La proposta del cosiddetto reddito di cittadinanza mi è sempre apparsa sacrosanta, naturale. Non mi hanno mai convinto la contrarietà e i tabù lavoristi assai diffusi nella sinistra più o meno radicale o dei sindacalisti (Landini dal palco del 16 ottobre ha fatto proprio finalmente il reddito di cittadinanza e la svolta Fiom pare non episodica a giudicare dal dibattito con Gallino su Micromega o dal recente meeting di Marghera). Ricordo che nel 1999 fummo noi pescaresi, e la federazione di Venezia, a proporre per la prima volta in un congresso nazionale di Rifondazione un documento che proponeva di introdurre nella piattaforma programmatica il reddito di cittadinanza/salario sociale (non sono la stessa cosa ma comunque si tratta di un’erogazione di reddito sganciata dal lavoro). Apriti cielo! Intervenne un compagno della commissione politica, oggi emigrato in SEL, che giunse a dire che si trattava di una proposta che andava nientedimeno contro l’articolo 1 della Costituzione. La proposta fu bocciata, anche se pochi mesi dopo Bertinotti intervenne in direzione proponendo di lanciare la parola del salario sociale e tutti votarono a favore (miracoli del conformismo!). In Italia si è soliti associare la proposta di reddito di cittadinanza con il pensiero neo-post-operaista (Negri, Virno, Bifo, Fumagalli, ecc.) che ho sempre apprezzato e frequentato a partire dagli anni ’80. Certo è stata quest’area, soprattutto attraverso l’esperienza dei centri sociali, a tenere alta per tanti anni la bandiera del reddito x tutti come rivendicazione strategica, ma non bisogna certo essere negriani per sostenere l’introduzione di qualche forma di basic income! Un sociologo non certo di tradizione autonoma come Luciano Gallino lo ha rilanciato con forza usando la definizione di reddito base sulle colonne di Repubblica qualche tempo fa. Ho la sensazione che forse sono diventato un lettore accanito dei libri di Toni Negri perchè ogni volta che discutevo con qualcuno di reddito era quasi inevitabile che la proposta venisse liquidata come una trovata negriana e via discorrendo. Il risultato di questa tendenza della sinistra italiana a trasformare tutto in dibattito ideologico (e forse anche dell’antipatia per Toni Negri)  è che l’Italia ha un sistema di welfare tra i più arretrati d’Europa.
A me l’idea, dicevo, è sempre apparsa buona e talmente sensata che avevo la sensazione di averla sempre coltivata quasi fosse innata nel mio cervello. Riflettendoci su mi è tornata alla mente una lettura assai cara delle scuole medie, un libro che letteralmente consumai da ragazzino nella biblioteca di quartiere, “Avere o essere” di Erich Fromm, pubblicato negli States nel 1976 e l’anno dopo in edizione italiana. Ricordo che il libro di Fromm mi entusiasmò e che da qualche parte appuntai “questa è la terza via!” (mi riferivo a quella di Ingrao non a quella anni ’90 di Blair). All’epoca Fromm era un autentico bestseller (oggi mi sembra dimenticato) ma per i militanti comunisti di nuova e vecchia sinistra era troppo “ciellino” con il suo umanesimo socialista, come mi disse un compagno universitario della FGCI suscitando in me non poca delusione. Probabilmente sul povero Fromm pesava quella specie di idiosincrasia per i buoni sentimenti tipica dei leninismi e operaismi piuttosto diffusi negli anni ’70. Eppure l’umanesimo socialista non era stato proprio una fesseria dopo il 1956: “The Hungarian Revolution of 1956 transformed Marx’s humanism from an academic debate to a question of life and death”. Fu un tentativo di creare uno spazio per un marxismo oltre le barriere della guerra fredda tra intellettuali dell’est e dell’ovest e intendeva rappresentare un’alternativa allo stalinismo. Va ricordato che in quell’area si collocavano personaggi come lo storico E.P.Thompson, Ernst Bloch, Maximilien Rubel, Herbert Marcuse, ecc. E andrebbe approfondito il rapporto tra Fromm e Raya Dunayevskaya della Johnson-Forrest tendency, antesignana dell’autonomist marxism.Â
L’idea del reddito garantito l’avevo poi trovata echeggiare anche in un intervento di Abbie Hoffman in un vecchio libro Laterza “Strategia del potere nero” del 1968 (gli yippies anticipavano di un decennio anche in questo il ’77 italiano di indiani metropolitani e autonomi). Successivamente ho scoperto che si trattava di questione molto dibattuta nell’America dei sixties e non solo a livello underground. Il dibattito che da noi si è sviluppato a partire dagli anni ’90 su reddito garantito e/o “fine del lavoro” (tesi che non mi ha mai convinto) negli States coinvolgeva negli anni ’60 accademici e sindacalisti, non solo il movement e l’SDS (una ricostruzione critica la offre George Caffentzis in un saggio sui Grundrisse di Marx uscito di recente anche in Italia). L’alfiere del reddito garantito si chiamava Robert Theobald e giocava un suo ruolo il celebre “frammento sulle macchine” dai Grundrisse di Marx, caro in quegli anni a Marcuse e ai Quaderni Rossi. Per un pugno di voti una proposta di legge non fu approvata dal Congresso americano alla fine dei sixties.
