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VOLODYMYR ISHCHENKO: VOCI UCRAINE?

Ho tradotto un saggio molto interessante di un intellettuale di sinistra ucraino uscito sull’ultimo numero della New Left Review NLR 138•

Recentemente si è parlato molto di ‘decolonizzazione’ dell’Ucraina. Questa è spesso inteso nel senso di liberare la sfera pubblica ucraina e il sistema educativo dalla cultura e dalla lingua russa. I decolonizzatori più radicali, presenti anche in Occidente, vorrebbero vedere la Federazione Russa disintegrarsi in molteplici stati più piccoli – per concludere il processo di crollo della Russia imperiale iniziato nel 1917 e non completato nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS. Nel contesto universitario, può anche significare “decolonizzare” il pensiero delle scienze sociali e umanistiche, il cui approccio nell’intera regione post-sovietica è visto come penetrato e distorto da una forma di lungo periodo dell’imperialismo culturale russo.
Quando la più grande ondata di decolonizzazione della storia moderna ebbe luogo dopo la seconda guerra mondiale, l’attenzione era diversa. A quel tempo, la decolonizzazione significava non solo il rovesciamento degli imperi europei ma anche, in modo cruciale, la costruzione di nuovi stati in via di sviluppo (development states, nel testo) nei paesi ex coloniali, con un robusto settore pubblico e industrie nazionalizzate per sostituire gli squilibri dell’economia coloniale attraverso programmi di sostituzione delle importazioni. Le contraddizioni e i fallimenti di tali strategie sono stati esplorati in termini in generale marxiani nelle teorie del sottosviluppo, della dipendenza dal debito e dell’analisi del sistema mondiale. Oggi, la ‘decolonizzazione’ viene proposta per l’Ucraina e la Russia in un contesto in cui il neoliberismo ha preso il posto delle politiche di stato-sviluppo e gli ‘studi postcoloniali’ post-strutturalisti hanno sostituito le teorie della dipendenza neo-imperialista. La liberazione nazionale non è più intesa come intrinsecamente legata alla rivoluzione sociale, sfidando le basi del capitalismo e dell’imperialismo. Accade invece nel contesto delle ‘‘deficient revolutions’’ tipo Maidan, che non ottengono né il consolidamento della democrazia liberale né lo sradicamento della corruzione. Se riescono a rovesciare i regimi autoritari e a ‘potenziare’ i rappresentanti delle ONG della società civile, sono anche suscettibili di indebolire il settore pubblico e aumentare i tassi di criminalità, le disuguaglianze sociali e le tensioni etniche.nota1 Continue reading VOLODYMYR ISHCHENKO: VOCI UCRAINE?

Janet Afary e Kevin Anderson/ Donna, vita, libertà: le origini della rivolta in Iran

Le massicce proteste in Iran, alimentate dall’audacia di giovani donne e bambini, affondano le radici in oltre un secolo di lotte. Un articolo pubblicato sul sito della rivista Dissent.

Nel marzo 1979, donne e ragazze iraniane urbane e i loro sostenitori maschi presero parte a una settimana di manifestazioni a Teheran, a partire dalla Giornata internazionale della donna, per protestare contro l’editto del nuovo regime islamista che obbligava le donne a indossare l’hijab. Le manifestanti espressero un profondo senso di tradimento per la direzione presa dalla rivoluzione iraniana, allora vecchia di poche settimane. “All’alba della libertà, non abbiamo libertà“, gridavano. I loro ranghi crescevano di giorno in giorno, raggiungendo almeno 50.000 dimostranti. Il movimento attirò la solidarietà internazionale, anche da Kate Millet, che notoriamente viaggiò per unirsi a loro, e Simone de Beauvoir. In patria, le femministe iraniane ottennero il sostegno dei People’s Fedayeen, un gruppo marxista-leninista che si era impegnato nella resistenza armata contro la monarchia appoggiata dagli americani prima che fosse rovesciata dalla rivoluzione. Per qualche giorno, i Fedayeen formarono un cordone protettivo, separando i manifestanti dalla folla di islamisti che cercavano di attaccarli fisicamente. Ma col tempo, influenzati da una visita di Yasser Arafat e altri, i Fedayn ritirarono il loro sostegno per paura di indebolire la rivoluzione in un momento in cui, era convinzione diffusa, il governo degli Stati Uniti era pronto ad attaccare e restaurare lo scià. Negli anni successivi, il movimento femminista iraniano sembrò morire, o almeno diventare clandestino.

Più di quarant’anni dopo Mahsa (Jina) Amini, una donna curda di ventidue anni, è arrivata a Teheran con la sua famiglia in vacanza. Poco dopo, il 13 settembre 2022, gli agenti della famigerata polizia morale del paese l’hanno arrestata con l’accusa di indossare l’hijab in modo improprio. Nonostante le sue vigorose proteste, l’hanno presa in custodia, dopodiché, secondo testimoni oculari, è stata duramente picchiata. Tre giorni dopo, è morta per lesioni cerebrali. La morte di Amini ha colpito un nervo scoperto in tutta la nazione. Il rifiuto dello stato di indagare sulle cause della sua morte, o di offrire scuse, ha ulteriormente alimentato la rabbia delle manifestanti. La manifestanti hanno presto iniziato a gridare: “Non aver paura, non aver paura, siamo tutti insieme”.

Le manifestazioni hanno avuto luogo in più di ottanta città e centri abitati in tutto il paese. Con il diffondersi delle proteste, le giovani donne, anche studentesse delle scuole superiori e medie, si sono strappate il velo e hanno gridato: “Morte al dittatore!” La rivolta è radicata nella rabbia rovente contro l’apartheid di genere, e non solo tra le donne. Come ha detto a Le Monde la famosa attrice Golshifteh Farahani , ciò che ha reso storicamente nuove queste proteste è che “gli uomini sono disposti a morire per la libertà delle donne”.

