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Leo Panitch: Rinnovamento del socialismo: democrazia, strategia e immaginazione (2001)

Ho tradotto questo saggio di Leo Panitch del 2001 ripubblicato dalla Montly Review dopo la sua scomparsa lo scorso 19 dicembre. 

“Suonate le campane che possono ancora suonare

Dimenticate la vostra offerta perfetta

C’è una crepa in ogni

cosa

Ecco come entra la luce”.

—Leonard Cohen, “Anthem”

Quello che è successo è successo. L’acqua che

hai versato una volta nel vino non si può più

scolare, ma

tutto cambia. Puoi

ricominciare da capo con il tuo ultimo respiro.

—Bertolt Brecht, “Tutto cambia”

Per far restituire al ladro il suo bottino,

Per liberare lo spirito dalla sua galera.

Dobbiamo decidere noi stessi il nostro dovere,

dobbiamo decidere e farlo bene.

—Eugene Pottier, “L’Internationale”

Ha senso parlare in termini di rinnovamento socialista all’inizio del ventunesimo secolo? Le massicce proteste anticapitaliste da Seattle a Praga al Quebec che hanno catturato l’attenzione del mondo all’inizio del nuovo millennio attestano il fatto che lo spirito della rivoluzione, uno degli aspetti centrali della vita politica nei secoli precedenti, non è certo  acqua passata. Se “lo spirito rivoluzionario degli ultimi secoli, cioè l’entusiasmo di liberare e costruire una nuova casa dove possa dimorare la libertà, [che] è inedito e senza eguali in tutta la storia precedente”1 inizia correttamente con le rivoluzioni borghesi della fine del diciottesimo secolo, pochi contesterebbero che questo desiderio di trasformazione sociale fondamentale sia stato in gran parte portato nel mondo del ventesimo secolo dalle aspirazioni rivoluzionarie del socialismo di trascendere lo stesso ordine capitalista. È stato il socialismo a esprimere la lotta del secolo scorso per la liberazione dalla paradossale libertà della rivoluzione borghese, cioè dalla concorrenza e dallo sfruttamento su cui si fondano le relazioni sociali capitaliste; ed è stato il socialismo a incarnare l’aspirazione a costruire una società pienamente democratica, cooperativa e senza classi in cui la libertà e l’uguaglianza potessero realizzare piuttosto che negare la socievolezza dell’umanità.

Eppure, alla fine del secolo scorso, cosa si potrebbe dire che rimanga del progetto socialista? La risposta è apparsa evidente a molte persone negli anni ’90 di fronte al crollo ignominioso dei regimi comunisti dell’Est e alla totale perdita di intenti radicali da parte dei partiti socialdemocratici in Occidente. La questione di ciò che il concetto stesso di cambiamento socialista potesse più significare in termini di obiettivi, forze sociali o agenti, per non parlare di metodi o possibilità immediate o a lungo termine, suscitò, se non vero e proprio disprezzo, almeno incertezza e confusione, esitazione e pessimismo. Il fatto che non ci siano più organizzazioni politiche significative orientate al cambiamento sociale fondamentale nel contesto delle disuguaglianze e delle irrazionalità del capitalismo globale ha definito la tragedia della sinistra moderna alla fine del ventesimo secolo.

Eppure, allo stesso tempo, negli ultimi anni è stato impossibile sottrarsi a una crescente frustrazione per la mancanza di alternative politiche a partiti e governi dediti all’ordine capitalista, e la sensazione che si debba fare qualcosa al riguardo. “Non c’è alternativa” è iniziato come uno slogan della campagna della Nuova Destra. Oggi, sulla scia delle depredazioni e delle irrazionalità del neoliberismo, è sentito come un lamento costante a sinistra. In questo contesto, è sempre più evidente che ci sia un motivo, dopotutto, per continuare la riflessione sulle prospettive contemporanee del socialismo.