estratto da AVERE O ESSERE (1976)
” (…) Le utopie tecnologiche, come a esempio il volo, sono state rese possibili dalla nuova scienza della natura. L’utopia umana dei Tempi Messianici, quella di una nuova umanità unita, vivente nella solidarietà e nella pace, libera da determinismi economici, dalla guerra e dalla lotta di classe, può essere realizzata a patto che allo scopo della sua realizzazione noi dedichiamo la stessa energia, intelligenza ed entusiasmo che abbiamo spesi nella realizzazione delle nostre utopie tecnologiche.
(…) Molti dei mali delle attuali società capitalistiche e comuniste scompariranno con l’introduzione di un reddito minimo annuo garantito.
Il nocciolo di quest’idea è che tutte le persone, che lavorino o meno, devono godere dell’incondizionato diritto a non morire di fame e ad avere un ricovero. Non dovranno ricevere più di quanto sia indispensabile per mantenersi, ma non dovranno neppure ricevere di meno. E’ un diritto che risponde a una concezione nuova oggi, benché si tratti di una antichissima norma di cui si è fatto paladino il cristianesimo, e che era messa in pratica in molte tribù «primitive», quello secondo cui gli esseri umani hanno un “incondizionato diritto a vivere, indipendentemente dal fatto che compiano o meno il loro «dovere verso la società »”.
E’ un diritto che concediamo ai nostri animali domestici, non però ai nostri simili.
Una prescrizione del genere avrà per effetto di dilatare enormemente l’ambito della libertà personale; nessuno che sia economicamente dipendente da altri (da un genitore, da un marito, da un capo) sarebbe più sottoposto al ricatto di venir lasciato morire di fame; individui dotati, che vogliono cominciare una nuova vita, potrebbero farlo a patto che siano disposti a sobbarcarsi al sacrificio di vivere, per un certo periodo, in relativa povertà .
I moderni stati assistenziali hanno quasi accettato questo principio: dove quel «quasi» significa «non effettivamente»: infatti, una burocrazia continua ad «amministrare» la popolazione, controllandola e umiliandola. Invece, per avere il reddito minimo garantito non occorrerebbe che nessuno fornisca la «prova» di trovarsi in condizioni di indigenza per ottenere una semplice stanza e un po’ di cibo; sicché, non sarebbe necessaria alcuna burocrazia che amministri un programma assistenziale con gli sprechi e le violazioni della dignità umana che gli ineriscono.
Il reddito annuo minimo garantito assicurerebbe reale libertà e indipendenza; per tale motivo, esso è inaccettabile per ogni sistema basato sullo sfruttamento e il controllo, soprattutto per le varie forme di dittatura.