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Come il colonialismo britannico ha ucciso 100 milioni di indiani in 40 anni

Tra il 1880 e il 1920, le politiche coloniali britanniche in India hanno causato più vittime di tutte le carestie nell’Unione Sovietica, nella Cina maoista e nella Corea del Nord messe insieme. Ce lo ricordano Dylan Sullivan e Jason Hickel. Gli errori e orrori dello stalinismo sono stati usati per cancellare dai cuori e dall’immaginario di miliardi di esseri umani il sogno di un’alternativa socialista/comunista al capitalismo. Il Libro Nero del comunismo, con le sue cifre gonfiate, è servito a un’operazione ideologica che ha trasformato il comunismo in un’idea criminale come ha sostenuto Francois Furet. Contemporaneamente nell’ultimo trentennio si è compiuta la quasi totale rimozione degli orrori che hanno caratterizzato la storia del capitalismo. I crimini dell’occidente imperialista e colonialista sono rimossi dalla memoria collettiva. Pensare che negli anni ’70 era una consapevolezza popolare talmente diffusa e condivisa da tutti i partiti antifascisti che uno dei più popolari sceneggiati della RAI – Sandokan – celebrava la rivolta contro il colonialismo britannico.

Gli ultimi anni hanno visto una rinascita della nostalgia per l’impero britannico.

Libri di alto profilo come Empire: How Britain Made the Modern World di Niall Ferguson e The Last Imperialist di Bruce Gilley hanno affermato che il colonialismo britannico ha portatoprosperità e sviluppo all’India e ad altre colonie. Due anni fa, un sondaggio YouGov ha rilevato che il 32% delle persone in Gran Bretagna è attivamente orgoglioso della storia coloniale della nazione.

Questa immagine rosea del colonialismo è drammaticamente in conflitto con la documentazione storica. Secondo una ricerca dello storico economico Robert C Allen, la povertà estrema in India aumentò sotto il dominio britannico, dal 23% nel 1810 a oltre il 50% a metà del XX secolo. I salari reali diminuirono durante il periodo coloniale britannico, raggiungendo il punto più basso nel XIX secolo, mentre le carestie divennero più frequenti e più mortali. Lungi dal giovare al popolo indiano, il colonialismo fu una tragedia umana con pochi paralleli nella storia documentata.

Gli esperti concordano sul fatto che il periodo dal 1880 al 1920 – “ l’apice del potere imperiale della Gran Bretagna“ – fu particolarmente devastante per l’India. I censimenti completi della popolazione effettuati dal regime coloniale a partire dal 1880 rivelano che il tasso di mortalità aumentò notevolmente durante questo periodo, da 37,2 morti per 1.000 persone negli anni 1880 a 44,2 negli anni ’10. L’aspettativa di vita scese da 26,7 anni a 21,9 anni.

In un recente articolo sulla rivista World Development, abbiamo utilizzato i dati del censimento per stimare il numero di persone uccise dalle politiche imperiali britanniche durante questi quattro decenni brutali.

Dati affidabili sui tassi di mortalità in India esistono solo dal 1880. Se usiamo questo come riferimento per la mortalità “normale”, troviamo che circa 50 milioni di morti in eccesso si sono verificate sotto l’egida del colonialismo britannico durante il periodo dal 1891 al 1920.

Cinquanta milioni di morti sono una cifra sbalorditiva, eppure questa è una stima prudente. I dati sui salari reali indicano che nel 1880 il tenore di vita nell’India coloniale era già diminuito drasticamente rispetto ai livelli precedenti. Allen e altri studiosi sostengono che prima del colonialismo, il tenore di vita indiano potrebbe essere stato “alla pari con le parti in via di sviluppo dell’Europa occidentale”. Non sappiamo con certezza quale fosse il tasso di mortalità  precoloniale dell’India, ma se assumiamo che fosse simile a quello dell’Inghilterra nel XVI e XVII secolo (27,18 morti per 1.000 persone), scopriamo che in India si sono verificati 165 milioni di morti in eccesso nel periodo dal 1881 al 1920.

Mentre il numero preciso di morti è sensibile alle ipotesi che facciamo sulla mortalità  di base, è chiaro che circa 100 milioni di persone morirono prematuramente al culmine del colonialismo britannico. Questa è tra le più grandi crisi di mortalità  indotte dalla politica nella storia umana. È più grande del numero combinato di morti avvenute durante tutte le carestie nell’Unione Sovietica, nella Cina maoista, nella Corea del Nord, nella Cambogia di Pol Pot e nell’Etiopia di Mengistu.

In che modo il dominio britannico ha causato questa tremenda perdita di vite umane? C’erano diversi meccanismi. Per prima cosa, la Gran Bretagna ha effettivamente distrutto il settore manifatturiero indiano. Prima della colonizzazione, l’India era uno dei maggiori produttori industriali del mondo, esportando tessuti di alta qualità in tutti gli angoli del globo. Il tessuto dozzinale prodotto in Inghilterra semplicemente non poteva competere. La situazione iniziò a cambiare, tuttavia, quando la British East India Company assunse il controllo del Bengala nel 1757.

Secondo lo storico Madhusree Mukerjee, il regime coloniale eliminò di fatto le tariffe indiane, consentendo alle merci britanniche di inondare il mercato interno, ma creò un sistema di tasse e dazi interni esorbitanti che impedivano agli indiani di vendere stoffa all’interno del proprio paese, figuriamoci di esportarla.

Questo regime commerciale ineguale schiacciò i produttori indiani e effettivamente deindustrializzà il paese. Come si vanto il presidente della East India and China Association davanti al parlamento inglese nel 1840: “Questa azienda è riuscita a trasformare l’India da un paese manifatturiero in un paese esportatore di prodotti grezzi”. I produttori inglesi ottennero un enorme vantaggio, mentre l’India fu ridotta alla poverta e la sua gente resa vulnerabile alla fame e alle malattie.

