Milk
di Augusto Illuminati
Proviamo a imparare da un film? Cioè a tradurre una storia in altre storie possibili, senza riguardo al valore artistico –che però è evidentemente grandissimo, come ci si poteva aspettare da un regista come Gus Van Sant e da un attore anche politicamente impegnato come Sean Penn. Parlo naturalmente di Milk, che è la storia di Harvey Milk, organizzatore del movimento omosessuale nel distretto di Castro, S, Francisco, CA, Usa, poi assessore comunale, assassinato nel 1978 insieme al sindaco liberal della città , George Moscone. Si può legittimamente leggere la storia e il film come un capitolo, insieme a Stoneywall, della battaglia per i diritti civili degli omosessuali. Se ne può fare un’icona dell’autorappresentazione queer. Noi scegliamo di interpretarlo come un manuale di attivismo di movimento, una riflessione sui problemi della rappresentanza e dell’unificazione di settori eterogenei. Del resto Gus Van Sant lo ha costruito in parte come prequel della campagna elettorale di Barack Obama, così debitrice all’attivismo di base e alle innovazioni comunicative. In questo Milk è assai più radicale, per il carattere assolutamente minoritario che quelle agitazioni avevano in partenza. Proprio la visuale ridotta lo rende ancor più esemplare.
Elenchiamo sommariamente i temi che ce lo rendono istruttivo. Lotta a partire da una issue molto specifica (i diritti civili dei gay perseguitati dal pregiudizio sociale e dalla polizia), ancorata a un territorio – Castro Street come approdo di un flusso di emarginati per ragioni sessuali nella stagione immediatamente successiva a quella hippie. Pratica dell’obbiettivo combinata con l’accesso a una rappresentanza di distretto nel consiglio municipale, avendo peraltro ben chiaro che si tratta di rappresentanza di movimento e non di categoria, mentre gli strumenti ufficiali di tutela lo erano nella misura in cui rivendicavano una generica tolleranza, senza mai scoprirsi. E’ irresistibile la tentazione di confrontare l’opportunismo strumentale del direttore della rivista cripto-gay con la sinistra radicale italiana nei confronti dei movimenti –anche se, a tutto vantaggio degli americani, sta la mancanza di un omofobo come Fagioli! Il movimento omosessuale maschile detesta (teme) le donne, al punto da non pensare inizialmente all’area lesbo-femminista. Quando tale limite è superato non abbiamo soltanto un allargamento della issue specifica, ma un salto di qualità dal corporativismo alla politicizzazione. Il singolare accordo stretto con i più nerboruti e maschilisti sindacati, perfino i teamsters, sulla base della fine delle discriminazioni anti-gay nelle imprese controllate dai sindacati in cambio del boicottaggio delle marche antisindacali nei bar gay, è un tratto strategico geniale di composizione del diverso che non è del tutto remoto da certe odierne discussioni sul rapporto fra sindacati e Onda. Il crescere dalle campagne locali a una battaglia nazionale contro la proposizione 6, ovvero il tentativo di licenziare per referendum stato per stato gli insegnanti omosessuali (una proposta che da noi fu fatta dal “democratico†Fini), ci ricorda l’assurgere di campagne locali e settoriali a temi generali di confronto. Tav, Dal Molin, agitazioni sul maestro unico e contro i tagli all’Università …
Giustamente gira l’idea che i movimenti debbano dotarsi di narrazioni, non per consolarci nelle pause della lotta, ma per controbattere le cattive narrazioni che fanno gli altri (da Veltroni a Maroni) e per creare continuità tra fasi di un ciclo e fra componenti eterogenee di uno schieramento. Lo si è sempre fatto nelle forme adeguate ai tempi, sia producendo immaginario sia utilizzando quello di altra origine. Vogliamo tutto e l’Orda d’oro, ma anche i film di serie B sulla rivoluzione messicana, quando all’ordine del giorno era una tematica insurrezionale, Q o certi noirs a registrare la diaspora del fallito assalto al cielo, La parte della fortuna e altri colpi di sonda su una nuova composizione sociale e mentale. Per non parlare della musica o dell’arcipelago di iniziative culturali che tanta parte è del lavoro immateriale e della coscienza collettiva immediata. Nella dimensione del simbolico anticipiamo spesso quanto nella pratica resta a volte implicito, giochiamo una partita che va ancora più in profondità dei comportamenti esterni e insieme li rilancia e diffonde. Costruire senso comune e stringere il vincolo fra la nostra esperienza e quella di altri paesi, fra esperienze di settori conflittuali differenti – beh, Milk è una bella lezione. (fonte global project 3 febbraio 2009).
Intervista al regista Gus Van Sant
http://video.libero.it/app/play?id=f30944a7639a25283128e6c01cd398ff
“or when people go to see a movie by, let’s say, Gus Van Sant…they’re doing it not just to be entertained; they’re doing it because they want to become better warriors”
Ken Kesey http://www.fargonebooks.com/kesey.html#TOP
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