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Tante persone mi scrivono chiedendo perchè non c’è una lista unitaria della sinistra contro la guerra. La risposta è semplice: perchè Fratoianni e Bonelli non l’hanno voluta fare nonostante noi abbiamo insistito fino all’ultimo. Va detto che per mesi anche Mimmo Lucano sostenne che si sarebbe candidato solo in caso di lista unitaria salvo poi all’improvviso andare con chi l’aveva rifiutata (probabilmente ha fatto i suoi legittimi calcoli sulle possibilità di elezione). Vi ripropongo l’articolo che a gennaio scrissi per il Manifesto rispondendo positivamente all’appello di Basilio Rizzo e Emilio Molinari. Sul sito della rivista Left trovate una mia intervista.
Una lista di scopo per la pace e per non ripetere l’errore
di Maurizio Acerbo
Condivido le preoccupazioni di Emilio Molinari e Basilio Rizzo in vista delle ormai imminenti elezioni europee. E per questo sostengo dall’inizio l’appello di Michele Santoro e Raniero La Valle per una lista per la pace che metta al centro della campagna elettorale la deriva guerrafondaia dell’Italia e dell’Unione europea al seguito della Nato e degli Usa, lo stop all’invio di armi in Ucraina (rivotato da destra e Pd), il taglio delle spese militari, la solidarietà coi popoli palestinese e curdo, la riforma e il rilancio dell’Onu per la risoluzione delle controversie internazionali, il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.
Una lista per la pace che non può non avere un programma di giustizia sociale e ambientale alternativo all’ordoliberismo europeo e alle politiche razziste e xenofobe. La proposta di Michele Santoro e Raniero La Valle ha il pregio di non proporre semplicemente sommatorie elettorali – che tra l’altro non sempre funzionano come verificato cinque anni fa con la Sinistra – ma un compito ben più importante e necessario, quello di far uscire l’Italia dalle guerre e dalle logiche di guerra, di portare nel parlamento europeo la voce di chi si riconosce nel ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione. La «lista per la pace» va fatta non tanto per unire i partiti ma per imporre la centralità della questione della guerra e la critica della deriva dell’Unione europea. Proprio per questo offre un terreno positivo di convergenza.
La «sinistra pacifista, ambientalista, dei diritti sociali e civili così ben scritti nella nostra Costituzione» ha il dovere di dare il proprio contributo superando ogni autoreferenzialità. Ricordo che anche alle elezioni politiche noi proponemmo la coalizione del fronte pacifista e quindi come Rifondazione Comunista abbiamo dato la nostra disponibilità alla costruzione di una lista «di scopo» che unisca su un programma condiviso chi ha assunto posizioni coerentemente contro la guerra. Continue reading Perchè due liste? Chiedete a Fratoianni e Bonelli
Liberarci dal mostro che distrugge il nostro pianeta e il nostro futuro
Dobbiamo parlare di cosa fanno le bombe in guerra. Le bombe fanno a pezzi la carne. Le bombe frantumano le ossa. Le bombe smembrano. Le bombe fanno tremare il cervello, i polmoni e altri organi così violentemente da sanguinare, rompersi e cessare di funzionare. Le bombe feriscono. Le bombe uccidono. Le bombe distruggono.
Le bombe rendono anche ricchi.
Quando una bomba esplode, qualcuno ci guadagna. E quando qualcuno ci guadagna, le bombe mietono altre vittime invisibili. Ogni dollaro speso per una bomba è un dollaro non speso per salvare una vita da una morte evitabile, un dollaro non speso per curare il cancro, un dollaro non speso per educare i bambini. Ecco perché, tanto tempo fa, il generale a cinque stelle e presidente in pensione Dwight D. Eisenhower ha giustamente definito la spesa per le bombe e per tutto ciò che è militare un “furto”.
L’autore di questo furto è forse la forza distruttiva più sottovalutata del mondo. Si cela inosservata dietro a tanti problemi importanti negli Stati Uniti e nel mondo di oggi. Eisenhower ne mise notoriamente in guardia gli americani nel suo discorso di addio del 1961, chiamandolo per la prima volta “complesso militare-industriale” o MIC.