A peggiorare le cose, i colonizzatori britannici istituirono un sistema di saccheggio legale, noto ai contemporanei come “drenaggio della ricchezza”. La Gran Bretagna tassava la popolazione indiana e poi utilizzava le entrate per acquistare prodotti indiani – indaco, grano, cotone e oppio – ottenendo così questo  beni gratuitamente. Questi beni venivano poi consumati all’interno della Gran Bretagna o riesportati all’estero, con le entrate intascate dallo stato britannico e utilizzate per finanziare lo sviluppo industriale della Gran Bretagna e delle sue colonie di coloni (settler colonies): Stati Uniti, Canada e Australia.

Questo sistema prosciugò l’India di beni per un valore di migliaia di miliardi di dollari in denaro di oggi. Gli inglesi furono impietosi nell’imporre il drenaggio, costringendo l’India a esportare cibo anche quando la siccità o le inondazioni minacciavano la sicurezza alimentare locale. Gli storici hanno stabilito che decine di milioni di indiani morirono di fame durante diverse considerevoli carestie indotte dalla politica alla fine del XIX secolo, poiché le loro risorse furono sottratte dalla Gran Bretagna e dalle sue colonie di coloni.

Gli amministratori coloniali erano pienamente consapevoli delle conseguenze delle loro politiche. Vedevano milioni di persone morire di fame eppure non cambiarono rotta. Continuarono a privare consapevolmente le persone delle risorse necessarie alla sopravvivenza. La straordinaria crisi di mortalità  del tardo periodo vittoriano non fu casuale. Lo storico Mike Davis sostiene che le politiche imperiali britanniche “erano spesso l’esatto equivalente morale delle bombe sganciate da 18.000 piedi”.
La nostra ricerca rileva che le politiche di sfruttamento della Gran Bretagna siano associate a circa 100 milioni di morti in eccesso durante il periodo 1881-1920. Questo è un semplice caso di riparazione, con un forte precedente nel diritto internazionale. Dopo la seconda guerra mondiale, la Germania ha firmato accordi di riparazione per risarcire le vittime dell’Olocausto e più recentemente ha accettato di risarcire la Namibia per i crimini coloniali perpetrati lì all’inizio del 1900. Sulla scia dell’apartheid, il Sudafrica ha pagato risarcimenti alle persone che erano state terrorizzate dal governo della minoranza bianca.
La storia non può essere cambiata e i crimini dell’impero britannico non possono essere cancellati. Ma le riparazioni possono aiutare ad affrontare l’eredita di privazione e ingiustizia che il colonialismo ha prodotto. È un passo fondamentale verso la giustizia e la riconciliazione.

Markus Rediker: Il radicalismo dal basso di Staughton Lynd

Dal settimanale The Nation ho tradotto il ricordo di Staughton Lynd scritto da Markus Rediker, uno dei miei storici preferito e co-autore con Peter Lineabaugh di “I ribelli dell’Atlantico” (Feltrinelli) e di una quindicina di libri tradotti in tutto il mondo, tra cui segnalo disponibili in italiano Benjamin Lay, il piantagrane,  Sulle tracce dei pirati. La storia affascinante della vita sui mari del ’700 (Piemme, 1996), Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria (Eleuthera, 2005) e La ribellione dell’Amistad. Un’odissea atlantica di schiavitù e libertà (Feltrinelli, 2013).

Quando Staughton Lynd, Tom Hayden e Herbert Aptheker si recarono ad Hanoi per dichiarare la pace con il popolo vietnamita nel 1965, si fermarono a Parigi per incontrare diversi funzionari del Vietnam del Nord. Dopo una lunga discussione, un uomo vietnamita piccolo e anziano prese da parte Staughton e gli disse: “Professor Lynd, deve capire che vinceremo questa guerra, che ci aiuti o meno. Per ogni soldato ucciso dall’esercito degli Stati Uniti, due si uniranno al Fronte di liberazione nazionale”. A Staughton piaceva raccontare questa storia di qualcuno che lo aveva buttato giù dal cavallo di suo salvatore e lo aveva rimesso al suo posto con solo due frasi. Staughton aggiungeva, ricordando la storia: “Questo è il tipo di pensatore dialettico che vorrei diventare”.

L’ultima riga era puro Staughton. Era sempre in divenire, sempre in cambiamento, sempre in cerca mentre i tempi e i movimenti dal basso cambiavano. Lavorando con la sua compagna Alice (Niles) Lynd, ha cercato incessantemente nuove fonti di combattimento e ispirazione. Continue reading Markus Rediker: Il radicalismo dal basso di Staughton Lynd

Staughton Lynd: Anarchismo, marxismo e Victor Serge

Il vecchio Staughton Lynd è morto nel giorno dell’85° anniversario della morte di Victor Serge. Nel 2015 aveva dedicato al grande scrittore rivoluzionario un articolo.

Una recensione di Anarchists Never Surrender: Essays, Polemics, and Correspondence on Anarchism, 1908-1938edito e tradotto da Mitchell Abidor (Oakland, CA: PM Press, 2015)

Andrej Grubacic e io abbiamo suggerito l’importanza di sintetizzare due tradizioni radicali, l’anarchismo e il marxismo. (Wobblies and Zapatistas, pp. 11-12, 98-99).

Alla ricerca di sforzi in questa direzione negli Stati Uniti, abbiamo richiamato l’attenzione sull’idea di Chicago di due degli anarchici di Haymarket, Albert Parsons e August Spies. Parlando alla giuria e a un’aula gremita prima di essere condannato a morte, Parsons distinse due forme di socialismo: il socialismo di stato, che significava il controllo del governo su tutto, e l’anarchismo, una società  egualitaria senza un’autorità  di controllo. (James Green, Death in the Haymarket, p. 238.)

Vent’anni dopo, gli Industrial Workers of the World, o Wobblies, presentarono la loro ricca miscela di idee, pratiche e canzoni, tratte da queste due tradizioni.

Questo saggio presenta gli sforzi di una vita per sintetizzare anarchismo e marxismo da parte di un uomo che scriveva sotto il nome di “Victor Serge”.

