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Eric Hobsbawm: Ungheria 1956, poteva andare diversamente? (2006)

Dopo la visione dell’ultimo film di Nanni Moretti ‘Il sol dell’avvenire’ mi è sembrato utile tradurre un vecchio articolo che il grande storico Eric Hobsbawm aveva dedicato ai fatti d’Ungheria del 1956 recensendo alcuni libri sul tema nel cinquantesimo dell’invasione sovietica sulla London Review Of Books. Il film di Moretti ha il merito di ricordare un passaggio storico fondamentale della seconda metà del Novecento. Nel 2016 ho scritto un documento approvato dalla direzione nazionale di Rifondazione Comunista e sul sito del partito pubblicammo la traduzione di un saggio sulla rivoluzione ungherese di G.M. Tamas, il più noto intellettuale antiOrban deceduto nei mesi scorsi. Purtroppo il libro di Gati definito “eccezionale” da Hobsbawn non è stato ancora tradotto in italiano. Buona lettura!

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C.L.R. James: Lenin e il partito di avanguardia, 1963

C.L.R. James è conosciuto in Italia soprattutto come autore del classico I giacobini neri, la prima storia della rivoluzione degli schiavi a Haiti. Meno per i suoi scritti sull’URSS e il pensiero di Marx e Lenin che pure ebbero un’influenza sotterranea enorme a livello internazionale (per esempio in Francia attraverso Socialisme ou Barbarie e lo stesso Debord) e sullo stesso operaismo italiano o figure di marxisti irregolari come Danilo Montaldi. Harry Cleaver lo pone tra gli esponenti di quella che definisce tradizione dell’autonomist marxism. Questo è un estratto da un articolo scritto da C.L.R. James nel 1963 per il 40° anniversario della morte di Lenin. Ho scritto un profilo di C.L.R. James e consiglio anche intervista al suo biografo Paul Buhle su Jacobin.
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La teoria e la pratica del partito d’avanguardia, dello stato a partito unico, non è (ripeto non) la dottrina centrale del leninismo. Non è la dottrina centrale, non è nemmeno una dottrina speciale. Non lo è e non lo è mai stata.(…)
Il bolscevismo, il leninismo, avevano dottrine centrali. Una era teorica, l’inevitabile crollo del capitalismo nella barbarie. Un’altra era sociale, che per il suo posto nella società, la sua formazione e il suo numero, solo la classe operaia poteva impedire questo degrado e ricostruire la società. L’azione politica consisteva nell’organizzare un partito per realizzare questi obiettivi. Questi erano i principi centrali del bolscevismo. La rigidità della sua organizzazione politica non proveniva dal cervello dittatoriale di Lenin, ma da una fonte meno illustre: lo stato di polizia zarista. Fino all’inizio effettivo della rivoluzione nel marzo 1917, il futuro che Lenin prevedeva e per il quale lavorava era l’instaurazione della democrazia parlamentare in Russia sui modelli britannico e tedesco. Il suo partito sarebbe stato un partito di opposizione in un parlamento che, calcolava, sarebbe stato dominato dai politici borghesi. Gli antileninisti, in realtà sono antimarxisti, possono attribuire a Lenin ogni sorta di impulsi o bisogni psicologici. Tutta finzione. Il bolscevismo fino al 1917 poteva essere d’accordo con Kautsky contro Bernstein, ma accettava in ogni tipo di stato, anche nello stato sovietico, non solo la coesistenza dei partiti politici dei lavoratori, ma di quelli borghesi. Su questo Lenin non mutò mai il suo punto di vista. Dove differiva dai democratici parlamentari era nella sua certezza che in Russia la democrazia parlamentare sarebbe stata raggiunta solo con la rivoluzione. Il bolscevismo attendeva con impazienza un regime di democrazia parlamentare perché questa era la dottrina del marxismo classico: che attraverso la democrazia parlamentare la classe operaia e tutta la popolazione (dico tutta la popolazione) si sarebbero istruite e formate per la transizione al socialismo.
Il bolscevismo, tuttavia, credeva che il rovesciamento dello zarismo non fosse una semplice questione di rovesciare un governo. La Russia aveva bisogno anche di abolire il latifondismo e di abolire l’oppressione delle nazionalità. Questi compiti la rivoluzione e solo la rivoluzione poteva compiere.
Quello che voglio affermare senza ombra di dubbio è che Lenin non ha mai avuto come tesi centrale del marxismo l’istituzione dello Stato a partito unico.
C. L. R. James
Lenin and the Vanguard Party, 1963

