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Lo storico Marcus Rediker su The Nation ha recensito l’ultimo libro di David Graeber, meritoriamente tradotto in Italia dalla casa editrice Eleuthera con il titolo L’UTOPIA PIRATA DI LIBERTALIA.Â
Il defunto David Graeber era un anarchico, un attivista, un antropologo e un maestro narratore. Nel corso della sua carriera, ha esplorato questioni di potere, libertà e giustizia sociale, di solito per un lungo periodo di tempo, e ha incorporato la sua analisi in aneddoti ricchi e suggestivi. In Debt: The First 5,000 Years, ha raccontato il “comunismo quotidiano” che è alla base della società umana e i modi in cui vari tipi di debito sono venuti a opprimerlo coprirlo come leva del potere e dell’ingiustizia. In The Dawn of Everything, scritto insieme a David Wengrow, ha proposto niente di meno che un’origine e una storia alternative per la civiltà umana. Tutto ciò che Graeber ha scritto era contemporaneamente una genealogia del presente e un resoconto di come potrebbe essere una società giusta.
Graeber ha anche messo in pratica le sue idee. È stato attivo nelle proteste anti-globalizzazione e nelle azioni dirette degli anni ’90 e dei primi anni 2000 ed è diventato un importante attivista e teorico del movimento Occupy nel 2011. Ha contribuito a coniare la frase “Siamo il 99%” e spesso si è approcciato al suo attivismo in maniera molto simile al suo lavoro in antropologia: cercando di raccontare una storia di umanità , di azione e resistenza, di democrazie radicali e ricerca dell’emancipazione. Continue reading Marcus Rediker: Illuminismo dal basso. Pirati e democrazia radicale in Madagascar.
Ronnie Kasrils è una figura leggendaria della lotta armata contro il regime dell’apartheid. La sua autobiografia non è purtroppo ancora stata pubblicata in Italia. Comunista bianco, oggi a 84 anni è una delle più autorevoli voci critiche in Sud Africa. Vi propongo questo articolo che ha avuto una grande circolazione internazionale perché dopo la pubblicazione sul Guardian nel 2013 è stato citato da Slavoj Zizek in un suo articolo su Mandela. Rimane un documento attuale perché costituisce un’onesta autocritica sui limiti della rivoluzione democratica nazionale dopo la caduta dell’apartheid. Negli anni ’80 e ’90 siamo stati assai coinvolti dalla lotta contro l’apartheid ma assai meno attenzione cé stata per il Sud Africa post-apartheid. Devo dire che Kasrils in parte descrive un quadro globale che riguarda anche l’Italia degli anni ’90. Buona lettura!
I giovani sudafricani di oggi sono conosciuti come la generazione dei nati liberi. Godono della dignità di essere nati in una società democratica con il diritto di voto e di scegliere chi governerà. Ma il Sudafrica moderno non è una società perfetta. La piena uguaglianza – sociale ed economica – non esiste e il controllo della ricchezza del Paese rimane nelle mani di pochi, quindi sorgono nuove sfide e frustrazioni. Ai veterani della lotta contro l’apartheid come me viene spesso chiesto se, alla luce di tale delusione, ne sia valsa la pena. Anche se la mia risposta è sì, devo confessare i miei seri dubbi: credo che dovremmo fare molto meglio.
Ci sono stati risultati impressionanti dal conseguimento della libertà nel 1994: nella costruzione di case, asili nido, scuole, strade e infrastrutture; la fornitura di acqua ed elettricità a milioni; istruzione e assistenza sanitaria gratuite; aumenti delle pensioni e degli assegni sociali stabilità finanziaria e bancaria e una crescita economica lenta ma costante (almeno fino alla crisi del 2008). Questi progressi, tuttavia, sono stati controbilanciati dall’interruzione nell’erogazione dei servizi, che ha provocato violente proteste da parte delle comunità povere ed emarginate; gravi inadeguatezze e disuguaglianze nei settori dell’istruzione e della sanità; un feroce aumento della disoccupazione; brutalità e tortura endemiche della polizia; sconvenienti lotte di potere all’interno del partito al governo che sono peggiorate di gran lunga dalla cacciata di Mbeki nel 2008; un’allarmante tendenza alla segretezza e all’autoritarismo nel governo; l’ingerenza con la magistratura; e minacce ai media e alla libertà di espressione. Anche la privacy e la dignità di Nelson Mandela sono violate per il bene di un’opportunità fotografica a buon mercato dai vertici dell’ANC.
