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Michael Lowi è un filosofo e sociologo francobrasiliano trotzkista che leggo sempre con interesse. Consiglio su questo blog la sua recensione del bellissimo libro sulla melanconia di sinistra di Traverso. Questo intervento che ho tradotto mi sembra che riassuma bene un approccio rossoverde che almeno dal 1980 ritengo imprescindibile. Lowi da qualche anno propone di usare l’espressione “ecosocialismo”. In realtà già prima si parlava di ecomarxismo, ecc. Al di là delle etichette mi sembra una buona sintesi. Aggiungo qualche breve annotazione rispetto a quelli che indica come precursori. Innanzitutto mi sembra che nel citare avere-essere sia da scostumati non rendere omaggio a Erich Fromm che scrisse un bellissimo libro con questo titolo negli anni ’70. Per quanto riguarda un ecologismo marxista comprendo che Lowi non conosca autori comunisti italiani come Giorgio Nebbia, Laura Conti, Dario Paccino, Virginio Bettini e tanti altri che furono all’avanguardia (basti pensare al convegno del Pci del 1971) nel proporre un approccio ecosocialista. Lo scrivo perché nel nostro paese va si è un po’ troppo esterofili e mi è capitato di parlare con compagni che mi hanno venduto come nuove cose di cui leggevo e discutevo nei primi anni ’80. Probabilmente l’ecologia italiana non è tradotta in inglese ma sicuramente era in relazione con Berry Commoner che in Italia era di casa. Non a caso poi in anni più recenti è uscita l’edizione italiana della rivista Capitalismo, Natura, Socialismo. Sul versante dei movimenti ricordo che nel 1967 al congresso Dialettiche della Liberazione che si tenne a Londra nel 1967 Gregory Bateson e Allen Ginsberg parlarono di riscaldamento globale e ecologia. Per non citare Gary Snyder. La beat generation arrivò prima dei neomarxisti del ’68 all’ecologismo. Sui Verdi tedeschi e europei Lowi dice cose purtoppo tristemente vere. Ed è un peccato che il partito fondato da Rudi Dutschke e Joseph Beyus abbia perso la sua carica alternativa. La rifondazione comunista e il socialismo del XXI secolo non possono che essere rossoverdi. E questa non è per noi una novità. Buona lettura.
La civiltà capitalista contemporanea è in crisi. L’accumulazione illimitata di capitale, la mercificazione di ogni cosa, lo sfruttamento spietato del lavoro e della natura e la conseguente concorrenza brutale minano le basi di un futuro sostenibile, mettendo così a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. La profonda minaccia sistemica che affrontiamo richiede un cambiamento profondo e sistemico: una grande transizione.
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Città del Messico, 6 luglio 1946. Victor Serge aveva un anno da vivere. Aveva trascorso la mattinata, come accadeva a volte, con la vedova di Trotsky, Natalia Sedova. Avevano scritto insieme un libro di memorie di Trotsky; in esso Natalia ricorda il marito che camminava avanti e indietro nel suo studio a Coyoacán, impegnato in un’accesa conversazione immaginaria con vecchi bolscevichi morti, discutendo di Stalin e di come e perché erano stati sconfitti da lui. Serge notava che Sedova non stava bene:
Ciò che la consuma in realtà è un lutto immenso, infinitamente più grande di quello per Lev Davidovich, che non fa altro che sfinirla, il lutto per un’epoca e una folla innumerevole. E dato che sono senza dubbio l’unico che lo condivida veramente con lei, i nostri colloqui sono preziosi per noi e tuttavia evito di accennare agli innumerevoli morti. E comunque essi appaiono, la tomba di una generazione è sempre qui. Questa volta … abbiamo ricordato Osip Emilievich Mandelstam, morto in prigione.