BORIS KAGARLITSKY: UN APPELLO AI MIEI AMICI PROGRESSISTI OCCIDENTALI

Boris Kagarlitsky è uno storico e sociologo che vive a Mosca. È un marxista che ha tenuto posizioni di opposizione sia durante il “socialismo reale” che dopo la restaurazione del capitalismo in Russia. Kagarlitsky è direttore dell’Istituto per la globalizzazione e i movimenti sociali, con sede a Mosca e caporedattore della rivista online in lingua russa Rabkor.ru (Il  Lavoratore). E’ appena uscito in Italia il suo libro “L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin” (Castelvecchi). Kagarlitsky sulla vicenda ucraina ha scritto cose molto in contrasto sia con la narrazione mainstream occidentale sia stridenti con quella “antimperialista” filo-Putin. Per esempio su Crimea e Donbass: Nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea, era estremamente popolare e non solo perché i russi erano nostalgici dell’impero. Affatto. La Crimea si è sempre considerata parte della Russia. Il popolo della Crimea è sempre stato ostile allo stato ucraino. C’erano sempre tentativi di separarsi. E poi nel 2014 non c’era un governo legittimo a Kiev. A Kiev, con il suo misto di colpo di stato e ribellione, il governo non aveva più legittimità. A quel punto, la Crimea si ribellò. C’è stata una ribellione, una rivolta popolare. Poi i russi sono intervenuti e hanno annesso il territorio, ma con un enorme sostegno popolare sul terreno. Poi Donetsk e Lugansk hanno provato a fare lo stesso e non hanno ricevuto abbastanza sostegno dalla Russia. La Russia li ha sostenuti politicamente e in una certa misura militarmente, ma non sono stati annessi. La gente si aspettava e voleva essere annessa.” (da un’intervista a Against The Current)Le analisi di Kagarlitsky non sempre ci azzeccano sugli scenari che si prefigurano (ma questo accadeva anche a Marx e a Lenin) ma contengono sempre elementi e punti di vista interessanti. Per esempio ha sempre escluso che le tensioni tra Russia e Occidente sfociassero in una guerra aperta. Kagarlitsky non ama né¨ il putinismo ne’ oppositori liberali che mancano di supporto popolare perché, parole sue, non ha senso aspettarsi aiuto da chi vuole il male per il proprio Paese e il suo popolo”Di Kagarlitsky su questo blog trovate anche un articolo sulla crescente repressione in Russia (va detto che non ha le caratteristiche hitleriane che racconta la propaganda di guerra occidentale). Kagarlitsky ha pubblicato in questi giorni questo appello che mi pare doveroso tradurre e diffondere. Fin dall’inizio della guerra noi di Rifondazione Comunista abbiamo scritto che siamo contro la guerra, “contro Putin e contro la NATO”.

Un militare russo in pensione da tempo discuteva per telefono degli eventi attuali con un ex collega che vive in Ucraina. Entrambi si risentivano della guerra tra i due Paesi, fino a poco tempo fa fraterni, ed esprimevano la speranza che questa follia finisse presto. Qualche giorno dopo, alcuni rappresentanti dei servizi speciali hanno fatto irruzione nella casa del russo. Non aveva rivelato alcun segreto militare e nessuno lo ha accusato di questo. È stato però accusato di aver screditato pubblicamente le Forze Armate della Federazione Russa. A sua volta, l’ex ufficiale, che conosceva le leggi, ha obiettato che la conversazione era stata privata. E che un’accusa del genere doveva essere applicata solo alle dichiarazioni pubbliche. “Ma era pubblica”, hanno obiettato gli ufficiali dell’intelligence. “Dopo tutto, l’abbiamo sentita!”.

Non si tratta di un frammento di un racconto scritto da un moderno imitatore di Franz Kafka o George Orwell, ma di una notizia di cui si sta discutendo sui social network russi. Vi si trovano anche numerosi resoconti di multe comminate a persone che molti anni fa avevano inavvertitamente dipinto la loro recinzione di giallo e blu, rischiando ora di essere associati in modo indesiderato alla bandiera ucraina, o che sono sconsideratamente usciti in strada con jeans blu e giacca gialla. Si è arrivati al punto che la polizia ha pensato di scrivere una denuncia su una cassetta di mele. I frutti erano colpevoli del fatto che gli stessi “colori nemici” erano presenti nella confezione.