Un nuovo libro

Victor Serge nacque a Bruxelles nel 1890. Il suo nome di battesimo era Victor Kibalchich; adottò “Serge” come pseudonimo. I suoi genitori avevano lasciato la Russia zarista dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. Un lontano parente, NJ Kibalchich, un chimico, fece le bombe che uccisero lo zar e fu giustiziato. Così Serge condivise una connessione biologica con l’atto terroristico con Lenin, il cui fratello maggiore fu anche lui giustiziato.

Nel suo libro più noto, Memorie di un rivoluzionario, Serge ricordava: “Sulle pareti dei nostri umili e improvvisati alloggi c’erano sempre i ritratti di uomini che erano stati impiccati”. A parte tutte le differenze politiche, i martiri del movimento Volontà  del Popolo stabilirono uno standard per la condotta altruistica a cui aspirarono i successivi rivoluzionari russi. In una storia del primo anno della rivoluzione russa, Serge avrebbe detto dei populisti e dei socialisti rivoluzionari della generazione precedente che “hanno dato centinaia di eroi e martiri alla causa della rivoluzione”.

Serge scrisse principalmente in francese. Una ventina dei suoi libri, divisi più o meno equamente tra narrativa e saggistica, sono stati tradotti in inglese. Ventisette scatole di documenti, per lo più inediti, sono custodite (improbabilmente) presso la biblioteca di libri rari Beinecke dell’Università  di Yale.

Va tenuto presente che mentre viveva in Unione Sovietica dal 1919 al 1936 Serge scrisse in circostanze difficili. In previsione di interferenze da parte del governo sovietico, inviò gran parte dei suoi scritti agli editori francesi segmento per segmento. Una protesta internazionale lo fece rilasciare dalla reclusione e gli fu permesso di andare in esilio, ma la polizia segreta sovietica confiscò manoscritti che non furono mai recuperati. Inoltre, Serge doveva sempre valutare il contesto personale e politico di una particolare opera. Così, quando arrivò in Messico subito dopo l’assassinio di Trotsky e scrisse una biografia del Vecchio insieme alla vedova di Trotsky, comprensibilmente non incluse il fatto che aveva “rotto” con Trotsky alcuni anni prima.

Anarchists Never Surrender offre una preziosa documentazione degli inizi della carriera di Serge come anarchico. Inizialmente, a quanto pare, si considerava un “socialista”. Prevedibilmente disgustato dalla tiepida attività  parlamentare dei socialdemocratici europei, divenne un anarchico di una varietà  sempre più individualista. A questo primo punto della sua traiettoria, Serge pensava che i lavoratori fossero irrimediabilmente coinvolti in obiettivi materialistici immediati, quindi una rivoluzione che richiedesse partecipazione e sostegno di massa fosse impossibile.

A quanto pare, il giovane Serge tracciò un limite alle rapine in banca e alle sparatorie con la polizia. Tuttavia, i suoi amici intimi furono profondamente coinvolti e alla fine più di uno fu ghigliottinato. Ai loro processi Serge si rifiutò di fare la spia. Ricevette una condanna a cinque anni di reclusione come complice e descrisse in modo memorabile la sua esperienza nel suo primo libro, Men in Prison.

Uscito da dietro le sbarre, Serge scrive a un amico che non difende più “l’intransigenza settaria del passato” ed è pronto a lavorare con tutti coloro che sono “animati dallo stesso desiderio di una vita migliore anche se le loro strade sono diverse dalle mie, e anche se danno nomi diversi non so quale sia in realtà il nostro obiettivo comune.” Nel gennaio 1919 trovò la sua strada verso l’Unione Sovietica ribelle. Lì tentò di dare un sostegno incondizionato a un governo comunista senza mai abbandonare la preoccupazione anarchica di proteggere quella che Rosa Luxemburg chiamava “la persona che la pensa diversamente” (der Andersdenkender).

Il primo grande tesoro di questo libro è un gruppo di messaggi che Serge scrisse agli anarchici francesi nel 1920-1921. Qui cerca di spiegare perché “si é iscritto al Partito comunista russo come anarchico, senza abdicare in alcun modo alle mie idee, se non per ciò che era utopico”. Questi documenti tentano di comunicare le sofferenze quasi indescrivibili a San Pietroburgo (poi Leningrado) durante la guerra civile. Un giovane studente ebreo di Kharkov descrisse concretamente a Serge una mezza dozzina di momenti in cui fu quasi ucciso dagli antisemiti, mentre ovunque si stabilirono i comunisti “i pogrom cessano”.

Serge ammette in questi messaggi che la rivoluzione russa “si è guadagnata molte critiche, ma non so chi si sia guadagnato il diritto di farle”. Vede chiaramente che il “più grande pericolo della dittatura¨ che tende a impiantarsi saldamente, che crea istituzioni permanenti che non vuole né abdicare né morire di morte naturale”. Ma la lotta contro la dittatura, Serge era convinto, doveva aspettare fino a quando la rivoluzione non fosse stata assicurata. Chiede un nuovo anarchismo che “sarà  senza dubbio molto vicino al comunismo marxista”.

Molti anni dopo, ma con lo stesso spirito, Serge chiese al figlio di Trotsky, Leon Sedov, di rivolgere a suo padre un appello ai trotskisti della Quarta Internazionale per esplorare una “alleanza fraterna” con anarchici e sindacalisti spagnoli.

Anarchists Never Surrender termina con un saggio di Serge di 26 pagine sul “Pensiero anarchico”, su cui tornerò in conclusione. È un documento critico se vogliamo capire come Serge vedeva la possibile sintesi di marxismo e anarchismo.

Ricordi

Torniamo alle spiegazioni di Serge stesso, nelle sue Memorie, dell’impatto della rivoluzione russa sull’impressionabile giovane anarchico dell’Europa occidentale.