I più vergognosi e scioccanti di tutti, gli eventi del Bloody Thursday “ 16 agosto 2012“ quando la polizia ha massacrato 34 minatori in sciopero nella miniera di Marikana, di proprietà della società londinese Lonmin. Il massacro di Sharpeville nel 1960 mi spinse ad unirmi all’ANC. Ho trovato Marikana ancora più angosciante: un Sudafrica democratico doveva porre fine a tale barbarie. Eppure il presidente e i suoi ministri, si sono rinchiusi in una cultura dell’insabbiamento. Incredibilmente, neanche il Partito Comunista Sudafricano, il mio partito da oltre 50 anni, ha condannato la polizia.
La lotta di liberazione del Sudafrica ha raggiunto un punto culminante, ma non il suo apice, quando abbiamo superato il regime dell’apartheid. Allora, le nostre speranze erano alte per il nostro paese data la sua moderna economia industriale, le risorse minerarie strategiche (non solo oro e diamanti), e un movimento operaio e sindacale organizzato con una ricca tradizione di lotta. Ma quell’ottimismo trascurava la tenacia del sistema capitalista internazionale. Dal 1991 al 1996 è iniziata la battaglia per l’anima dell’ANC, che alla fine è stata persa con il potere corporativo: siamo stati intrappolati dall’economia neoliberista o, come alcuni oggi gridano, abbiamo “venduto la nostra gente lungo il fiume”.
Quello che chiamo il nostro momento faustiano è arrivato quando abbiamo preso un prestito dal FMI alla vigilia delle nostre prime elezioni democratiche. Quel prestito, con vincoli che precludevano un’agenda economica radicale, era considerato un male necessario, così come lo erano le concessioni per mantenere i negoziati in corso e prendere in consegna la terra promessa per il nostro popolo. Il dubbio era arrivato a regnare sovrano: credevamo, erroneamente, che non ci fosse altra scelta; che dovevamo essere cauti, dal momento che nel 1991 il nostro alleato un tempo potente, l’Unione Sovietica, fallita a causa della corsa agli armamenti, era crollata. Inescusabilmente, avevamo perso la fiducia nella capacità delle nostre stesse masse rivoluzionarie di superare tutti gli ostacoli. Quali che fossero le minacce di isolare un Sudafrica in via di radicalizzazione, il mondo non avrebbe potuto fare a meno delle nostre vaste riserve di minerali. Perdere i nervi non era necessario o inevitabile. La leadership dell’ANC doveva rimanere determinata, unita e libera dalla corruzione e, soprattutto, mantenere la sua volontà rivoluzionaria. Invece ci siamo tirati indietro. La leadership dell’ANC doveva rimanere fedele al suo impegno di servire il popolo.
Questo comportamento gli avrebbe conferito l’egemonia di cui aveva bisogno non solo sulla classe capitalista radicata, ma anche sulle élite emergenti, molte delle quali avrebbero cercato la ricchezza attraverso l’emancipazione economica dei neri, pratiche corrotte e vendita di influenza politica.
Rompere il dominio dell’apartheid attraverso i negoziati, piuttosto che con una sanguinosa guerra civile, sembrava allora un’opzione troppo buona per essere ignorata. Tuttavia, a quel tempo, l’equilibrio di potere era della parte dell’ANC e le condizioni erano favorevoli per un cambiamento più radicale al tavolo dei negoziati di quanto alla fine accettammo. Non è affatto certo che il vecchio ordine, a parte isolati estremisti di destra, avesse la volontà o la capacità di ricorrere alla sanguinosa repressione prevista dalla leadership di Mandela. Se avessimo tenuto i nervi saldi, avremmo potuto andare avanti senza fare le concessioni che abbiamo fatto.
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 Christian Rakovsky 1923, primo Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo (Primo Ministro) della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina.
di Roger D. Markwick*
Ho tradotto questo testo da Historical Materialism perchè mi sembra utile per la comprensione storica della vicenda ucraina. Molto interessante la figura del bolscevico Rakovsky, eliminato nel 1941 per ordine di Berija e Stalin e riabilitato solo nel 1988 con Bucharin e Rykov per iniziativa di Gorbaciov. In rete disponibili in inglese la sua autobiografia scritta nel 1926 quando era ancora un dirigente bolscevico e vari scritti.
