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Richard D. Wolff: Usa, Il falso dibattito su un salario minimo

Negli USA la rivendicazione dell’aumento del salario legale orario portata avanti da Bernie Sanders e dalle campagne sindacali dovrebbe essere approvata in base al programma concordato da Joe Biden. Ma ora è scatenata una campagna trasversale contro la misura. L’economista Wolff smonta gli argomenti dei neoliberisti e offre considerazioni utili anche a noi italiani che dobbiamo ancora conquistare una norma in vigore negli USA dai tempi del New Deal.

I difensori “conservatori” del capitalismo ancora una volta si oppongono all’aumento del salario minimo. Si sono battuti per non aumentarlo in passato tanto quanto cercarono di impedire il Fair Labor Standards Act (1938) che per la prima volta impose un salario minimo negli Stati Uniti. Il principale argomento utilizzato dagli oppositori è questo: introdurre o aumentare un salario minimo legale minaccia i piccoli datori di lavoro. Potrebbero crollare o licenziare i dipendenti; in ogni caso, si perdono i posti di lavoro. Quello che si presume conveniente è  che vi sia una contraddizione necessaria tra salari minimi e lavori nelle piccole imprese. Questa ipotesi consente agli oppositori di affermare che non fissare un salario minimo legale, come non aumentarlo, salva posti di lavoro. Il sistema quindi presenta ai lavoratori molto mal pagati questa scelta: salari bassi o nessun salario. Continue reading Richard D. Wolff: Usa, Il falso dibattito su un salario minimo

Ursula Huws: Demercificazione nel ventunesimo secolo

La de-mercificazione è stata una caratteristica distintiva degli stati sociali che furono istituiti a metà del XX secolo per contrastare gli effetti distruttivi del capitalismo. Ma, dalla crisi della metà degli anni ’70, il neoliberismo ha messo in moto un processo di rimercificazione, riportando le utilities, i servizi pubblici e molti altri aspetti della vita ancora una volta sotto il diretto dominio capitalista. Ora che la pandemia ha consentito a tutti di vedere la falsità del mantra “non c’è alternativa al mercato”, è giunto il momento per una nuova ondata di demercificazione per il ventunesimo secolo?

Come ha osservato Marx, una caratteristica inesorabile del capitalismo è che deve continuare a crescere. Poiché il tasso di rendimento del capitale esistente diminuisce, deve impegnarsi in una corsa disperata e senza fiato per trovare nuove attività da cui trarre valore. La sua crescita è quindi alimentata da un costante saccheggio di risorse dal pianeta e la vita che esso sostiene che attualmente esula dal suo scopo. Dagli ingredienti genetici della flora della foresta pluviale alle forme di vita sconosciute nelle profondità dell’oceano, dalla performance musicale alla socialità stessa, se può essere appropriato per produrre una nuova merce, allora, usando la magia dell’ingegno umano e della forza lavoro, quella merce sarà prodotta e riprodotta. La mercificazione è quindi la forza trainante del capitalismo.

Ma, come ha anche notato Marx, questi processi mettono in moto nuove contraddizioni, innescando conflitti e crisi che richiedono l’intervento dello stato – se non per riportare l’equilibrio a quello che è, dopotutto, un sistema intrinsecamente instabile, almeno per consentire al capitalismo di sopravvivere. Negli anni tali interventi hanno assunto varie forme. Gli stati, ad esempio, hanno fatto rispettare le recinzioni dei beni comuni e dei diritti per estrarre il suolo, deviare e arginare i fiumi. Hanno fornito le infrastrutture di trasporto che consentono la circolazione delle merci e le infrastrutture legali per l’esecuzione dei contratti. Hanno cercato di rompere i monopoli quando questi sembrano minacciare la concorrenza. E hanno creato sistemi educativi per fornire alla loro popolazione le competenze di cui i capitalisti hanno bisogno. Continue reading Ursula Huws: Demercificazione nel ventunesimo secolo

Michael Lowy: Perchè l’ecosocialismo, una sintesi vitale per un futuro rossoverde