Forse i lettori occidentali potrebbero trovare ridicoli tutti questi episodi. Ma provate a immaginare come si viva in uno stato in cui puoi essere detenuto e perseguito per aver indossato abiti sbagliati, per aver apprezzato un post “sedizioso” sui social network o semplicemente perché al nuovo capo della polizia non è piaciuto il tuo aspetto. In linea di principio, i tribunali russi non pronunciano assoluzioni (a questo proposito la situazione è molto peggiore che ai tempi di Stalin), quindi ogni accusa, anche la più assurda, si considera provata non appena mossa. E questo vale non solo per le questioni politiche, che sarebbe almeno in qualche modo comprensibile in una guerra, ma in generale per qualsiasi causa penale o amministrativa.

Ai miei colleghi occidentali, che a più di un anno dall’inizio della guerra continuano a chiedere comprensione di Putin e del suo regime, vorrei porre una domanda molto semplice. Volete vivere in un paese dove non ci sono stampa libera o tribunali indipendenti? In un paese dove la polizia ha il diritto di entrare in casa tua senza mandato? In un paese in cui gli edifici museali e le collezioni formatesi nel corso di decenni vengono consegnati alle chiese, incuranti della minaccia di perdere manufatti unici? In un paese in cui le scuole si allontanano dallo studio della scienza e progettano di abolire l’insegnamento delle lingue straniere, ma tengono “lezioni sull’importante”, durante le quali ai bambini viene insegnato a scrivere denunce e viene insegnato a odiare tutti gli altri popoli? In un Paese che ogni giorno trasmette in tv appelli a distruggere Parigi, Londra, Varsavia, con un attacco nucleare?

Non credo di volerlo davvero.

Quindi, anche noi in Russia non vogliamo vivere così.

Resistiamo o almeno cerchiamo di preservare le nostre convinzioni e principi basati sulla tradizione umanistica della cultura russa. E quando leggiamo su Internet di un’altra chiamata a “capire Putin” o “ad incontrarlo a metà strada”, questo viene percepito all’interno della Russia come complicità con i criminali che opprimono e rovinano il nostro stesso paese.

Tali appelli si basano su un disprezzo profondo, quasi razzista, per il popolo russo, per il quale, secondo i pacifisti liberali occidentali, è perfettamente naturale e accettabile vivere sotto il dominio di una dittatura corrotta.

Naturalmente, quando si dice che il regime di Putin è una minaccia per l’Occidente o per l’intera umanità, si tratta di una completa assurdità. Le persone per le quali questo regime rappresenta la minaccia più terribile sono (a parte gli ucraini, che sono bombardati quotidianamente da granate e missili) i russi stessi, il loro popolo e la loro cultura, il loro futuro.

È chiaro che Putin e il sistema da lui guidato sono cambiati negli ultimi anni; queste stesse persone a metà degli anni 2010 potevano sembrare abbastanza decenti rispetto ad altri politici mondiali. Certo, perseguivano la stessa politica antisociale, mentivano allo stesso modo, cercavano di manipolare l’opinione pubblica proprio come i loro omologhi occidentali. Ma la crisi degli ultimi tre anni, la guerra e la corruzione totale hanno portato a cambiamenti irreversibili, in cui la conservazione del regime politico esistente si è rivelata incompatibile non solo con i diritti umani e le libertà democratiche, ma semplicemente con l’elementare conservazione delle regole della moderna esistenza civile per la maggior parte della popolazione.

Dobbiamo affrontare questo problema da soli. Nessuno può sapere quanto velocemente accadrà, quante prove ci saranno lungo il cammino, quante persone soffriranno ancora. Ma sappiamo esattamente cosa accadrà. La decadenza del regime porterà inevitabilmente il Paese a cambiamenti rivoluzionari, di cui i sostenitori dell’attuale governo scriveranno con orrore.

E da parte del pubblico progressista occidentale abbiamo bisogno di una sola cosa: smettete di aiutare Putin con le vostre dichiarazioni concilianti e ambigue. Più spesso vengono fatte tali dichiarazioni, maggiore sarà la fiducia di funzionari, deputati e poliziotti nel fatto che l’ordine attuale possa continuare a esistere con il sostegno silenzioso o il mugugno ipocrita dell’Occidente. Ogni dichiarazione conciliante degli intellettuali liberali in America si traduce in un maggior numero di arresti, multe e perquisizioni di attivisti democratici e di semplici cittadini qui in Russia.