“L’Ucraina sovietica… può essere giustamente definita ‘l’Ucraina di Vladimir Lenin’. Ne è stato il creatore e l’artefice”, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin, tre giorni prima di lanciare l’invasione illegale dell’Ucraina. Nella mente di Putin, l’Ucraina è uno stato illegittimo: il figlio bastardo della rivoluzione bolscevica del 1917. “L’Ucraina moderna”, ha affermato con veemenza Putin, “è stata interamente creata dalla Russia o, per essere più precisi, dalla Russia bolscevica, comunista”. 1
Putin ha ragione su un aspetto: la formazione della Repubblica socialista sovietica ucraina (UkSSR) il 10 marzo 1919 e la sua incorporazione formale nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (URSS) il 30 dicembre 1922 hanno conferito all’Ucraina 72 anni di status senza precedenti come stato nazione territorialmente definito e internazionalmente riconosciuto (nonostante le vicissitudini della seconda guerra mondiale). Tuttavia, la formazione dell’UkSSR e la sua incorporazione nell’URSS fu un processo tortuoso, che rivela molto del pensiero bolscevico sulla nazionalità in generale e sull’Ucraina in particolare, una questione che doveva essere intimamente legata all’ascesa di Stalin e al sorte della Rivoluzione d’Ottobre. Protagonista fondamentale nei dibattiti sullo status delle minoranze etniche in vista della dichiarazione formale dell’URSS fu Christian Rakovsky (1873-1941), il bolscevico di origine bulgara che il 19 gennaio 1919, al culmine della vita civile guerra, era stato nominato da Lenin presidente del governo provvisorio ucraino sovietico. 2
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Il mese scorso, al primo ministro della Namibia Saara Kuugongelwa-Amadhila è stato chiesto della decisione del suo paese di astenersi su una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di condanna della Russia per la guerra in Ucraina. Kuugongelwa-Amadhila, un economista in carica dal 2018, non si è tirato indietro. “Stiamo promuovendo una risoluzione pacifica di quel conflitto”, ha detto , “in modo che il mondo intero e tutte le risorse del mondo possano essere concentrate sul miglioramento delle condizioni delle persone in tutto il mondo, invece di essere spese per acquisire armi, uccidere persone, e di fatto creando ostilità ‘. Il denaro speso per le armi, ha proseguito, “potrebbe essere utilizzato meglio per promuovere lo sviluppo in Ucraina, in Africa, in Asia, in altri luoghi, nella stessa Europa, dove molte persone stanno attraversando difficoltà “.
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Sui taccuini dell’esilio messicano Victor Serge scrive nel 1945 una critica delle tesi dell’ex-trotzkista USA James Burnham, l’autore di The Managerial Revolution. Burnham aveva pubblicato un testo intitolato “L’erede di Lenin” nel numero dell’inverno 1945 di Partisan Review . Il passaggio più spesso citato: “Sotto Stalin la rivoluzione comunista non è stata tradita, ma compiuta”. A questa tesi, molto popolare perché Stalin era stato alleato degli USA nella guerra contro Hitler, Serge si ribella come d’altronde aveva fatto in tutta la sua opera. Va detto che nei Carnets in una nota del 13 aprile 1943, meritoriamente pubblicati in Italia da Massari Editore, Serge riconosce che Stalin era un comunista anche se aveva ucciso la rivoluzione e sterminato la vecchia guardia del partito di Lenin. Serge scrive del compagno divenuto implacabile nemico con un’onestà intellettuale davvero rara. Sul tema consiglio oltre alle “Memorie di un rivoluzionario” anche “Da Lenin a Stalin”. Su questo blog e anche sulla pagina facebook da me curata trovate altri contributi di e su Serge.
Fine maggio 1945 La controversia causata da James Burnham non può, credo, giungere ad alcuna conclusione obiettiva senza un semplice richiamo ai fatti storici (ammesso che anche le ideologie siano fatti storici) e senza il nostro tentativo di considerare per un momento il problema dal punto di vista russo, ben diverso nelle circostanze dal punto di vista dell’intellighenzia americana. Essendo stato per diciassette anni testimone e partecipe degli eventi in Russia, credo sia mio dovere dare un piccolo contributo a questo dibattito.
James Burnham sostiene che Stalin non è la “straordinaria mediocrità” di cui Trotsky ha dipinto il ritratto. Che è un “grande capitano”, un personaggio grande nei suoi crimini e nelle sue vittorie e che “in questi anni di guerra… non ha mai perso l’iniziativa politica”. Infine, che Stalin è il legittimo continuatore del bolscevismo: “Se qualcuno ha tradito il bolscevismo, non è stato Stalin ma Trotsky”. James Burnham riconosce l’estrema mediocrità delle produzioni intellettuali di Stalin, sia scritti che discorsi.
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