Serge è stato enormemente impressionato da Lenin. Era caratteristico dell’anarchico in Serge studiare da vicino la condotta, anche le caratteristiche fisiche, degli individui. Ecco cosa aveva da dire su Lenin:

Al Cremlino occupava ancora un piccolo appartamento costruito per un servitore di palazzo. Nell’ultimo inverno lui, come tutti, non aveva avuto il riscaldamento. Quando andò dal barbiere fece il suo turno, ritenendo sconveniente che qualcuno gli cedesse il passo. Una vecchia governante si prendeva cura delle sue stanze e faceva il suo rammendo.

Inoltre, secondo Serge, Lenin continuava a cercare modi per introdurre elementi democratici nella dittatura del proletariato. Nell’aprile 1917, prima della presa del potere statale in novembre, Lenin propose:

1. La fonte del potere non sta nel diritto ma nell’iniziativa diretta delle masse popolari, iniziativa locale presa dal basso.

2. La polizia e l’esercito sono sostituiti dall’armamento del popolo.

3. I funzionari sono sostituiti dal popolo stesso o sono, quantomeno, sotto il suo controllo; sono nominati per elezione e possono essere revocati dai loro elettori.

Lenin sostenne anche una forma sovietica di stampa libera, in base alla quale “qualsiasi gruppo con il sostegno di 10.000 voti potrebbe pubblicare il proprio organo a spese pubbliche”. Serge insisteva: “Io so che… nel maggio 1922, Lenin e Kamenev stavano valutando…di consentire la pubblicazione di un quotidiano non di partito a Mosca”.

Victor Serge era di grande valore per la vulnerabile giovane rivoluzione bolscevica perché conosceva francese, russo, tedesco, spagnolo e inglese. Ma la luna di miele cameratesca o lo stretto rapporto di lavoro tra Serge e il partito bolscevico durò meno di tre anni. In Anarchists Never Surrender sono inclusi anche frammenti riguardanti le differenze fondamentali tra Trotsky e Serge riguardo alla feroce repressione di una rivolta di operai e marinai nel 1921 alla base militare di Kronstadt, vicino a San Pietroburgo. Ricordo che quando ero molto più giovane mi fu detto che Trotsky aveva ordinato ai ribelli di arrendersi o avrebbe guidato l’Armata Rossa attraverso il ghiaccio e “li avrebbe abbattuti come fagiani”.

Per Serge, guardando indietro nel 1938, Kronstadt era solo la punta dell’iceberg. Un precedente “giorno nero” si verificò nel 1918, quando il Comitato Centrale del Partito Bolscevico decise di consentire alla Cheka (la polizia segreta) “di applicare la pena di morte sulla base di una procedura segretasenza ascoltare il defunto che non poteva difendersi” (corsivo nell’originale).

Quindi cosa èè andato storto? Guardando indietro, Serge trovò l’errore nel dogmatismo, in una convinzione marxista della correttezza scientifica in tutto ciò che il Partito intraprese. Serge scrisse nelle sue Memorie: “La teoria bolscevica èà fondata su [una credenza nel] possesso della verità, Il totalitarismo è dentro di noi. Negli anni ’30, secondo uno dei suoi redattori, Serge iniziò a sottolineare la “selezione naturale di temperamenti autocratici” del bolscevismo, un’enfasi aspramente criticata da Trotsky.

All’inizio degli anni ’20, Serge inizialmente cercò di affrontare il suo crescente disagio servendo la rivoluzione all’estero come organizzatore clandestino. In questa veste assistette al fallimento del tentativo di rivoluzione del 1923 in Germania. Quel fallimento segnò il destino della rivoluzione russa: avrebbe dovuto trovare un modo per sopravvivere in un unico paese. Serge tornò in Unione Sovietica per entrare a far parte dell’opposizione trotskista.

Secondo le Memorie di Serge, Trotsky, in quanto comandante della vittoriosa Armata Rossa, avrebbe potuto risolvere il suo conflitto con Stalin prendendo il potere. Ma

Trotsky rifiutò deliberatamente il potere, per rispetto di una legge non scritta che proibiva qualsiasi ricorso all’ammutinamento militare all’interno di un regime socialista. Raramente è stato reso più nettamente evidente che il fine, piuttosto che giustificare i mezzi, comanda i propri mezzi, e che per l’instaurazione di una democrazia socialista i vecchi mezzi della violenza armata sono inappropriati.

Eppure, alla fine, Serge ruppe con Trotsky. Lui fornì tre ragioni. In primo luogo, pensava che l’idea di istituire una Quarta Internazionale a metà  degli anni ’30 fosse “abbastanza insensata”. In secondo luogo, era profondamente in disaccordo con l’approvazione di Trotsky della soppressione della ribellione di Kronstadt. E in terzo luogo, condannò anche il rifiuto di Trotsky di ammettere che l’istituzione della Cheka fu “un grave errore…incompatibile con qualsiasi filosofia socialista”. Serge riteneva che Trotsky esibisse “la schematizzazione sistematica del bolscevismo dei vecchi tempi”.

Serge credeva che la sua critica a Trotsky fosse condivisa da Lenin. Secondo Serge, Lenin scrisse al Comitato Centrale del Partito Bolscevico il 25 dicembre 1922, in un documento a volte indicato come “L’ultima volontà” di Lenin, che Trotsky era “attratto dalle soluzioni amministrative”. Quello che intendeva indubbiamente era che Trotsky tendeva a risolvere i problemi con indicazioni dall’alto.

Per Serge, tutto si riduceva a quanto segue, scritto alla fine del 1932: “Voglio dire: l’uomo chiunque esso sia, fosse pure l’ultimo degli uomini. ‘Nemico di classe’, figlio o nipote di borghesi, me ne infischio, non bisogna mai dimenticare che un essere umano è un essere umano.”

Una teoria e uno stile di vita

Indagando ulteriormente, si conclude che il conflitto tra marxismo e anarchismo non è essenzialmente un conflitto tra due teorie, due schemi per comprendere i dilemmi presenti e per predire il futuro.

