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Angela Y. Davis: Le eredità  di Marcuse (1998)

Ho tradotto una conferenza su Herbert Marcuse tenuta da Angela Davis nel 1998.

Se vogliamo esaminare le eredità  di Marcuse – e voglio suggerire che ci sono molteplici eredità  – e suggerire alcune future direzioni teoriche e pratiche, mi sembra che nel cercare di comprendere la profonda connessione tra i suoi scritti successivi e i conflitti politici della fine degli anni Sessanta, dobbiamo contemporaneamente estrarre il suo lavoro da quei legami che hanno minacciato di intrappolare e romanticizzare le idee di Marcuse. Sia per gli accademici che per gli attivisti è difficile dissociare Marcuse dall’epoca della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. La sua persona e il suo lavoro sono spesso evocati come un marcatore di un’epoca radicale, il cui rapporto principale tende a essere definito dalla nostalgia. Di conseguenza, la menzione del nome di Herbert Marcuse suscita un sospiro: molti della mia generazione e di quelle più anziane tendono a trattarlo come un segno della nostra giovinezza – meraviglioso, eccitante, rivoluzionario, ma significativo solo nel contesto delle nostre reminiscenze. Tra parentesi, man mano che quelli di noi che sono diventati maggiorenni negli anni Sessanta e Settanta invecchiano sempre di più, sembra che ci sia una tendenza sembra esserci una tendenza a spazializzare gli “anni Sessanta”. Recentemente ho notato che molte persone della mia generazione amano presentarsi dicendo “vengo dagli anni Sessanta” – gli anni Sessanta sono visti come un punto d’origine, un luogo immaginario, piuttosto che un momento storico.  Ironia della sorte, proprio l’epoca in cui siamo stati incoraggiati da Herbert Marcuse a pensare al potenziale radicale del pensiero utopico è sopravvissuta nella nostra memoria storica come utopia, come un luogo che non è un luogo. Continue reading Angela Y. Davis: Le eredità  di Marcuse (1998)

Aleksandr Solženicyn: La carestia ucraina non è stata un genocidio (2008)

Il premio Nobel autore di Arcipelago Gulag è stato il più noto scrittore dissidente russo del Novecento, un accusatore implacabile del “comunismo” sovietico. Per decenni è stato la voce più amplificata dai media occidentale per la sua radicale opposizione al regime. Eppure mentre vengono ripetute come incontrovertibili le narrazioni sull’Holodomor si dimentica che lo scrittore si schierò al fianco della Duma contro la propaganda ucraina e statunitense giungendo a polemizzare apertamente persino con il presidente George Bush. Il 2 aprile 2008 scrisse questo articolo sull’Izvestia contestando la campagna del presidente ucraino Viktor Yushenko, andato al potere dopo la cosiddetta “rivoluzione arancione”, che rilanciò la narrazione dell’Holodomor parallelamente all’apertura del percorso per il rientro nella NATO. Ideologicamente l’approccio dello scrittore alla questione ucraina era assai simile a quello di Putin che non a caso fece introdurre tra le letture scolastiche Arcipelago Gulag. Però va detto che sull’Holodomor non sono solo gli storici russi a contestare la veridicità  della narrazione su cui si è costruito il consenso al nazionalismo ucraino antirusso. Pubblico l’articolo perché non lo trovo sui siti italiani mentre nel parlamento italiano si propone in maniera bipartisan di riconoscere l’Holodomor come già  accaduto nel parlamento europeo. La storia viene piegata alla propaganda di guerra. Segnalo sul blog l’articolo che ho tradotto dello storico statunitense J Arch Getty: Holodomor, nuove fonti e antiche narrazioni (2018).

