale. Una sfortunata fattoria collettiva, citata da Conquest, iniziò all’inizio del 1930 collettivizzando tutti gli animali da cortile e gli attrezzi. Nel giugno del 1930, restituì attrezzi e animali alle mani dei privati. A novembre ricollettivizzò gli attrezzi e nel giugno successivo il bestiame.

Preconcetti ideologici rigidi, una debole centralizzazione amministrativa, informazioni sbagliate e un eccesso di entusiasmo si combinarono con una pianificazione scadente e una leadership irresponsabile nel produrre il disastro. L’argomentazione per analogia può aiutare a mostrare la debolezza della storia del genocidio di Conquest. Nel 1941, Stalin fu informato dell’imminente attacco di Hitler all’URSS, proprio come gli ucraini lo avevano avvertito della possibilità  di una carenza di cibo nel 1932. In entrambi i casi aveva motivo di credere che le sue politiche o le sue disposizioni sarebbero sfociate in una tragedia, eppure scelse di non cambiare nulla. La sua natura sospettosa lo portò a non credere, in un caso, ai propri servizi di intelligence e, nell’altro, alle rappresentazioni di interessi locali inaffidabili e a portare avanti le sue strategie sbagliate e sconsiderate. Tuttavia, l’affermazione che Stalin avesse pianificato di distruggere l’Ucraina non ha più prove di quante ne abbia la teoria che volesse l’invasione da parte dei tedeschi.

Una volta che si verificò il cataclisma del 1932, gli stalinisti cercarono di far fronte a ciò che avevano fatto. Come mostra Conquest, alcune quote di grano furono abbassate, le esportazioni di grano altamente pregiato furono ridotte all’1 o al 2% del raccolto e furono aperte alcune riserve di grano. Sebbene la carestia fosse limitata ad alcune aree, nel 1932 il cibo non era abbondante in tutta l’URSS. Per contenere la carestia, per evitare che le scarse scorte di cibo nelle aree non colpite dalla carestia e per evitare che il disastro travolgesse l’intero Paese, si dice che l’Ucraina sia stata parzialmente isolata. (Le prove di questo isolamento provengono esclusivamente da fonti memorialistiche). Un modo così freddo e duro di affrontare la carestia sarebbe simile alla decisione di Stalin del 1941 di sottrarre risorse a Leningrado per salvare Mosca dalla caduta dei tedeschi. La sua leadership contribuì direttamente o indirettamente a entrambi i disastri, e milioni di ucraini e leningradesi pagarono il prezzo delle sue politiche e della sua raison d’Etat. Ma è un salto lungo e polemico quello che porta ad affermare che Stalin abbia deliberatamente provocato uno dei due olocausti.

Furono gli stalinisti che negli anni Trenta svilupparono la teoria della colpa oggettiva per condannare legalmente le loro vittime di epurazione. In mancanza di qualsiasi prova di complicità  o colpevolezza da parte dell’accusato, i pubblici ministeri di Stalin ragionavano che l’effetto oggettivo fosse lo stesso dell’intento soggettivo: se il risultato oggettivo delle tue azioni era quello di produrre un danno allo Stato, allora si poteva dire che avevi avevano pianificato le azioni e ti eri reso colpevole di premeditazione. Sebbene possa sembrare un’allettante giustizia poetica applicare gli stessi standard di prova a Stalin, soprattutto data l’entità  delle sofferenze coinvolte, farlo sacrificherebbe ancora una volta l’accuratezza storica e offuscherebbe le linee di responsabilità  in nome dell’opportunità  politica.

continua con scambio di lettere tra Conquest e Getty:

https://www.lrb.co.uk/the-paper/v09/n02/j.-arch-getty/starving-the-ukraine