Chiaramente tale riflessione deve essere sobria e attenta. Deve essere consapevole dei fallimenti e delle delusioni del passato, ma deve soprattutto guardare al futuro anche se riesamina il passato. Perché il punto principale dell’esercizio, come disse una volta Marx, è quello di “ritrovare lo spirito della  rivoluzione, non di far camminare di nuovo il suo fantasma”.2

Infatti, nella misura in cui le persone che cercano come costruire nuove istituzioni politiche orientate al raggiungimento degli ideali socialisti sono scoraggiate dal fallimento dei partiti comunista e socialdemocratico nel ventesimo secolo, o sono paralizzate dalla paura che vengano replicate tutte ancora una volta, può aiutare a superare questi sentimenti debilitanti se ricordiamo fino a che punto le vecchie istituzioni di partito e le loro pratiche erano un prodotto del loro tempo e luogo. Possiamo pensare al socialismo in termini di ideali e principi, teorie e obiettivi; ma nella misura in cui pensiamo al socialismo come politica, dobbiamo pensarlo storicamente, come progetti politici incarnati e articolati attraverso istituzioni particolari in momenti specifici. Concepito in questo modo, anche la questione del futuro del socialismo può essere chiaramente messa a fuoco.

I partiti socialisti di massa che in così tanti paesi erano saliti sulla scena politica all’inizio del ventesimo secolo erano qualcosa di completamente nuovo: mai prima di allora le classi subalterne erano state in grado di modellare organizzazioni politiche di massa relativamente durature. Naturalmente, i cambiamenti prodotti dallo stesso capitalismo – non solo l’invenzione di nuove forme di sfruttamento e disuguaglianza, ma anche la dissoluzione di vecchi legami sociali e campanilismi locali; la creazione di nuove condizioni di vita attraverso l’industrializzazione e l’urbanizzazione; lo sviluppo di nuove forme di autonomia associativa dallo Stato – fornì le condizioni per questo straordinario sviluppo politico. Questi partiti della classe operaia arrivarono a rappresentare, praticamente parlando, il progetto socialista, ma non poterono che riflettere, in misura sostanziale, nella loro organizzazione e ideologia le condizioni specifiche del capitalismo nel loro tempo. La Seconda Internazionale ha inizialmente fornito un ombrello comune a livello internazionale, ma all’indomani della scissione avvenuta con la prima guerra mondiale (presagita in precedenza in grandi dibattiti sulla strategia e sulla forma organizzativa) sono emerse le due ali istituzionali che hanno dominato la politica socialista nel ventesimo secolo: comunismo e socialdemocrazia, ognuno dei quali finì per fare molto affidamento, nei loro modi molto diversi, sul potere dello Stato. Il predominio di queste due formazioni nella politica della sinistra per la maggior parte del resto del secolo faceva parte di un più generale “congelamento delle alternative di partito” spesso commentato nello studio comparativo dei partiti politici.           

Molto prima degli anni ’90 era abbondantemente chiaro che le istituzioni emerse come particolari incarnazioni del progetto socialista all’inizio del ventesimo secolo avevano fatto il loro corso storico. Da una prospettiva storica materialista, tenendo conto dei tremendi cambiamenti avvenuti nel corso del secolo nelle condizioni sociali, economiche, politiche e culturali, ci si poteva davvero aspettare che gli strumenti politici di partito fondati all’inizio del secolo continuino ad essere valide espressioni della politica del socialismo alla fine del secolo? Le loro affermazioni di essere le rappresentazioni istituzionali universali ed eterne dei principi socialisti non avrebbero mai dovuto essere prese troppo sul serio: queste affermazioni riflettevano in buona parte tentativi ideologici gonfiati di rafforzare il sostegno alle loro tattiche immediate e strategie particolari. Sebbene si presentassero come le incarnazioni uniche del socialismo, ne erano storicamente espressioni condizionali, per nulla fissate per sempre all’occhio del tempo.

Già negli anni Sessanta, nella “Nuova Sinistra” c’era stata una sensazione molto forte che sia il comunismo che la socialdemocrazia si fossero incorporati in istituzioni sclerotiche che nei loro diversi modi soffocavano la creatività politica e intellettuale. Come membro di quella generazione degli anni ’60, penso sia giusto dire che pochissime persone che conoscevo che abbracciavano i valori e le idee socialiste lo facevano perché erano ispirate dall’esempio sovietico. Al contrario, siamo diventati socialisti nonostante quell’esempio, infatti, lo rifiutammo esplicitamente come modello. Quell’esempio è stato costantemente lanciato in faccia da coloro che si sono opposti al nostro socialismo, e abbiamo risposto non difendendo il comunismo autoritario, ma esprimendo la convinzione che era ancora possibile concepire un socialismo democratico e valeva la pena impegnarsi nella lotta per realizzarlo. Sebbene fossimo ispirati da coraggiose e tenaci lotte antimperialiste e di liberazione nazionale a volte guidate da leader e movimenti comunisti del terzo mondo, tali legami con il comunismo sovietico erano raramente oggetto della nostra ammirazione.