A cominciare dal fatto che, grazie alla capacità del MIC di dirottare il bilancio federale, la spesa militare annuale totale è molto più grande di quanto la maggior parte delle persone si renda conto: circa 1.500.000.000.000 di dollari (1,5 trilioni di dollari). Contrariamente a quanto il MIC ci spaventa, questa cifra incomprensibilmente grande è mostruosamente sproporzionata rispetto alle poche minacce militari che gli Stati Uniti devono affrontare. Un trilione e mezzo di dollari è circa il doppio di quanto il Congresso spende annualmente per tutti gli scopi non militari messi insieme.
Definire questo massiccio trasferimento di ricchezza un “furto” non è un’esagerazione, dal momento che viene sottratto a necessità impellenti come porre fine alla fame e ai senzatetto, offrire l’università e la scuola materna gratuitamente, fornire un’assistenza sanitaria universale e costruire un’infrastruttura energetica verde per salvarci dal cambiamento climatico. Praticamente tutti i principali problemi riguardanti le risorse federali potrebbero essere migliorati o risolti con una frazione del denaro richiesto dal MIC. I soldi ci sono.
La maggior parte dei dollari dei nostri contribuenti viene sequestrata da un gruppo relativamente piccolo di profittatori di guerra aziendali guidati dalle cinque più grandi aziende che traggono profitto dall’industria bellica: Lockheed Martin, Northrop Grumman, Raytheon (RTX), Boeing e General Dynamics. Mentre queste aziende ne traevano profitto, il MIC ha seminato una distruzione incomprensibile a livello globale, tenendo gli Stati Uniti bloccati in guerre senza fine che, dal 2001, hanno ucciso circa 4,5 milioni di persone, ferito decine di milioni di altri e sfollati almeno 38 milioni , secondo le stime del Progetto sui costi della guerra della Brown University .
Il dominio nascosto del MIC sulle nostre vite deve finire, il che significa che dobbiamo smantellarlo. Ciò può sembrare del tutto irrealistico, persino fantastico. Non lo è. E comunque, stiamo parlando di smantellare il MIC, non l’esercito stesso. (La maggior parte dei membri delle forze armate sono, infatti, tra le vittime del MIC)
Mentre il profitto è stato a lungo parte della guerra, il MIC è un fenomeno relativamente nuovo, successivo alla Seconda Guerra Mondiale, formatosi grazie a una serie di scelte fatte nel tempo. Come altri processi, come altre scelte, possono essere invertiti e il MIC può essere smantellato.
La domanda, ovviamente, è: come?
Continue reading David Vine – Theresa (Isa) Arriola: Il complesso militare-industriale ci sta uccidendo tutti
SVISTE IN TV. Il berlusconiano ministro degli Esteri intervistato nel corso della trasmissione «Piazza pulita» da Corrado Formigli ha dichiarato testualmente: «Come è stato arrestato Antonio Gramsci? Grazie a quale intervento? Palmiro Togliatti lo fece arrestare, perché era scomodo»
Un ministro che in tv riscrive la storia e offende la memoria fa più danni dei vandali che colpiscono la tomba di Berlinguer, lapidi e monumenti dedicati partigiani o deportati. Il ministro degli esteri del governo Meloni, il berlusconiano Antonio Tajani, intervistato nel corso della trasmissione «Piazza pulita» da Corrado Formigli ha dichiarato testualmente: «Come è stato arrestato Antonio Gramsci? Grazie a quale intervento? Palmiro Togliatti lo fece arrestare, perché era scomodo».
Purtroppo il conduttore non ha trovato nulla da ridire. Naturalmente la calunnia è totalmente inventata (un po’ come dire che Ruby era la nipote di Mubarak, per restare in argomento berlusconiano). Gramsci fu arrestato dai fascisti (con la complicità attiva del re Savoia), quei fascisti a cui Togliatti, come i/le comunisti/e, si opponevano a rischio della vita e della galera (lo stesso Togliatti era stato arrestato il 2 aprile 1925 e incarcerato fino ad agosto).
Al momento dell’arresto illegale del deputato Gramsci, a Roma l’8 novembre 1926, Togliatti si trovava a Mosca, dove – dopo il Congresso di Lione – era stato inviato come delegato del PCI, e vi restò dal febbraio 1926 al gennaio 1927. Nessuno storico, nemmeno uno di quelli revisionisti tanto apprezzati dal Governo Meloni, ha mai sostenuto ciò che Tajani ha dichiarato.