Senza dubbio il marxismo è un tale schema. Nonostante la tendenza ad aspettarsi che gli eventi si verifichino prima di quanto effettivamente si verifichino, il marxismo offre un’analisi solida delle tendenze di lungo periodo nelle economie capitaliste. La fuga degli investimenti nel settore manifatturiero dagli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80 verso società  in cui i salari sono molto più bassi è l’ultima dimostrazione dell’essenziale accuratezza di questo motore di analisi.

L’anarchismo, tuttavia, non è una tale teoria, e gli anarchici travisano ciò che possono e dovrebbero contribuire presentando Bakunin e Kropotkin come rivali teorici di Marx.

L’anarchismo è un’affermazione di valori, di uno stile di vita. Serge, nelle sue memorie, scrive dei “primi sintomi di quella malattia morale che…doveva portare alla morte del bolscevismo”. Serge attacca ripetutamente la convinzione che il fine giustifichi i mezzi. In un libro intitolato Da Lenin a Stalin sostiene che

i criteri morali hanno talvolta maggior valore dei giudizi basati su considerazioni politiche ed economiche. Non è vero, cento volte falso che il fine giustifica i mezzi. Ogni fine richiede i propri mezzi e un fine si ottiene solo con i mezzi appropriati.

Quindi «una sorta di intervento morale diventa nostro dovere». Serge è al suo meglio quando descrive la dimensione morale delle decisioni.

Alla fine degli anni ’20, dopo che Trotsky fu mandato in esilio e Serge fu espulso dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Serge (nelle parole di uno dei suoi redattori) decise di passare dall’agitazione a forme più permanenti di testimonianza politica e artistica.

Uno dei primi prodotti era una storia della rivoluzione russa nell’anno 1918. Serge non era ancora in Russia durante quell’anno e il libro ha una curiosa piattezza, una bidimensionalità quasi accademica. (Scrisse anche una storia del secondo anno della rivoluzione, quando Serge era presente e profondamente coinvolto. Ma questo fu uno dei manoscritti confiscati dalla polizia segreta ed è scomparso). In un’opera successiva intitolata Vent’anni dopo, Serge abbozzò i destini di un elenco infinito di persone che conosceva e cosa è successo loro. Cercò di giustificare il suo approccio come segue:

Sì, questa lotta dei rivoluzionari contro la macchina che macina tutto ha qualcosa di deprimente a pensarci bene… in astratto, senza vedere … i volti, senza conoscere bene la loro vita, senza la terra russa, i muri, le finestre. Vorrei cancellare questa impressione. Ognuno di questi uomini ha la sua vera grandezza. Non sono vinti, sono resistenti e spesso hanno anime vittoriose.

Il corpus del lavoro di Serge non è esente da contraddizioni. Nel libro tratto dalla sua esperienza in carcere, Serge condannava la pena di morte e la condanna all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale, ma giustificò la pena di morte quando “ne abbiamo bisogno”.

A differenza di molti riformatori carcerari negli Stati Uniti oggi, vide che anche le guardie sono imprigionate, in Francia a quel tempo dall’età  di venticinque anni fino alla pensione a sessant’anni, e come gruppo non sono “né migliori né peggiori degli uomini che custodiscono”. Al momento del rilascio dopo aver scontato la sua condanna a cinque anni, Serge scrisse: “Volevamo essere rivoluzionari; eravamo solo ribelli. Dobbiamo diventare termiti, annoiarci ostinatamente, pazientemente, per tutta la vita. Alla fine, la diga crollerà”.

Inoltre, non è chiaro dove Serge sia arrivato a un’economia desiderabile. Nell’ultimo libro che ha scritto, il romanzo Unforgiving Years, D, un simpatico protagonista, dice: “L’economia pianificata, centralizzata, amministrata razionalmente è ancora superiore a qualsiasi altro modello. Grazie a ciò siamo sopravvissuti in circostanze che avrebbero reso breve il lavoro di qualsiasi altro regime”.

Tuttavia, un decennio prima Serge aveva scritto nelle sue Memorie che nella Nuova politica economica dell’Unione Sovietica all’inizio e alla metà  degli anni ’20,

la manifattura su piccola scala, il commercio su media scala e alcune industrie avrebbero potuto essere rianimate semplicemente facendo appello all’iniziativa dei produttori e dei consumatori. Liberando le cooperative strangolate dallo Stato, e invitando varie associazioni ad assumere la gestione di diversi rami dell’attività  economica, si sarebbe potuto realizzare fin da subito un enorme grado di ripresa.

…In una parola, io sostenevo un “Comunismo delle associazioni” in contrasto con il Comunismo della varietà  di Stato. La competizione insita in un tale sistema e il disordine inevitabile in ogni inizio avrebbero causato meno inconvenienti della nostra centralizzazione rigidamente burocratica, con il suo disordine e la sua paralisi. Ho pensato al piano complessivo non come qualcosa di dettato dallo Stato dall’alto, ma piuttosto come risultato dell’armonizzazione, attraverso congressi e assemblee socializzate, di iniziative dal basso.

I romanzi finali

Si forma la forte impressione che Serge possa dire ciò che sente più pienamente nella finzione. E così il lettore si rivolge a Il caso del compagno Tulaev, scritto a Marsiglia, nella Repubblica Dominicana e in Messico nel 1940-1942, e Unforgiving Years. L’iscrizione alla fine di quest’ultimo è “Messico, 1947”, il luogo e l’anno della morte di Serge.

Il romanzo sul “compagno Tulayev” è stato ispirato dall’assassinio di un leader bolscevico, di nome Kirov, nel 1934. Alla fine del libro tre uomini vengono giustiziati per l’assassinio del compagno Tulayev. Tutti sono del tutto innocenti. Due sono presumibilmente tipici burocrati sovietici in ascesa, venali ma non omicidi. Il terzo deve essere una delle figure più attraenti della narrativa di Victor Serge. È Kiril Rublev, uno storico che, insieme all’altrettanto coraggiosa moglie Dora, spera di essere “presente nel momento in cui la storia ha bisogno di noi”.