Michael Lowi è un filosofo e sociologo francobrasiliano trotzkista che leggo sempre con interesse. Consiglio su questo blog la sua recensione del bellissimo libro sulla melanconia di sinistra di Traverso. Questo intervento che ho tradotto mi  sembra che riassuma bene un approccio rossoverde che almeno dal 1980 ritengo imprescindibile. Lowi da qualche anno propone di usare l’espressione “ecosocialismo”. In realtà già prima si parlava di ecomarxismo, ecc. Al di là  delle etichette mi sembra una buona sintesi. Aggiungo qualche breve annotazione rispetto a quelli che indica come precursori. Innanzitutto mi sembra che nel citare avere-essere sia da scostumati non rendere omaggio a Erich Fromm che scrisse un bellissimo libro con questo titolo negli anni ’70. Per quanto riguarda un ecologismo marxista comprendo che Lowi non conosca autori comunisti italiani come Giorgio Nebbia, Laura Conti, Dario Paccino, Virginio Bettini e tanti altri che furono all’avanguardia (basti pensare al convegno del Pci del 1971) nel proporre un approccio ecosocialista. Lo scrivo perché nel nostro paese va si è un po’ troppo esterofili e mi è capitato di parlare con compagni che mi hanno venduto come nuove cose di cui leggevo e discutevo nei primi anni ’80. Probabilmente l’ecologia italiana non è tradotta in inglese ma sicuramente era in relazione con Berry Commoner che in Italia era di casa. Non a caso poi in anni più recenti è uscita l’edizione italiana della rivista Capitalismo, Natura, Socialismo. Sul versante dei movimenti ricordo che nel 1967 al congresso Dialettiche della Liberazione che si tenne a Londra nel 1967 Gregory Bateson e Allen Ginsberg parlarono di riscaldamento globale e ecologia. Per non citare Gary Snyder. La beat generation arrivò prima dei neomarxisti del ’68 all’ecologismo. Sui Verdi tedeschi e europei Lowi dice cose purtoppo tristemente vere. Ed è un peccato che il partito fondato da Rudi Dutschke e Joseph Beyus abbia perso la sua carica alternativa. La rifondazione comunista e il socialismo del XXI secolo non possono che essere rossoverdi. E questa non è per noi una novità. Buona lettura. 
La civiltà capitalista contemporanea è in crisi. L’accumulazione illimitata di capitale, la mercificazione di ogni cosa, lo sfruttamento spietato del lavoro e della natura e la conseguente concorrenza brutale minano le basi di un futuro sostenibile, mettendo così a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. La profonda minaccia sistemica che affrontiamo richiede un cambiamento profondo e sistemico: una grande transizione.

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Tariq Ali: il bolscevismo difettoso di Victor Serge

Città  del Messico, 6 luglio 1946. Victor Serge aveva un anno da vivere. Aveva trascorso la mattinata, come accadeva a volte, con la vedova di Trotsky, Natalia Sedova. Avevano scritto insieme un libro di memorie di Trotsky; in esso Natalia ricorda il marito che camminava avanti e indietro nel suo studio a Coyoacán, impegnato in un’accesa conversazione immaginaria con vecchi bolscevichi morti, discutendo di Stalin e di come e perché erano stati sconfitti da lui. Serge notava che Sedova non stava bene:
Ciò che la consuma in realtà  è un lutto immenso, infinitamente più grande di quello per Lev Davidovich, che non fa altro che sfinirla, il lutto per un’epoca e una folla innumerevole. E dato che sono senza dubbio l’unico che lo condivida veramente con lei, i nostri colloqui sono preziosi per noi e tuttavia evito di accennare agli innumerevoli morti. E comunque essi appaiono, la tomba di una generazione è sempre qui. Questa volta … abbiamo ricordato Osip Emilievich Mandelstam, morto in prigione.