I romani che lo ebbero compagno di Liceo, ricordano il giovane Tajani, monarchico, che non eccelleva negli studi. Ma gli anni sono passati, e Tajani avrebbe avuto il dovere di recuperare un po’ di cultura e un po’ di storia, anche in considerazione delle cariche pubbliche che ricopre. La domanda che si pone è la seguente: esiste un limite alla possibilità di mentire spudoratamente in pubblico? E ancora: Tajani smentirà la falsità che ha detto e chiederà scusa? Noi comunisti/e chiediamo formalmente una tale smentita (al Ministro Tajani e anche al conduttore Formigli), in nome della decenza. Se questo non accadrà, vorrà dire che non esiste alcun limite alla menzogna di cui il Governo Meloni e i suoi ministri sono capaci.
Le affermazioni di Tajani offendono la memoria di due padri della nostra malridotta democrazia. Antonio Gramsci morì dopo anni di detenzione durissima e ci ha lasciato un’opera che da decenni è studiata in tutto il mondo. Palmiro Togliatti, dopo aver guidato il principale partito antifascista nella Resistenza, è stato uno degli artefici della vittoria della Repubblica e uno dei più importanti padri della Costituzione.
Antonio Tajani viene dalle file monarchiche ed è alleato degli eredi del fascismo. Evidentemente non conosce la storia d’Italia come tanti suoi alleati. Da ministro della Repubblica che ha giurato sulla Costituzione Tajani ha il dovere di scusarsi per la bufala che ha raccontato ai telespettatori. Auspichiamo che Corrado Formigli rettifichi la bufala magari invitando storici gramsciani autorevoli a raccontarne la storia.
Nella lista Pace Terra Dignità è candidato Angelo d’Orsi, autore di una monumentale biografia, che potrebbe tenere una breve lezione a beneficio del ministro e dei suoi elettori. A mandare in galera Gramsci fu il regime fascista che non cominciò a sbagliare dopo le leggi razziali ma si affermò fin dall’inizio cancellando con la violenza tutte le libertà popolari.
articolo pubblicato su Il manifesto, 23 maggio 2024
Karl Liebnknecht è stato una delle figure più popolari del movimento operaio internazionale del Novecento, prima come oppositore della guerra e poi come martire. Figlio di Wilhelm, amico e compagno di lotta di Marx e Engels, rimase sempre fedele ai principi antimilitaristi e internazionalisti del socialismo. Nel 1907 fu condannato a 18 mesi di carcere per alto tradimento per il suo opuscolo intitolato Militarismo e antimilitarismo. Nel dicembre 1914 Karl Liebknecht fu l’unico deputato della socialdemocrazia tedesca a votare contro i “crediti di guerra”. Nel 1913 in un profetico intervento in parlamento aveva enunciato i pericoli che correva l’Europa: “Nell’interesse del mantenimento della pace, nell’interesse della promozione degli sforzi che debbono impedire che per una simile folle politica di prestigio l’Europa sia trascinata in una guerra, è necessario ancora una volta additare a tutto il mondo quelle cricche capitalistiche il cui interesse ed il cui nutrimento sono la discordia tra i popoli, i conflitti tra i popoli, la guerra; è necessario gridare ai popoli: la patria è in pericolo! Ma non è in pericolo per via del nemico esterno, ma per via di quel minaccioso nemico interno, soprattutto per via dell’industria internazionale degli armamenti”. Fondò con Rosa Luxemburg la Lega di Spartaco. Come Rosa finì in prigione. Fu arrestato dopo aver gridato “Abbasso la guerra! Abbasso il governo!” in un comizio illegale della Lega di Spartaco il 1 maggio 1916 a Berlino. Il 28 giugno 1916 55.000 metalmeccanici di Berlino scioperarono per protestare contro la sua condanna a due anni e mezzo di prigione. Fu il primo sciopero di protesta di massa della Germania durante la Prima Guerra Mondiale. Schierato dalla parte dei bolscevichi nel 1918 fu tra i fondatori del Partito Comunista Tedesco. Fu assassinato il 19 gennaio 1919 dai paramilitari proto-nazisti agli ordini del governo socialdemocratico. Questo articolo fu pubblicato sul giornale newyorkese The Class Struggle nel 1918.