C’è un’implacabile integrità  in questo libro, un po’ come quella del professor Rublev. I lavoratori non ottengono un pass gratuito. Quattromila lavoratrici in una fabbrica chiedono la pena di morte per coloro che hanno ucciso il compagno Tulayev.

Due cose del libro spiccano per me. Ho incontrato per la prima volta Serge e questo romanzo settant’anni fa. L’unica cosa che ho ricordato nel tempo è stato il riflesso di un personaggio di nome Stefan Stern, assassinato da agenti sovietici in Spagna. Prima di scomparire verso la morte, Stern riflette:

Dopo di noi, se scompariremo senza aver avuto il tempo di portare a termine il nostro compito o semplicemente di testimoniare, la coscienza della classe operaia sarà  oscurata per un periodo di tempo che nessuno può calcolare… L’uomo finisce per concentrare in sé una certa chiarezza unica, una certa esperienza insostituibile.

Non ancora ventenne, ho letto questo brano con distacco. Adesso mi sembra molto più vicino.

Ancora più straordinario è il ritratto del romanzo di Stalin, noto nelle sue pagine come “il capo”. Un vecchio bolscevico dice a un altro: “Il capo è in un vicolo cieco da molto tempo… Forse vede più lontano e meglio di tutti noi… Credo che abbia indubbi limiti, ma non abbiamo nessun altro”. Sorprendentemente, un vecchio compagno di nome Kondratieff dice la stessa cosa direttamente al capo. Fissa un appuntamento con il capo per implorare la vita di Stern. Mentre i due uomini camminano per l’enorme ufficio del Capo al Cremlino, Kondratieff dice: “La storia ci ha giocato questo brutto scherzo, abbiamo solo te”. E sorprendentemente, il capo non invia Kondratieff nella cantina dove l’NKVD (successore della Cheka) sta giustiziando una generazione di leader bolscevichi. Kondratieff viene inviato a gestire l’estrazione dell’oro nell’estrema Siberia.

E dove, allora, si trova la speranza, per l’autore la cui clessidra è quasi senza sabbia? Il caso del compagno Tulayev si conclude con atti sconnessi di generosità  individuale.

Xenia, figlia di un aparatchik, riesce ad andare a Parigi dove si crogiola nell’abbondanza borghese. In qualche modo, in un giornale che le capita, vede accanto all’annuncio di un evento sportivo una nota secondo cui tre uomini devono essere giustiziati per l’omicidio di Tulayev, incluso il professor Rublev, un tempo amico di famiglia. Sconvolta, va a trovare un noto compagno di viaggio francese. Telefona in Russia. Viene convinta a salire su un’auto, poi su un aereo, e l’ultima volta la vediamo in arresto, minacciosamente diretta verso una destinazione sconosciuta.

Nella steppa una fattoria collettiva chiamata “Strada verso il futuro” è nella paralisi.

Ci sono già  state due purghe. La carestia è alle porte. Non ci sono semi, né cavalli, né benzina. Mandano messaggi al centro regionale ma non arrivano aiuti. Kostia, un giovane comunista, e un agronomo di nome Kostiukin, hanno un’idea. L’intero villaggio camminerà  fino al centro regionale a 34 miglia di distanza e cercherà  aiuto attraverso questa azione diretta. Funziona! E lungo la strada Kostia tiene Maria tra le braccia e scopre che è una “credente”. In cosa? Non riesce a esprimerlo a parole.

Prima della sua esecuzione, il professor Rublev ha chiesto l’opportunità di prendersi qualche giorno per scrivere un memorandum. Lo fa e svanisce nei documenti legati alla sua morte. Miracolosamente, questi documenti finiscono nelle mani di uno dei massimi burocrati della polizia segreta, di nome Fleischman.

In primo luogo, Fleischman legge una lettera di un giovane che non firma il suo nome. La lettera afferma in modo convincente che l’autore, agendo da solo, ha ucciso Tulayev. Fleischman brucia la lettera.

Poi legge il memorandum di Rublev. Include le parole: “testimoniamo una vittoria che ha invaso troppo il futuro e ha chiesto troppo agli uomini”. Fleischman termina il memorandum con apprezzamento.

Poi esce dal suo ufficio per assistere all’evento sportivo citato sul giornale accanto all’avviso dell’esecuzione di Rublev e degli altri. Questa è la fine del libro.

Cinque anni dopo che Serge aveva terminati Tulayev, terminò Unforgiving Years. In netto contrasto con l’editore che traduce e introduce l’opera, credo che il finale di questo romanzo sia melodrammatico, goffo e del tutto indegno del suo autore. (Esempio: D, il simpatico personaggio citato prima, finisce come proprietario di una “piantagione” messicana in cui, dice, “io lavoro i miei scagnozzi”.) Ma in una prima sezione, prima che il romanzo e Serge stesso sembrino lentamente andare a pezzi, Victor Serge offre alcuni incisivi richiami alla sintesi di anarchismo e marxismo a cui ha dedicato la sua vita.

All’inizio del libro, D riflette: “Quando tutto è stato detto e fatto, l’abbiamo fatto a noi stessi”. Più a lungo riflette:

Non mi resta altro da invocare se non la coscienza, e non so nemmeno cosa sia. Sento una protesta inefficace sollevarsi da una parte profonda e sconosciuta di me per sfidare l’opportunità  distruttiva, il potere, l’intera realtà  materiale, e in nome di cosa? Illuminazione interiore? Mi sto comportando quasi come un credente. Non posso fare altrimenti: parole di Lutero. Tranne che il visionario tedesco… ha continuato aggiungendo: “Dio mi aiuti!” Cosa verrà  in mio aiuto? (Enfasi aggiunta.)