Il marxismo a cui ci siamo rivolti come modalità di analisi in questo contesto non era decisamente il marxismo sovietico. Era un marxismo rinnovato modellato da coloro che avevano indicato vie d’uscita e oltre, e di solito esplicitamente rotto con, quella soffocante ortodossia. Le affermazioni che il particolare tipo di sistema comunista autoritario costruito in Russia fosse l’unico risultato possibile delle idee di Marx non erano prese troppo sul serio; anzi, tali argomenti potrebbero essere visti come un’immagine speculare delle affermazioni fatte dagli stessi leader del partito sovietico. Joseph Schumpeter, egli stesso non marxista, una volta lo ha messo nella giusta prospettiva: “Tra il vero significato del messaggio di Marx e la pratica ed ideologia bolsceviche c’è un abisso, almeno così grande come quello che correva tra la religione degli umili galilei e la pratica e l’ideologia dei principi della Chiesa o dei signori della guerra del Medio Evo”3.  Il punto ha mantenuto la sua validità, sia che venga rivolto a un apologeta stalinista nei decenni precedenti, sia a un critico postmoderno in quelli recenti.

Alcuni di quella generazione degli anni Sessanta che divennero socialisti partirono alla ricerca di un marxismo-leninismo più puro. Si riunirono sotto la rubrica di partiti rivoluzionari relativamente piccoli di convinzioni trotskiste o maoiste e affiliazioni di vario genere. Ma certamente la maggior parte dei socialisti che conoscevo intuiva che il problema con i partiti comunisti andava più in profondità di una deviazione stalinista o post-stalinista, che gli elementi nel pensiero e nella pratica del leninismo, del trotskismo e del maoismo erano essi stessi altamente problematici; e che lo stesso discorso del marxismo-leninismo era debilitante, intellettualmente restrittivo e politicamente marginalizzante. In effetti, mentre abbracciavamo il marxismo per il suo potenziale nell’aiutarci a comprendere le società capitaliste in cui vivevamo, riconoscevamo anche, almeno implicitamente, e spesso esplicitamente, che il marxismo offriva relativamente pochi strumenti concettuali con i quali comprendere la natura delle stesse società comuniste autoritarie.

C’era la speranza, forse anche l’aspettativa, della maggior parte dei socialisti della mia generazione che ciò che alla fine sarebbe venuto a sostituire questo sistema di comunismo autoritario sarebbe stata una qualche versione del socialismo democratico. In questo senso, Praga 1968 fu importante nella nostra formazione politica quasi quanto Parigi 1968. Ma il nostro socialismo non era certo condizionato dall’aspettativa che un risultato socialista democratico fosse inevitabile nel blocco sovietico. Ciò che ci ha spinto verso il socialismo, piuttosto, è stata la nostra esperienza e osservazione delle disuguaglianze, irrazionalità, intolleranze e gerarchie delle nostre società capitaliste, sia nelle loro espressioni globali che in quelle interne. Le frustrazioni nei confronti dei governi socialdemocratici che non erano in grado, o peggio, non si erano nemmeno sforzati di realizzare un cambiamento sostanziale, erano in questo contesto la nostra principale preoccupazione. Ma questo non è per dire che le illusioni romantiche di imminenti sconvolgimenti rivoluzionari erano quasi comuni tra la generazione degli anni ’60 come talvolta appare ora in retrospettiva. Al contrario, la prontezza con cui fu ripresa a quel tempo la distinzione di Gramsci tra Oriente e Occidente rifletteva un diffuso riconoscimento che le condizioni per l’insurrezione erano semplicemente assenti nei paesi capitalisti più sviluppati. Quelle che furono messo in discussione principalmente negli anni ’60 furono le forme ideologiche e istituzionali specifiche della politica dei partiti socialdemocratici e comunisti, e le modalità di rappresentanza e amministrazione parlamentarista e burocratica convenzionali che erano venuti a rappresentare.