Non abbiamo bisogno di alcun favore, ma di uno molto semplice: la comprensione della realtà che si è sviluppata nella Russia di oggi. Smettere di identificare Putin e la sua banda con la Russia. Rendetevi finalmente conto che coloro che vogliono il bene della Russia e dei russi non possono che essere nemici inconciliabili di questo potere.

testo originale: https://russiandissent.substack.com/p/a-very-simple-request

Joe Slovo: Il socialismo ha fallito? (1989)

GW0391, South Africa, Johannesburg, 1990: South African Communist Party – SACP, rally in Soweto. Winnie Mandela, Nelson Mandela, Joe Slovo. Photograph: Graeme Williams/South Photographs

Molti conoscono le foto in cui Mandela compare accanto a un bianco sotto una grande falce e martello. Pochi però conoscono la leggendaria vita di quel comunista ebreo bianco che fu compagno di lotta per tutta la vita di Nelson Mandela fin dagli anni dell’università (consiglio un mio articolo). Ho tradotto questo saggio di Joe Slovo, uno dei più importanti leader del movimento anti-apartheid in Sud Africa e segretario del South African Communist Party, perchè lo ritengo un contributo e una testimonianza eccezionale del pensiero di uno dei più grandi dirigenti rivoluzionari anticolonialisti e antimperialisti della seconda metà del Novecento. Joe Slovo e sua moglie Ruth First, assassinata nel 1982 da una lettera bomba dei servizi segreti del regime dell’apartheid, sono stati due leggendari combattenti per la libertà. Slovo alla fine del 1989 scrisse questo opuscolo sulla crisi di quello che veniva definito “socialismo reale” rompendo una storica reticenza. L’autore era alla guida di un partito che, nella lotta durissima e eroica contro il regime razzista sostenuto da USA e GB, aveva sempre ricevuto un forte sostegno dall’URSS e dagli altri paesi del socialismo di stato. Al contrario del PCI italiano il SACP non avrebbe potuto permettersi polemiche con chi meritoriamente garantiva sostegno mentre affrontava un nemico ferocissimo. Il crollo però dei regimi dell’Europa Orientale lo spinse a intervenire con posizioni esplicite probabilmente maturate da lungo tempo. Il testo di Slovo aprì il dibattito non solo nel partito sudafricano, che allora si apprestava a uscire dalla clandestinità, ma anche nella sinistra nordamericana. Negli USA il movimento anti-apartheid aveva avuto grande forza e assai stretti erano i legami tra il Partito Comunista degli USA (CPUSA) e quello sud africano. Autorevoli esponenti del CPUSA come Angela Davis e Charlene Mitchell fecero proprie le tesi di Slovo mentre il segretario filo-sovietico Gus Hall si oppose e sostanzialmente mise fuori dalla porta molte tra le figure più importanti del partito (la vicenda viene ricostruita in un’intervista di Charlene Mitchell al giornale del SACP ‘The African Communist’). Il saggio di Slovo era molto in sintonia con le posizioni che avevano caratterizzato il PCI e anche con le contemporanee posizioni che nel 1989-1991 sostenne la mozione della Rifondazione Comunista. Nel 1991 fu diagnosticato a Slovo un cancro e prese il suo posto alla guida del SACP il popolarissimo Chris Hani che fu assassinato nel 1993. Il vecchio Joe, che fu nominato ministro per le abitazioni da Nelson Mandela, morì nel 1995. Le vicende storiche che seguirono il 1989 – la sconfitta del tentativo riformatore di Gorbaciov e la fine dell’URSS, le contraddizioni del nuovo Sud Africa democratico dopo la caduta dell’apartheid – non smentiscono a mio giudizio le argomentazioni di Slovo a favore di un comunismo democratico e il valore del suo testo di cui consiglio la lettura. (M.A.)

L’argomento di questo documento di discussione sarà senza dubbio oggetto di dibattito negli anni a venire, sia all’interno che all’esterno dei partiti comunisti e operai. La pubblicazione di questa bozza è stata autorizzata dalla direzione del nostro partito, come trampolino di lancio per ulteriori riflessioni critiche. Alcuni colleghi hanno dato suggerimenti estremamente preziosi, che sono stati recepiti. Ma, nel suo insieme, rappresenta solo le prime riflessioni dell’autore.

Gennaio 1990

1. Introduzione

Il socialismo è indubbiamente alle prese con una crisi più grande che mai dal 1917. L’ultima metà del 1989 ha visto il drammatico crollo della maggior parte dei governi dei partiti comunisti dell’Europa orientale. La loro caduta è stata determinata da massicce sollevazioni che hanno avuto l’appoggio non solo della maggioranza della classe operaia ma anche di una larga fetta degli iscritti agli stessi partiti di governo. Si trattava di rivolte popolari contro regimi impopolari; se i socialisti non sono in grado di venire a patti con questa realtà, il futuro del socialismo è davvero cupo.