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IL COMUNISTA FILIPPO TURATI

Non suoni come provocazione il titolo di questo post. Il più autorevole esponente del riformismo socialista italiano si considerava comunista. Fino alla rivoluzione d’Ottobre tutti i comunisti marxisti si definivano socialisti o socialdemocratici. Di solito erano gli anarchici più spesso a definirsi comunisti. Insomma tutti i socialisti erano comunisti e viceversa. Persino il padre del riformismo socialdemocratico. il tedesco Eduard Bernstein, era un comunista. Il comunismo era il fine ultimo dei socialisti. Solo con la rivoluzione d’Ottobre si creò la distinzione socialisti/comunisti novecentesca. Lenin cambiò nome al suo partito – che quando prese il Palazzo d’Inverno si chiamava ancora socialdemocratico – e ritornò all’aggettivo del Manifesto di Marx e Engels. Da quel momento ci si abituò a chiamare comunisti i seguaci di Lenin e socialisti quelli che non aderivano alla Terza Internazionale. E proprio sulla base di questa lunga storia Turati rivendicò il suo socialismo/comunismo proprio in quel congresso di Livorno in cui la frazione comunista uscì dal teatro Goldoni cantando L’Internazionale per andare a fondare il Partito Comunista d’Italia. In quell’intervento che è bene rileggere e che vi ripropongo Turati volle chiarire e circoscrivere la divergenza pur asprissima in quei giorni. Turati era stato avversario del massimalismo e lo fu ancor di più dei comunisti della Terza Internazionale ma non smise mai di battersi per il socialismo. E nel suo intervento andava anche oltre e ricordava la condivisione del fine ultimo non solo con i comunisti seguaci di Lenin ma anche con gli anarchici: “Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti!”. Quelli che convertitisi al neoliberismo si spacciano per “riformisti” e si fan scudo di Turati sono degli imbroglioni perché Turati fu tutta la vita dalla parte della classe lavoratrice e per il superamento del capitalismo. Il vecchio Turati rivendicava la continuità e la coerenza del suo percorso di militante del movimento operaio e socialista che da giovane corrispondeva con Engels e fondava il giornale “Lotta di classe”. Anche dopo il 1921 quando si consumò la rottura e il vecchio Turati fondò con Treves e Matteotti il Partito Socialista Unitario non perse la fedeltà  alla lotta di classe. E non mancarono di riconoscere i suoi meriti nel dopoguerra anche i comunisti del PCI. Nel 1957 in occasione del centenario L’Unità gli dedicò un articolo in cui si relativizzarono le severe critiche di Gramsci degli anni ’20 e le ingiuste accuse nei suoi confronti del Togliatti del periodo del “socialfascismo” staliniano dei primi anni ’30 erano già state accantonate non appena cominciò la stagione dei fronti popolari. Nel 1982 Terracini che era stato uno dei protagonisti della scissione di Livorno definì il discorso di Turati «un’anticipazione certamente intelligente e, direi, quasi miracolosa, profetica di una realtà che in tempi successivi venne poi maturando».

Dagli anni ’80 va avanti invece un equivoco (o un imbroglio?) cominciato con la trasformazione dei partiti socialdemocratici europei in partiti non più anticapitalisti, non più di classe e progressivamente convertiti dopo il 1989 al neoliberismo. Nel corso degli anni ’80 tutti i partiti di massa del movimento operaio europeo furono sconfitti, dal Labour al PCI di Berlinguer. Olof Palme fu assassinato. Ma contò ancor di più il dato strutturale della trasformazione del capitalismo, con il postfordismo e la globalizzazione, che ha ridotto notevolmente il peso della classe operaia della grande fabbrica nei paesi occidentali e ha riconquistato anche l’egemonia ideologica nella cultura di massa. Da allora – la stagione cominciò in Italia con Craxi e poi fu ripresa dagli ex-comunisti – hanno cominciato a definirsi “riformisti” i sostenitori delle “riforme” neoliberiste. Un’operazione orwelliana che, con grande precisione di storico, ha smontato Paolo Favilli in un libro di qualche anno fa “Il riformismo e il suo rovescio”(Franco Angeli editore) che prendeva spunto dalla nascita del Pd di Veltroni. Il riformismo di oggi non ha alcun elemento di continuità  con il riformismo storico della tradizione socialista. Ne è invece l’esatto rovescio. Non ci troviamo di fronte alla trasformazione o all’evoluzione di un’identità  – processo di per sé naturale ed inevitabile, perché le identità  sono sempre dinamiche e soggette a sviluppo – ma all’acquisizione in blocco dell’identità altrui, come ha scritto lo storico Gianpasquale Santomassimo. Con la rivendicazione del “riformismo” da parte di Renzi e del criminale di guerra Tony Blair si è raggiunta l’apoteosi. Neanche i morti saranno al sicuro se vince il nemico, scriveva Benjamin e aveva proprio ragione. C’è un’intera storia del movimento operaio e socialista che va recuperata, studiata, difesa. 

Rileggiamo l’intervento di Filippo Turati a Livorno:

Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. A Bologna, un anno fa, in un discorso molto contrastato, che forse ebbe tuttavia qualche conferma dai fatti, io vi pregavo di accogliere le mie parole come un testamento. Io non debbo, senza volere avere la sciocca presunzione, e ridicola, di aggiungere lugubre solennità  alle mie parole, poche parole, non debbo e non posso farvi altra dichiarazione oggi. Più che mai, anzi, debbo ringraziare il Partito ed il Congresso che mi ha lasciato in vita, che mi lascia tuttora in vita. È  stato un po’ il mio destino d’essere sempre un imputato, davanti a questo o quel tribunale, e quando è un tribunale rivoluzionario, che non vi schianta completamente, che non vi lascia qualche respiro, è un tribunale molto mite, a cui bisogna essere grati. Continue reading IL COMUNISTA FILIPPO TURATI