In Occidente, la mancanza di capacità di mobilitazione popolare della socialdemocrazia si è rivelata particolarmente debilitante nella transizione dall’era del welfare state del dopoguerra a una nuova era di globalizzazione neoliberista segnata da una serie di vittorie di attacchi di destra contro le riforme conquistate nell’era precedente. Eppure è stato proprio durante questo periodo di transizione da un’era del capitalismo a un’altra che tanti attivisti della generazione degli anni ’60, acutamente consapevoli dei limiti della socialdemocrazia e delle vecchie e nuove versioni del leninismo, si sono rivolti alla costruzione dei “nuovi movimenti sociali” che hanno avuto un così forte impatto sociale e politico negli ultimi decenni del ventesimo secolo. Questi movimenti, in parte perché hanno imparato dai fallimenti della vecchia politica, hanno sicuramente dimostrato che la mobilitazione era ancora possibile e che le riforme erano ancora conquistabili. Ma il fallimento nello sviluppo di nuove alternative politiche di partito a sinistra è stato comunque registrato in ogni elezione; ed è stato sempre più registrato anche nei tentativi costantemente tesi di mantenere le coalizioni di movimento da una questione all’altra e da un evento all’altro. Sempre più attivisti dei movimenti sociali hanno dovuto affrontare ancora una volta la questione di quali prospettive ci siano per l’emergere di nuove istituzioni politiche che porteranno un progetto politico anticapitalista nel ventunesimo secolo.

Non ci sono ancora risposte facili a questo. Mentre condizioni di sfruttamento acuto, irrazionalità del mercato e crisi intermittente sono ovunque manifeste, anche se spesso in forme nuove, è tuttavia anche vero che i profili culturali, economici e sociali delle classi lavoratrici da cui le vecchie espressioni istituzionali della politica socialista si sono sviluppate inizialmente sono radicalmente cambiati. Il problema non è che le classi lavoratrici siano meno omogenee di prima, e quindi che l’espressione politica di classe sia ora impossibile. Le classi lavoratrici non sono mai state omogenee. La questione rilevante – ed è molto difficile – è se e come la solidarietà politica possa essere riorganizzata e ringiovanita alla luce della diversità delle classi lavoratrici e dei cambiamenti molto significativi che hanno subito. Ci sono sempre state tensioni a sinistra tra coloro che hanno cercato di rafforzare la solidarietà ignorando questa diversità e resistendo al cambiamento, e coloro che hanno sottolineato la necessità di trasformare le classi lavoratrici nel e attraverso il riconoscimento della diversità e il processo di cambiamento. Non c’è dubbio che l’esperienza acquisita dai nuovi movimenti sociali avrà ora una grande influenza su ogni nuovo tentativo di rinnovamento socialista, soprattutto la nostra comprensione che la trasformazione delle relazioni sociali non avrebbe mai dovuto essere concepita in termini di classe indifferenziati, ma come comprendenti molteplici relazioni di dominio poiché queste sono inscritte nei sistemi di produzione, riproduzione, amministrazione e comunicazione.

In effetti, c’è già stato un marcato cambiamento nel pensiero socialista che pone l’accento più che mai sull’obiettivo di cambiare le relazioni sociali, come ampiamente delineato sopra, attraverso la democrazia economica e politica. Questo si è riflesso nel rifiuto del dominio inscritto nella tecnocrazia e nel corporativismo come radicato nelle agenzie di pianificazione centrale del comunismo e anche nelle istituzioni che gestivano il capitalismo di stile keynesiano. Questo non vuol dire che la pianificazione non sia più importante per i socialisti. La possibilità di coordinare strategicamente il processo decisionale economico apparirà davvero importante per quei milioni che sono costretti a soffrire di nuovo in mezzo alle ripetute crisi di eccesso di accumulo e speculazione finanziaria che l’odierna intensa concorrenza capitalista provoca. E le virtù di tale coordinamento, anzi la necessità di esso, per prevenire la distruzione della natura, diventano ogni giorno più manifesti. Sappiamo che la pianificazione economica di comando guidata da una strategia di industrializzazione statalista autoritaria e un tipo di pianificazione indicativa socialdemocratica che era a sua volta soggetta alle leggi dell’accumulazione di capitale privato, si sono rivelati entrambi incapaci di pianificare secondo la saggezza ecologica. Data la traiettoria deludente del Partito dei Verdi in Germania, inoltre, sembra esserci sempre più spazio per un nuovo tipo di socialismo che comprende come le lotte riuscite per limitare lo sfruttamento della natura, come le lotte riuscite per limitare lo sfruttamento del lavoro, impongano costi diretti o indiretti sul capitale che inducono anche crisi economiche sotto il capitalismo. I socialisti possono basarsi su questa analisi per sostenere con forza il coordinamento economico democratico volto a conciliare i bisogni umani di beni e servizi materiali con la riproduzione della natura.