La crescente cronaca di crimini e distorsioni nella storia del socialismo reale, i suoi fallimenti economici e il divario che si è sviluppato tra socialismo e democrazia, hanno sollevato dubbi nelle menti di molti ex sostenitori della causa socialista sul fatto che il socialismo possa funzionare. In effetti, dobbiamo aspettarci che, per un certo periodo, molti dei paesi colpiti diventeranno facili bersagli per coloro che mirano a realizzare un ritorno al capitalismo, compreso l’abbraccio delle sue politiche estere.( 1 ) Continue reading Joe Slovo: Il socialismo ha fallito? (1989)

Bertrand Russell e Antonio Gramsci. Democrazia e rivoluzione (1920)

Risfogliando una raccolta dell’Ordine Nuovo ci si rende conto di quanto avesse ragione Pietro Ingrao quando sosteneva che “la nostra autentica «tradizione» è radicata in un bisogno di democrazia“. Tra gli articoli balza agli occhi la pubblicazione in due puntate di un lungo articolo di Bertrand Russell sulla Russia sovietica dal titolo Democrazia e Rivoluzione, con una breve presentazione di Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo n.15 e n.18 del 1920. Russell era un critico del bolscevismo ma Gramsci lo pubblica. D’altronde sul giornale non si nascondevano i dibattiti della nascente Internazionale Comunista (per esempio lo scontro tra Radek e Paul Levi sulla rivoluzione ungherese). La democrazia proletaria e la rivoluzione dal basso implicavano per Gramsci, come per Rosa Luxemburg, lettori operai abituati a esercitare lo spirito critico. Tutto molto lontano dall’immagine monolitica e totalitaria che ci tramanda la caricaturizzazione che fanno dei comunisti di allora gli anticomunisti che retrodatano il clima che si creò nell’URSS e nel Comintern durante lo stalinismo. Pochi lo sanno ma il filosofo inglese si definiva negli anni ’20 comunista (ne scriverò in un prossimo post). Quando il comunismo finì per essere identificato con lo stalinismo scrisse negli anni ’50 Perchè non sono comunista, ma rimase sempre un sostenitore del socialismo.  “Il socialismo, in qualsiasi forma desiderabile, deve includere la democrazia; in caso contrario, l’unione del potere politico ed economico non fa altro che aumentare le opportunità di sfruttamento da parte della classe dirigente” (…) “Sebbene io sia un socialista convinto quanto il più ardente marxista, non considero il socialismo come un vangelo di vendetta proletaria, e nemmeno, principalmente, come un mezzo per garantire la giustizia economica. Lo considero principalmente come un adattamento alla produzione meccanica richiesta da considerazioni di buon senso, e calcolato per aumentare la felicità, non solo dei proletari, ma di tutti tranne una piccola minoranza della razza umana”. Ripubblico la prefazione di Gramsci e l’articolo di Bertrand Russell, due maestri di libertà per chi non rinuncia alla rifondazione del comunismo e all’elaborazione di un progetto di socialismo del XXI secolo. Ho già dedicato un post al liberalcomunista Bertrand Russell in cui ricordavo che il suo libro del 1920, Teoria e pratica del bolscevismo, si concludeva con l’affermazione: “Russian Communism may fail and go under, but Communism itself will not die”. Una risposta in anticipo di un secolo alla cosiddetta “morte del comunismo”. 

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La presentazione non firmata di Antonio Gramsci:

Bertrand Russel è uno dei più grandi pensatori del mondo moderno. Professore di matematica e di logica all’Università di Cambridge, egli occupa uno dei primi posti nel mondo della scienza e della ricerca filosofica. Fu avversario coraggioso della guerra. Il suo pacifismo militante gli valse sei mesi di carcere e l’espulsione dall’insegnamento universitario. Quando gli studenti tornarono dal fronte, l’Università fu costretta a reintegrare il Russel nella sua funzione e a distruggere le carte che negli archivi universitari registravano l’espulsione del maestro.

Il Russel è un grande pacifista liberale, uno spirito libero e superiore come pochissimi ne possiede la classe borghese; egli ha compreso il senso profondo e la necessità storica della Rivoluzione proletaria, come non hanno compreso i socialdemocratici che continuano a esaltare la democrazia borghese e a vedere in essa l’ultimo termine dello sviluppo storico.


Non è diventato bolscevico, ma ha concluso uno studio critico sulla Repubblica dei Soviet, scritto dopo un viaggio in Russia, con l’affermazione: “se abitassi in Russia, mi metterei ai servizi dello Stato operaio”.       

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