“Ma, dal momento che non siamo stati in grado di prevenire la guerra, dal momento che è arrivata nonostante noi, e il nostro Paese sta affrontando l’invasione, lasceremo il nostro Paese indifeso? Lo consegneremo nelle mani del nemico? Il socialismo non rivendica forse il diritto delle nazioni a determinare il proprio destino? Non significa forse che ogni popolo è giustificato, anzi, in dovere di proteggere le proprie libertà, la propria indipendenza? Quando la casa va a fuoco, non dovremmo innanzitutto cercare di spegnere le fiamme prima di fermarci ad accertare l’incendiario?”.
Questi argomenti sono stati ripetuti, sempre in difesa dell’atteggiamento della socialdemocrazia, in Germania e in Francia. E anche nei Paesi neutrali hanno avuto un ruolo importante nelle discussioni.
Ma c’è una cosa che il pompiere sulla casa in fiamme ha dimenticato: che nella bocca di un socialista la frase “difendere la patria” non può significare giocare il ruolo di carne da cannone sotto il comando di una borghesia imperialista. Continue reading Karl Liebknecht: Autodeterminazione delle nazioni e autodifesa (1918)
Ho tradotto il saggio di Beck che apre l’ultimo numero della NEW LEFT REVIEW (n.146, marzo aprile 2024) perchè contiene una disamina assai illuminante della politica estera dell’amministrazione Biden e della visione del mondo dei Democratici americani. Beck traccia un resoconto a partire da un libro che è stato presentato come “il resoconto più completo della politica estera dell’Amministrazione”, “subito un classico e uno sguardo indispensabile su come l’amministrazione Biden ha esercitato il potere americano”, “il libro più importante che leggerai sull’amministrazione Biden”. Così la rivista presenta il saggio di Beck: “Una resa dei conti panoramica con la politica estera aggressiva di Biden. In un contesto di tassi di crescita in calo, sostiene Richard Beck, gli obiettivi egemonici di Washington – contenere la Cina, affrontare la Russia, promuovere la decarbonizzazione – sono stati tormentati da contraddizioni insolubili, ora aggravate dal sostegno della Casa Bianca all’assalto punitivo di Israele a Gaza”. Buona lettura!
Il nuovo libro del giornalista di Politico Alexander Ward, The Internationalists: The Fight to Restore American Foreign Policy after Trump, è un documento che potrebbe risultare interessante per gli storici tra qualche decennio. Il libro, che è una narrazione vivace dei primi due anni di politica estera americana sotto Biden, illustra i contributi del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e del segretario di Stato Antony Blinken, due delle figure più potenti dell’amministrazione. Spiega come hanno digerito la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 per mano di Donald Trump e poi hanno usato i quattro anni di assenza dal potere per sviluppare una politica estera in grado di resistere agli attacchi del populismo di destra, isolando così uno sforzo a lungo termine per rafforzare la posizione globale dell’America contro la sconclusionatezza della politica interna del Paese.1
Secondo Ward, i Democratici hanno iniziato a formulare questo programma presso la National Security Action, un think tank e “incubatore” fondato da Sullivan e dallo speechwriter di Obama Ben Rhodes nel 2018. Mentre Biden faceva campagna elettorale per il 2020 e poi assumeva l’incarico l’anno successivo, e mentre la sua amministrazione era composta da persone che avevano trascorso del tempo alla National Security Action, la nostra politica estera è stata condensata in due slogan. Uno di questi era “una politica estera per la classe media”: l’idea era che Biden avrebbe perseguito solo obiettivi che poteva plausibilmente descrivere come materialmente vantaggiosi per gli americani comuni.2 Questa divenne una componente chiave dei suoi sforzi per vendere il ritiro dall’Afghanistan del 2021 al grande pubblico: perché continuare a buttare soldi in una guerra non vincente quando invece potevano essere spesi per le infrastrutture o per l’industria verde a casa? Il secondo slogan affermava che “la sfida più grande del mondo è quella tra autocrazie e democrazie”.3 Questo mirava a posizionare Trump e i suoi sostenitori come parte di un asse autoritario globale che comprendeva anche Putin, Xi e Kim Jong-Un. Non si poteva difendere e rivitalizzare la democrazia in patria – e il 6 gennaio aveva chiarito la necessità di tale difesa – senza affrontare i leader che lavoravano per erodere la democrazia all’estero. Continue reading RICHARD BECK: BIDENISMO ALL’ESTERO
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