Detto questo, i socialisti contemporanei non possono affermare di avere un progetto infallibile per un nuovo tipo di democrazia politica ed economica. Spesso è motivo di impazienza che sia così. In effetti, non sono mancati modelli più o meno attraenti avanzati negli ultimi decenni, ma tali modelli non possono essere persuasivi se non sono collegati alla costituzione dei mezzi politici per realizzarli, cioè la creazione di nuove istituzioni politiche che mobilitino ed istruiscano non solo per la democrazia economica ma anche per una trasformazione dei modi convenzionali di rappresentanza e amministrazione all’interno dello Stato. Particolarmente rilevanti anche qui sono i temi partecipativi avanzati dalla Nuova Sinistra degli anni ’60. Lo sdegnoso rigetto di questo tema da parte dei partiti socialdemocratici e comunisti, anzi, la loro resistenza ai tentativi di una maggiore democratizzazione politica interna, fece sì che l’alienazione popolare dall’amministrazione burocratica e dalla rappresentanza surrogata fosse lasciata peggiorare e questo contribuì ad aprire la strada al populismo di mercato sia orientale che occidentale. Tuttavia, man mano che si accumulano le prove che i mercati sono essi stessi pieni di discriminazione e potere, i limiti del populismo di mercato offrono nuove opportunità per ricostruire la politica socialista.

Nel cercare tali opportunità sarà importante non far rivivere nuove versioni della vecchia tesi del crollo, in base alla quale le aspettative di gravi crisi capitaliste sono fatte per svolgere il duro lavoro della strategia e della lotta socialista. Naturalmente, le crisi economiche di maggiore o minore gravità che si profilano all’orizzonte offriranno alla sinistra l’opportunità di sviluppare nuove forme e strategie che migliorino qualitativamente le sue capacità. Dalla lunga crisi del 1873 al 1896 emersero i partiti e i sindacati della classe operaia europea; nel corso della Grande Depressione degli anni ’30, furono lanciati i modelli di sindacalismo industriale in Nord America e di governo socialdemocratico in Scandinavia; ed è stato durante le rinnovate crisi economiche degli anni ’70 e ’80 che si sono sviluppati i nuovi movimenti sociali. Ma dobbiamo anche tenere a mente che è attraverso le crisi che il capitalismo storicamente ha avuto la tendenza a recuperare il suo dinamismo; dove e quando non è in grado di farlo, e dove non esistono alternative socialiste praticabili o almeno qualche mezzo di difesa democratica, le conseguenze sono sempre spaventose.

Questa trattazione di tutti questi temi è parziale in quanto è intrapresa principalmente dalla prospettiva della particolare situazione della sinistra nei paesi capitalisti avanzati. E va detto subito che sono proprio i limiti di questa esperienza, come ogni altra cosa, a rafforzare la necessità di un rinnovato internazionalismo. L’importanza di questo aspetto deve essere sottolineata, non da ultimo in relazione alla creazione di una coesione strategica per resistere all’agenda neoliberista e allo sviluppo di mezzi internazionali per il controllo del capitale. Va notato, tuttavia, che l’attenzione internazionalista della sinistra oggi è a volte purtroppo avanzata a scapito della derisione o almeno della rinuncia alle lotte che rimangono così necessarie a livello di stato-nazione, e in effetti a livello subnazionale. Questa è una falsa polarizzazione delle strategie, anche perché anche un capitalismo che è completamente esteso nella sua portata globale fa ancora affidamento sugli stati nazione più che su qualsiasi altra struttura per la sua conservazione e riproduzione. Inoltre, gli interventi politici progressisti in ​​relazione alle istituzioni e alle questioni internazionali devono ancora essere effettuati e continueranno ad essere effettuati nel prossimo futuro, principalmente tramite i rappresentanti degli Stati nazionali. Mettere da parte il pensiero su come rinnovare la lotta per il socialismo a livello nazionale, in nome di un socialismo globale che corrisponda a un capitalismo globale, è mero romanticismo.