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Fin dal 1917, noi cittadini sovietici abbiamo dovuto ascoltare e inghiottire obbedientemente ogni sorta di menzogne ‹spudorate, per non dire prive di significato. Che l’Assemblea costituente panrussa non è stata un tentativo di democrazia ma un piano controrivoluzionario (ed è stata quindi sciolta). O che il colpo di stato di ottobre (questa è stata la brillante manovra di Trotsky) non sia stata nemmeno una rivolta, ma un’autodifesa dall’aggressivo governo provvisorio (composto dai cadetti più intelligenti).
Ma le persone nei paesi occidentali non si sono mai rese conto di queste mostruose distorsioni degli eventi storici, né allora né dopo. Quindi non avevano alcuna possibilità  di immunizzarsi dall’enorme spudoratezza e la portata di tali menzogne.

La grande carestia del 1921 scosse il nostro paese, dagli Urali, attraverso il Volga e in profondità  nella Russia europea. Falciò milioni di persone. Ma la parola Holodomor [che significa assassinio per fame] non era usata a quel tempo. La dirigenza comunista ha ritenuto sufficiente attribuire la carestia a una siccità  naturale, senza menzionare affatto la requisizione del grano che crudelmente derubò i contadini.

E nel 1932-33, quando una grande carestia simile colpì l’Ucraina e la regione del Kuban, i capi del Partito Comunista (compresi alcuni ucraini) la trattarono con lo stesso silenzio e dissimulazione. E non venne in mente a nessuno di suggerire agli zelanti attivisti del Partito Comunista e della Lega dei Giovani Comunisti che quello che stava accadendo era l’annientamento pianificato proprio degli ucraini. Il grido provocatorio sul “genocidio” cominciò a prendere forma solo decenni dopo – dapprima in sordina, all’interno di menti dispettose, anti-russe e scioviniste – e ora è sfociato nei circoli governativi dell’Ucraina moderna, che hanno così superato persino le selvagge invenzioni dell’agitprop bolscevico.

Ai parlamenti del mondo: questa viziosa diffamazione è facile da insinuare nelle menti occidentali. Non hanno mai capito la nostra storia: si può vendere loro qualsiasi favola, anche una così insensata.

“I media sono più importanti dei partiti”, conversazione con Pablo Iglesias

In un articolo su Le Grand Continent , Steven Forti si chiede come sia possibile che un governo con risultati così buoni come quello attuale non possa impedire la probabile vittoria della destra il 23 luglio dopo le elezioni amministrative del 28 luglio. Cosa è mancato a Pedro Sánchez?

PABLO IGLESIAS Non ha saputo abbandonare un’ingenuità profondamente radicata nella sinistra – in particolare nella sinistra che noi rappresentiamo – che consiste nel pensare che l’esito delle politiche pubbliche sulle condizioni di vita di settori della classe lavoratrice abbia un’implicazione diretta sulla loro comportamento elettorale. Nelle società dei media, una sinistra senza potere mediatico tenderà sempre a perdere. Le politiche pubbliche sono importanti ed è evidente che i dati macroeconomici di questo governo sono impressionanti, senza precedenti in Spagna: i progressi compiuti sono enormi. Ma con un equilibrio di potere mediatico in cui esiste un duopolio televisivo che controlla praticamente l’intero mercato pubblicitario e in cui il peso dei media di destra è assoluto, è estremamente difficile per la sinistra mantenere il sostegno elettorale. Ci sono media che potrebbero in qualche modo favorire il PSOE, ma mai Podemos, che è stata una forza politica sistematicamente attaccata sia dai media di destra che da quelli di estrema destra, così come dai media progressisti.

È qualcosa che abbiamo detto fin dall’inizio e siamo stati accusati di prendere di mira i giornalisti comportandoci come perdenti irritati. Ci è stato detto che i media sono sempre stati così, che sono solo messaggeri e che non hanno l’influenza politica che viene loro attribuita. Tuttavia, oggi, lo stesso Pedro Sanchez riconosce che la campagna elettorale si gioca sui media. Ha deciso di utilizzare tutti i media esistenti, ma è molto difficile invertire in poche settimane gli effetti di una lotta culturale così costante da parte dei grandi apparati politici, ideologici e culturali che sono i media. Questo è ciò che sta accadendo in Spagna, ma è ciò che sta accadendo ovunque. Questo sta chiaramente accadendo in Cile: il principale avversario del governo sono i media di destra cileni,El Mercurio  ; e lo stesso si potrebbe dire in molti paesi latinoamericani. Inoltre, il fenomeno Donald Trump è incomprensibile se non si considera Fox News . Lo stesso vale per Berlusconi e Mediaset. 