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Non suoni come provocazione il titolo di questo post. Il più autorevole esponente del riformismo socialista italiano si considerava comunista. Fino alla rivoluzione d’Ottobre tutti i comunisti marxisti si definivano socialisti o socialdemocratici. Di solito erano gli anarchici più spesso a definirsi comunisti. Insomma tutti i socialisti erano comunisti e viceversa. Persino il padre del riformismo socialdemocratico. il tedesco Eduard Bernstein, era un comunista. Il comunismo era il fine ultimo dei socialisti. Solo con la rivoluzione d’Ottobre si creò la distinzione socialisti/comunisti novecentesca. Lenin cambiò nome al suo partito – che quando prese il Palazzo d’Inverno si chiamava ancora socialdemocratico – e ritornò all’aggettivo del Manifesto di Marx e Engels. Da quel momento ci si abituò a chiamare comunisti i seguaci di Lenin e socialisti quelli che non aderivano alla Terza Internazionale. E proprio sulla base di questa lunga storia Turati rivendicò il suo socialismo/comunismo proprio in quel congresso di Livorno in cui la frazione comunista uscì dal teatro Goldoni cantando L’Internazionale per andare a fondare il Partito Comunista d’Italia. In quell’intervento che è bene rileggere e che vi ripropongo Turati volle chiarire e circoscrivere la divergenza pur asprissima in quei giorni. Turati era stato avversario del massimalismo e lo fu ancor di più dei comunisti della Terza Internazionale ma non smise mai di battersi per il socialismo. E nel suo intervento andava anche oltre e ricordava la condivisione del fine ultimo non solo con i comunisti seguaci di Lenin ma anche con gli anarchici: “Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti!”. Quelli che convertitisi al neoliberismo si spacciano per “riformisti” e si fan scudo di Turati sono degli imbroglioni perché Turati fu tutta la vita dalla parte della classe lavoratrice e per il superamento del capitalismo. Il vecchio Turati rivendicava la continuità e la coerenza del suo percorso di militante del movimento operaio e socialista che da giovane corrispondeva con Engels e fondava il giornale “Lotta di classe”. Anche dopo il 1921 quando si consumò la rottura e il vecchio Turati fondò con Treves e Matteotti il Partito Socialista Unitario non perse la fedeltà alla lotta di classe. E non mancarono di riconoscere i suoi meriti nel dopoguerra anche i comunisti del PCI. Nel 1957 in occasione del centenario L’Unità gli dedicò un articolo in cui si relativizzarono le severe critiche di Gramsci degli anni ’20 e le ingiuste accuse nei suoi confronti del Togliatti del periodo del “socialfascismo” staliniano dei primi anni ’30 erano già state accantonate non appena cominciò la stagione dei fronti popolari. Nel 1982 Terracini che era stato uno dei protagonisti della scissione di Livorno definì il discorso di Turati «un’anticipazione certamente intelligente e, direi, quasi miracolosa, profetica di una realtà che in tempi successivi venne poi maturando».
Dagli anni ’80 va avanti invece un equivoco (o un imbroglio?) cominciato con la trasformazione dei partiti socialdemocratici europei in partiti non più anticapitalisti, non più di classe e progressivamente convertiti dopo il 1989 al neoliberismo. Nel corso degli anni ’80 tutti i partiti di massa del movimento operaio europeo furono sconfitti, dal Labour al PCI di Berlinguer. Olof Palme fu assassinato. Ma contò ancor di più il dato strutturale della trasformazione del capitalismo, con il postfordismo e la globalizzazione, che ha ridotto notevolmente il peso della classe operaia della grande fabbrica nei paesi occidentali e ha riconquistato anche l’egemonia ideologica nella cultura di massa. Da allora – la stagione cominciò in Italia con Craxi e poi fu ripresa dagli ex-comunisti – hanno cominciato a definirsi “riformisti” i sostenitori delle “riforme” neoliberiste. Un’operazione orwelliana che, con grande precisione di storico, ha smontato Paolo Favilli in un libro di qualche anno fa “Il riformismo e il suo rovescio”(Franco Angeli editore) che prendeva spunto dalla nascita del Pd di Veltroni. Il riformismo di oggi non ha alcun elemento di continuità con il riformismo storico della tradizione socialista. Ne è invece l’esatto rovescio. Non ci troviamo di fronte alla trasformazione o all’evoluzione di un’identità – processo di per sé naturale ed inevitabile, perché le identità sono sempre dinamiche e soggette a sviluppo – ma all’acquisizione in blocco dell’identità altrui, come ha scritto lo storico Gianpasquale Santomassimo. Con la rivendicazione del “riformismo” da parte di Renzi e del criminale di guerra Tony Blair si è raggiunta l’apoteosi. Neanche i morti saranno al sicuro se vince il nemico, scriveva Benjamin e aveva proprio ragione. C’è un’intera storia del movimento operaio e socialista che va recuperata, studiata, difesa.