Quella che è particolarmente richiesta da un nuovo internazionalismo è la condivisione di esperienze sulla difficoltà di trasformare lo stato locale e nazionale anche quando entrano in carica governi radicali. Ciò è estremamente necessario se si vuole che emergano nuovi movimenti socialisti, nel Sud come nel Nord, che siano finalmente in grado di cambiare gli apparati amministrativi in ​​modo che diventino rappresentativi, responsabili e orientati a fornire i mezzi e le risorse per il processo decisionale popolare e l’allocazione delle risorse compatibili con la pianificazione democratica per i problemi sociali comuni. Il rinnovato progetto socialista non deve riguardare più stato contro meno stato, ma un diverso tipo di stato. Le due principali espressioni istituzionali del progetto socialista nel ventesimo secolo arrivarono a fare affidamento sullo stato burocratico come strumento di allocazione, regolazione e coercizione a tal punto che lo scopo principale del socialismo, lo sviluppo della capacità popolare di auto-determinazione collettiva, è stato indebolito piuttosto che accresciuto. Ma è importante riconoscere che il problema non è facilmente risolvibile con tecniche di democrazia diretta come i referendum (tanto meno sarà risolto con la sola rappresentanza proporzionale, come molti a sinistra talvolta implicano oggi). Un populismo di sinistra che fa finta che le persone sappiano intrinsecamente cosa fare ignora la passività e la deferenza che generano vite di esclusione e atomizzazione. Piuttosto che presumere che le comunità di cittadini attivi e informati attendono di essere chiamate dal basso, il primo compito di un socialismo democratico, nel rifare lo Stato, non meno che nella costruzione del movimento, è facilitare attivamente la creazione di capacità democratiche. Questa deve iniziare con la promozione della capacità degli individui isolati di scoprire bisogni e interessi comuni con gli altri in vari diversi aspetti della loro vita, e quindi incoraggiare la formazione di identità e associazioni collettive e lo sviluppo dei mezzi e delle risorse istituzionali per determinare collettivamente come il loro bisogni e interessi potrebbero essere soddisfatti. La promessa del socialismo è precisamente quella di liberare capacità umane creative attraverso una “democrazia evolutiva”, per usare il termine appropriato di CB Macpherson, che il capitalismo e lo stato soffocano. Ciò che è necessario ora è l’emergere di espressioni istituzionali della politica socialista che mettano al centro l’immenso compito di scoprire forme di rappresentanza e amministrazione pubblica che siano evolutive in questo senso.

I socialisti di oggi non possono farsi illusioni sulla velocità con cui possono essere in grado di realizzare un progresso davvero significativo nel raggiungimento dei loro obiettivi. I modelli di avanzamento varieranno notevolmente da un paese all’altro; e ci saranno battute d’arresto oltre che vittorie. Ma l’oscurità in cui tanta parte della sinistra è stata immersa negli ultimi anni è molto miope. Perché ovunque si guardi, c’è fermento, con vertenze espresse, rivendicazioni fatte, diritti affermati. Alcuni di essi assumono forme profondamente malsane; ma in buona parte è progressista e parla sempre più un linguaggio anticapitalista che è ben in sintonia con le aspirazioni socialiste. A dire il vero, le difficoltà legate allo sviluppo di nuove istituzioni e pratiche socialiste non devono essere sottovalutate. La nuova generazione di socialisti che giunse alla maturità nei paesi capitalisti avanzati negli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 non furono in grado nel quarto di secolo successivo di forgiare nuovi strumenti politici di portata e rilevanza comparabili ai vecchi sclerotici i cui errori spesso individuavano così acutamente e criticavano così spietatamente. Ma un quarto di secolo è, storicamente parlando, un breve periodo di tempo; paragonatelo al mezzo secolo che separò la sconfitta del cartismo e le rivoluzioni del 1848 dall’ascesa del nuovo sindacalismo di massa e dei partiti socialisti verso la fine del diciannovesimo secolo. Inoltre, l’instabilità, per non parlare dei costi sociali, dell’attuale frenesia globale del capitale renderà il conferimento di un potere così massiccio a un dominio privato intrinsecamente antidemocratico, piuttosto che a un dominio pubblico potenzialmente democratico, sempre più saliente come questione politica. Il socialismo democratico non è mai stato inevitabile, ma resta certamente storicamente rilevante.

