Nell’era postmoderna, quando la figura del popolo si dissolve, il militante è colui che meglio esprime la vita della moltitudine. Il militante è l’agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l’Impero. Quando diciamo militante, non pensiamo al triste ascetico agente della Terza Internazionale, la cui anima era profondamente impregnata dalla ragion di stato sovietica, nello stesso modo in cui la volontà del papa gravava sui cuori dei cavalieri della Compagnia di Gesù.
Non intendiamo qualcuno che agisce per dovere e disciplina e che pretende di dedurre le proprie azioni da un piano ideale.
Intendiamo, al contrario, qualcuno che è molto simile ai combattenti comunisti delle rivoluzioni del XX secolo, agli intellettuali perseguitati ed esiliati nel corso delle lotte antifasciste, ai repubblicani della Guerra Civile spagnola e a coloro che parteciparono ai movimenti di resistenza in Europa, a coloro che hanno lottato per la libertà in tutte le guerre anticoloniali e antimperialiste.
Un prototipo di questa figura rivoluzionaria è il militante agitatore degli Industrial Workers of the World. I Wobbly diedero vita ad associazioni di lavoratori costruite dal basso attraverso continue agitazioni e, con questa forma di organizzazione, costituirono un pensiero utopico e una conoscenza rivoluzionaria. Il militante era il protagonista principale della “lunga marcia” dell’emancipazione del lavoro tra XIX e XX secolo: una creativa singolarità in quel gigantesco movimento collettivo che fu la lotta di classe operaia.
In questo lungo periodo, l’attività del militante consisteva, prima di tutto, in una serie di pratiche di resistenza contro lo sfruttamento capitalistico in fabbrica e nella società. Essa consisteva, inoltre (attraverso, ma anche oltre la resistenza) in una costruzione collettiva e nell’esercizio di un contropotere capace di destrutturare il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo.
Il militante organizzava le lotte contro il cinismo della borghesia, l’alienazione monetaria, l’espropriazione della vita, lo sfruttamento del lavoro e la colonizzazione degli affetti. L’insurrezione era l’orgoglioso emblema del militante. Nella tragica storia delle lotte comuniste il militante fu ripetutamente martirizzato. Talvolta, ma non tanto spesso, le normali strutture dello stato di diritto potevano essere sufficienti per i compiti repressivi volti alla distruzione del contropotere. Quando però si rivelavano insufficienti, i fascisti e le guardi bianche dello stato del terrore – o le mafie nere al servizio dei capitalismi “democratici” – venivano invitati a dare una mano per rafforzare le strutture repressive legali. Oggi, dopo troppe vittorie del capitalismo, dopo che le illusioni del socialismo sono definitivamente sfumate, e dopo che la violenza capitalistica contro il lavoro è stata solidificata sotto il nome di ultra-liberismo, perché risorgono ancora le istanze della militanza, perché si sono approfondite le resistenze, e come mai le lotte riemergono continuamente con rinnovato vigore? Occorre sottolineare immediatamente che questa nuova militanza non è una replica delle formule organizzative della vecchia classe operaia rivoluzionaria. Oggi, il militante non pretende neanche di essere rappresentativo, neppure dei fondamentali bisogni umani degli sfruttati. Oggi, la militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire quella che è sempre stata la sua forma originaria: un’attività costituente e non rappresentativa. Oggi, la militanza è una pratica positiva, costruttiva e innovatrice. Questa è la forma in cui noi e tutti coloro che si rivoltano contro il comando del capitale si riconoscono come militanti. I militanti reagiscono al comando dell’Impero creativamente. In altri termini, la resistenza è immediatamente collegata con un investimento costitutivo nel mondo biopolitico, volto alla creazione di dispositivi cooperativi di produzione e di comunità. Questa è la grande novità della militanza contemporanea: essa recupera le virtù dell’azione insurrezionale maturate in duecento anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, un mondo che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale ed ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro è, allora, la cooperazione produttiva dell’intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d’amore.
C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso nel momento in cui identifica nella condizione comune della moltitudine la sua enorme ricchezza. In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell’ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere. Si tratta di una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poiché il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell’amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia di essere comunisti.
Toni Negri e Michael Hardt, Impero
[…] quanto piuttosto beato, la parola italiana per Beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, provando ad amare tutta la vita, provando a essere completamente sincero con tutti, praticando la […]