Pensa anche a se stesso:

Non possiamo più fidarci di nessuno. Nessuno si fiderà di noi, mai più. Quel legame terribile, il più salutare dei legami umani, quegli invisibili fili d’oro, di luce e di sangue che uniscono uomini votati a un’impresa comune… quei legami, li abbiamo spezzati.

D e la sua collega Daria cercano di imprimere la loro angoscia nell’analisi economica.

Daria tiene una conferenza sul tema “La produzione porterà giustizia”. Ma è assillata dal dubbio, pensando:

Non si dovrebbe, occupandosi di tutti quei fortini e altiforni, avere un pensiero per l’uomo? Un pensiero per il povero diavolo di oggi… chi non può accontentarsi di affaticarsi sotto il giogo in attesa delle medicine e delle ferrovie di domani? Il fine giustifica i mezzi. Che truffa. Nessun fine può essere raggiunto se non con mezzi appropriati.

Daria dice: “I giorni dell’accumulazione primitiva sono alle nostre spalle”. D risponde:

“Non nel nostro paese. E i giorni della distruzione ci attendono”.

Alla fine Daria sembra aver accettato la prospettiva di D, dicendo:

“Sacha, sto per fare una domanda che potrebbe sembrare irrazionale o infantile, ma ascoltala comunque. Non abbiamo dimenticato l’uomo e l’anima?” D risponde:

Il nostro errore imperdonabile è stato quello di credere che quella che chiamano anima – preferisco chiamarla coscienza – non fosse altro che una proiezione del vecchio egoismo superato.

C’è comunque un piccolo barlume ostinato, una luce incorruttibile che può, a volte, trasparire attraverso il granito di cui sono fatte le mura e le lapidi del carcere, una piccola luce impersonale che divampa dentro per illuminare, giudicare, smentire o condannare in toto. Non è proprietà di nessuno e nessuna macchina può misurarla; spesso vacilla incerta perché si sente sola.

… Abbiamo commesso il nostro errore mortale…quando abbiamo dimenticato che solo questa forma di coscienza può realizzare la riconciliazione dell’uomo con se stesso e con gli altri… Ho approfondito la letteratura pertinente…. [La rivoluzione] avrebbe dovuto significare la liberazione di ciò che c’è di meglio nell’uomo, ma questo è andato in frantumi insieme a tutto il resto, temo. E siamo diventati prigionieri di una nuova prigione… Sto uscendo.

Conclusione

“Pensiero anarchico”, in Anarchists Never Surrender , pp. 202-228, è la conclusione di Serge su come l’anarchismo e il marxismo potrebbero essere sintetizzati. È stato scritto alla fine degli anni ’30, quando aveva lasciato l’Unione Sovietica ma era rimasto pienamente al culmine delle sue capacità.

Serge accetta l’analisi economica marxista. Dice dell’anarchismo che era “l’ideologia dei piccoli artigiani” e che quando lo sviluppo industriale divenne più marcato nell’Europa meridionale “l’anarchismo cedette la sua preminenza nel movimento rivoluzionario al socialismo operaio marxista”.

D’altra parte, il movimento operaio della fine del XIX secolo e degli anni precedenti la prima guerra mondiale era

bloccato nel fango in una società capitalista in un periodo di espansione. Vaste organizzazioni sindacali e potenti partiti di massa, di cui la socialdemocrazia tedesca è il miglior esempio, entrarono in realtà a far parte di un regime che pretendevano di combattere. Il socialismo diventò borghese, anche nelle sue idee, che hanno deliberatamente soppresso le previsioni rivoluzionarie di Marx. Le aristocrazie operaie e le burocrazie politiche e sindacali danno il tono a rivendicazioni operaie che vengono attenuate o ridotte a un rivoluzionarismo puramente verbale… Questo socialismo ha perso la sua anima rivoluzionaria.. .

“La teoria dell’anarchismo comunista”, continuava Victor Serge, “procede meno dalla conoscenza, dallo spirito scientifico, che da un’aspirazione idealistica”. Ma per quanto riguarda “come questo deve essere realizzato, non c’è una parola di spiegazione”. Così all’inizio della rivoluzione russa “gli eventi hanno posto inesorabilmente l’unica questione capitale, quella per la quale gli anarchici non hanno risposta: quella del potere”. Serge dimostra ampiamente che quando la possibilità di un’insurrezione si presentò nell’autunno del 1917, “[uno] cercherebbe invano nell’abbondante letteratura anarchica del periodo un’unica proposta pratica”.

C’è una lunga discussione sul rivoluzionario ucraino Nestor Makhno (un argomento di cui so poco) in cui Serge sembra preoccuparsi di presentare entrambi i lati di una complessa controversia e di attribuire a ciascuno una parte di verità. Chi era responsabile dello strangolamento di questo “movimento contadino profondamente rivoluzionario?” chiede Serge. Risponde che non era questa o quella persona, non l’uno o l’altro gruppo; era “lo spirito di intolleranza che attanagliò sempre più il partito bolscevico dal 1919;… la dittatura dei dirigenti del partito, che già  tende a sostituirsi a quella dei soviet e anche del partito». Chiunque fosse il responsabile, continua Serge, è stato “un errore enorme”. Tra anarchici e bolscevichi si scavò una voragine che non sarebbe stato facile colmare. “La sintesi di marxismo e socialismo libertario, così necessaria e che poteva essere così fertile, fu resa impossibile per un futuro indefinito”.

Victor Serge concludeva la sua valutazione straordinariamente imparziale citando il famoso ultimo messaggio di Vanzetti, e continuando:

Questa forza morale… non è diminuita dalla debolezza intrinseca dell’ideologia anarchica. Essa offre poco spazio alla critica dottrinale. È semplicemente così. Se, dopo aver imparato da tutto ciò che stiamo vivendo, il socialismo libertario che essa anima fosse abbastanza forte da assimilare le conquiste del socialismo scientifico, questa sintesi garantirebbe ai rivoluzionari un’efficacia incomparabile.