In ogni caso, dovremmo almeno cercare di non confondere la nostra mortalità con la questione della realizzazione del socialismo. La sottovalutazione di Marx della longevità del capitalismo non è che il primo di molti errori che si basano su questo errore comprensibile ma sfortunato. Molte delle persone di sinistra che oggi si sentono abbattute e prendono sul serio il discorso sulla morte del socialismo, stanno solo riconoscendo che la loro morte verrà probabilmente prima del socialismo. Ma il socialismo non ha bisogno di entrare nelle nostre vite per essere politicamente rilevanti come socialisti. Il punto della politica socialista riguarda le persone comuni che si sviluppano attraverso il processo di coinvolgimento nella vita politica. La prima domanda che un socialista dovrebbe porsi è se le istituzioni politiche esistenti servono un quadro per farlo piuttosto che reprimerlo. Finché riusciamo a raccogliere la creatività strategica e l’immaginazione per sviluppare istituzioni politiche alternative che saranno di fatto evolutive, stiamo contribuendo a rendere possibile il socialismo. Il fatto che altri intellettuali socialisti siano giunti a questa conclusione alla fine del ventesimo secolo è un piccolo, anche se incoraggiante, segno che un’era di rinnovamento socialista potrebbe essere all’orizzonte.4

È il compito di indurre le persone a pensare ancora una volta in modo ambizioso, questa è la sfida immediata che deve affrontare oggi la sinistra. Per trascendere un debilitante pessimismo politico per far sì che “l’uomo sconfitto provi di nuovo il mondo”, come disse Ernst Bloch nei giorni più bui dell’avanzata del fascismo, sarà necessario riaccendere l’immaginazione socialista attraverso una rinascita del pensiero utopico. Ciò significa non abbandonare il marxismo, ma piuttosto rilanciare quello che Bloch chiamava la suo visionaria “corrente calda” accanto alla “corrente fredda” dell’economia politica; 5 e forse anche aggiungere un nuovo strato alla teoria marxista per aiutare i socialisti a comprendere che oltre ad analizzare l’accumulazione di capitale dobbiamo capire come favorire l’accumulazione di capacità.

Possiamo vedere attraverso le crepe nell’edificio che le precedenti generazioni di socialisti hanno cercato di costruire: “è così che entra la luce”. Possiamo fare “un nuovo inizio” con ogni nuovo respiro. Attraverso il rinnovamento socialista sarà possibile allo “spirito di rivoluzione” rifiorire. Ciò che resta da vedere, ovviamente, è se finalmente possiamo “farlo bene”.

Note

1) Hannah Arendt, On Revolution (New York: Viking, 1965), 28.

2) Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (New York: International Publishers. 1963), 17.

3) Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, 5a ed. (London: Allen & Unwin, 1976), 3. Pubblicato originariamente nel 1943.

4) In contrasto con il “rinnovamento della socialdemocrazia” intellettualmente pigro e poco ispirato previsto da Anthony Giddens in The Third Way (Cambridge, UK: Polity, 1998) o le tre deludenti “utopie reali” discusse a lungo nel capitolo conclusivo di questo libro, penso in particolare a Return of Radicalism: Reshaping the Left Institutions (London: Pluto, 2000) di Boris Kagarlitsky;  Spaces of Hope (Berkeley: Universitv of Califomia Press, 2000) di David Harvey; e Whose Millennium? Theirs or Ours? (New York: Monthly Review Press, 1999) del compianto Daniel Singer, che ha fatto così tanto per provare a mantenere vivo lo spirito della rivoluzione durante il decennio oscuro per la sinistra che ha chiuso il ventesimo secolo.

5) Ernst Bloch, The Principle of Hope, translated by N. Plaice, S. Plaice, and P. Knight (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1986), 148.

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