È un elemento chiave e spero che la sinistra si renda sempre più conto che senza il potere dei media è impossibile fare politica. Inoltre, gli attori politici fondamentali non sono i partiti politici; gli attori ideologici, politici e culturali fondamentali sono i poteri mediatici. Continue reading “I media sono più importanti dei partiti”, conversazione con Pablo Iglesias

W.S. Burroughs spiega la rivoluzione dei Pride

 Quelli che deridono o inorridiscono di fronte agli “eccessi” dei Pride dovrebbero riflettere su come, dopo la rivolta di Stonewall del 1969, sono stati un’invenzione politica che ha consentito a minoranze oppresse da secolari discriminazioni di emergere e affermare i propri diritti con una rivoluzione nonviolenta di enorme portata come quella femminista.
All’origine del Pride ci furono la marcia del Christopher Street Gay Liberation Day e la Christopher Street West Parade che si svolsero lo stesso giorno, unendo le organizzazioni gay e lesbiche della costa orientale e occidentale degli USA, per celebrare la rivolta di Stonewall del 1969 a New York.  
Nella “breve prefazione” a un bel libro ‘Gay Day. The Golden Age Of The Christopher Street Parade‘ lo scrittore della beat generation William S.Burroughs spiegò l’importanza storica delle parate del Pride:

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Montly Review: THE UNITED STATES OF WAR

Editoriale della rivista Montly Review di giugno 2023.
Gran parte dell’impatto dell’opera ormai classica di Paul Baran e Paul Sweezy Il Capitale monopolistico quando fu pubblicato nel 1966, al culmine della guerra del Vietnam, può essere attribuito al suo capitolo su “Assorbimento del surplus: militarismo e imperialismo”.
Il capitolo iniziava con la domanda: “Perché l’oligarchia statunitense ha bisogno e mantiene una macchina militare così grande al giorno d’oggi, mentre prima se la cavava con una macchina molto più piccola?“. Nel 1959, sottolineava, gli Stati Uniti avevano acquisito un totale di 275 grandi complessi di basi militari in 31 Paesi, mentre avevano più di 1.400 basi militari in tutto, compresi tutti i siti che gli Stati Uniti occupavano allora, più le aree di base che avevano messo da parte in tutto il mondo per l’occupazione di emergenza. In queste basi erano stanziati circa un milione di soldati. (In seguito, altre stime che utilizzavano metodologie diverse hanno indicato in 883 il numero di basi militari statunitensi nel 1957 e in 1.014 quello del 1967). Sebbene gli Stati Uniti avessero pochi possedimenti coloniali al di fuori di Porto Rico e di alcune isole del Pacifico, le loro basi militari all’estero e il loro dominio politico-economico diretto sui singoli Paesi del mondo costituivano, secondo l’argomentazione di Baran e Sweezy, un “impero americano”. Dal 1945, gli Stati Uniti avevano già combattuto una grande guerra regionale in Asia, in Corea, ed erano impegnati in un’altra in Vietnam. Secondo Harry Magdoff, qualche anno dopo, nel 1968 la spesa militare americana pro capite, aggiustata per le variazioni dei prezzi, superava quella di tutte le grandi potenze messe insieme nella preparazione della Seconda guerra mondiale ed era più del doppio di quella della Germania nazista. (Paul A. Baran and Paul M. Sweezy, Monopoly Capital [New York: Monthly Review Press, 1966], 178–217 [tutte le citazioni delle pagine che seguono, altrimenti non specificate, si riferiscono a questa opera]; Harry Magdoff, Imperialism: From the Colonial Age to the Present [New York: Monthly Review Press, 1978], 205; John Bellamy Foster, Naked Imperialism [New York: Monthly Review Press, 2006], 57).
Come spiegare, allora, la massiccia espansione militare degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra?

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