Rileggiamo l’intervento di Filippo Turati a Livorno:
Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. A Bologna, un anno fa, in un discorso molto contrastato, che forse ebbe tuttavia qualche conferma dai fatti, io vi pregavo di accogliere le mie parole come un testamento. Io non debbo, senza volere avere la sciocca presunzione, e ridicola, di aggiungere lugubre solennità alle mie parole, poche parole, non debbo e non posso farvi altra dichiarazione oggi. Più che mai, anzi, debbo ringraziare il Partito ed il Congresso che mi ha lasciato in vita, che mi lascia tuttora in vita. È stato un po’ il mio destino d’essere sempre un imputato, davanti a questo o quel tribunale, e quando è un tribunale rivoluzionario, che non vi schianta completamente, che non vi lascia qualche respiro, è un tribunale molto mite, a cui bisogna essere grati. Continue reading IL COMUNISTA FILIPPO TURATI
Su twitter la fondazione Feltrinelli ci informa che ricorre il 21 novembre il centenario della nascita di Luciano Barca. Così ne tratteggia sinteticamente il profilo: “Partigiano, parlamentare, direttore di Unità e Rinascita, braccio destro di Enrico Berlinguer, Luciano Barca ha contribuito a fare la storia del Partito Comunista in Italia nel secondo Novecento”. Sul sito della fondazione si trova una biografia meno sintetica di quella su twitter e soprattutto l’archivio di documenti lasciati dal vecchio dirigente comunista. Io vorrei ricordare Luciano Barca anche come uno dei dirigenti storici che nel 1989-1991 si schierarono per il NO alla “svolta della Bolognina” che portò allo scioglimento del Partito Comunista Italiano e come uno dei promotori della mozione della “Rifondazione Comunista” (dovrei avere da qualche parte le fotocopie della sua relazione al convegno di Arco). Successivamente come Ingrao, Tortorella e altri decise di rimanere nel PDS e continuare lì la battaglia per poi uscirne nel 1998 ai tempi dei governi di centrosinistra e della guerra nella ex-Jugoslavia. Ripropongo un suo articolo dall’Unità del 22 dicembre 1990 in cui esprimeva alcune delle ragioni del dissenso nei confronti delle posizioni di Occhetto e Napolitano. Mi sembra interessante perchè si intravede molto bene che il cambio di nome fin dall’inizio sottintendeva una mutazione genetica che abbiamo visto svilupparsi rapidamente negli anni ’90 fino alla nascita del PD.
La destra, il riformismo e una doppia contraddizione
A questa nuova fase dei rapporti tra Pci e Internazionale socialista noi vogliamo portare tutta la peculiarità della nostra storia, non già per dare lezioni né per riceverne, ma per far fruttare, nel confronto dialettico con altre esperienze, un patrimonio che non può essere ignorato. Si tratta di un brano della mozione «Rifondazione comunista»?
Continue reading Luciano Barca contro una sinistra non “antagonista” (1990)
Che vuol dire essere a sinistra? Siccome io affermo che tu sei stato sempre a destra ed io a sinistra, devo precisare.
Innanzitutto essere a sinistra presuppone (…) una formazione psicologica.
(…) Psicologicamente, io sono stato sempre a sinistra, certo per atavismo. Gente di montagna i miei avi non pagarono mai i diritti feudali; e non già in grazia a uno speciale privilegio, ma perché sopprimevano gli esattori baronali, regolarmente nei passaggi obbligati. Ne è derivato che, in me, la rivolta a dare quanto non è dovuto è istintiva.
Il primo impulso è quello, e poi la ragione lo conferma.
(…) il senso di giustizia è quindi moltiplicato per due.
Questo senso di giustizia (…) mi ha portato al socialismo. E il fastidio che (…) mi da l’autorità (…) esplode poi in umorismo, cioè il sentimento innato di rivolta, reso incruento e addolcito dall’educazione e dalla cultura.
Ecco psicologicamente, la destra e la sinistra. E mi permetterai che ti dica che tu (…) sei sempre stato a destra. (…)l’autorità ti ha sempre sedotto.Â
Per uno di sinistra il potere è solo un posto di responsabilità e di lotta, psicologicamente identico al posto che differenti momenti politici impongono si occupi in carcere, al confino, in esilio o fra i partigiani.
La sinistra, tu mi dici, deve consistere nel creare un governo amico dei lavoratori, capace, onesto, coraggiosamente riformatore. No, mio caro questo è essere a destra. Essere a sinistra consiste nel basare la lotta politica e ogni conquista della classe operaia e dei lavoratori nella lotta autonoma , sindacale, sociale e politica; essere presenti sempre nella lotta.
(…)All’atto della Liberazione a sinistra erano quelli che, stando nella lotta, intendevano legarla alla realtà , ed evitare il precipizio erano a destra quelli che pensavano che ormai non rimaneva altra da fare, tutto essendo già stato fatto.
Ed erano a destra quelli che ottenuta la Costituzione si rimettevano ai loro governi. La lotta per la democrazia non conosce riposo.
Essere a sinistra consiste nel creare non un governo amico dei lavoratori ma un governo dei lavoratori.
Ed è nella sinistra accettare il metodo democratico, erigerlo, imporlo agli altri, respingere con la violenza la eventuale violenza di chi, abbandonato il metodo democratico, ricorresse alla violenza, assente o complice lo Stato.
E basta davvero
Mondo Operaio, 28 giugno 1957
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