E’ caratteristico del sistema sovietico che sistematicamente siano stati e continuino a essere respinti anche semplici accenni alla possibilità di fornire gratuitamente beni o servizi assolutamente elementari, come a esempio trasporti o latte gratuiti. L’unica eccezione è costituita dal servizio medico, ma anche quest’eccezione è tale solo in apparenza, perché la concessione del servizio risponde a una precisa condizione, e cioè che chi ne usufruisce sia malato.
Tenendo presente l’attuale costo del mantenimento di una vasta burocrazia assistenziale, nonché quello richiesto per il trattamento di malattie corporee, soprattutto psicosomatiche, oltre che per opporsi alla criminalità e per combattere la diffusione delle droghe (si tratta, in tutti e tre i casi, in larga misura di forme di protesta contro la coercizione e la noia), sembra lecito supporre che la spesa necessaria ad assicurare a chiunque lo desideri un minimo annuo garantito, sarebbe inferiore a quella richiesta dal nostro attuale sistema di assistenza sociale.
Si tratta di un’idea che apparirà senza dubbio inattuabile o pericolosa a coloro i quali ritengono che «gli uomini sono sostanzialmente pigri per natura». Ma è questo un “cliché” che non si basa sui fatti: è un semplice slogan che funge da razionalizzazione della riluttanza a rinunciare al sentimento di potere nei confronti di coloro che non ne hanno affatto. (…)”
potete scaricare il libro
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Le implicazioni psicologiche del reddito minimo garantitoÂ
di Erich Fromm
Tratto da “La disobbedienza e altri saggi†ed. Mondadori 1982,
il seguente saggio [«The Psychological Aspects of the Guaranteed Income»]
è stato pubblicato per la prima volta in R. Theobald, The Guaranteed Income, Doubleday & Co., New York 1966.
Il presente scritto prende in esame esclusivamente le implicazioni psicologiche del reddito minimo garantito, le sue valenze, i suoi rischi, i problemi umani che fa sorgere. La considerazione più importante a favore dell’accettazione del concetto, è che tale reddito può aumentare in maniera cospicua la libertà dell’individuo [Si veda quanto da me esposto a proposito di una « sussistenza universale garantita » in The Sane Society, cit. pagg. 355 sgg. (trad. it. cit.)]. Finora, nel corso della storia la libertà dell’uomo e stata limitata da due fattori: l’uso della forza da parte dei governanti (essenzialmente, la loro capacità di sopprimere i dissenzienti) e, più importante ancora, la minaccia dell’inedia che ha pesato su coloro i quali fossero riluttanti ad accettare le condizioni di lavoro e di esistenza sociale loro imposte. Chiunque non fosse propenso a inchinarsi a esse, anche qualora nessun altro tipo di coercizione venisse usata nei suoi riguardi era posto di fronte al pericolo di morir di fame. Il principio che ha avuto prevalentemente corso durante gran parte della storia umana, oggi come nel passato, nel sistema capitalistico come nell’Unione Sovietica, è stato ed è: « Chi non lavora non mangia ». Minaccia che ha obbligato l’uomo, non soltanto ad agire in conformità a quanto gli veniva richiesto, ma anche a pensare e a sentire in maniera tale da non essere tentato di agire diversamente. Che la storia passata si sia basata sul principio della minaccia di morte per inedia, in ultima analisi ha radici nel fatto che, eccezion fatta per certe tribù primitive, l’uomo è vissuto finora a un livello di penuria economica e psicologica. Non ci sono mai stati beni materiali sufficienti a soddisfare i bisogni di tutti, e di solito è accaduto che un sparuto gruppo di « dirigenti » si sia impossessato di tutto ciò che il loro cuore desiderava, e i molti che non potevano sedersi a tavola si sentivano dire che era legge di Dio della Natura che così dovesse essere. Va tuttavia sottolineato che il fattore principale di tale situazione non va visto nella brama dei « dirigenti », bensì nel basso livello della produttività materiale. Un reddito minimo garantito, che diviene possibile nell’era dell’abbondanza economica, permetterebbe finalmente di liberare l’uomo dalla minaccia della morte per fame, rendendolo così davvero libero e indipendente dal ricatto economico. Nessuno si troverebbe costretto ad accettare condizioni di lavoro soltanto perché altrimenti correrebbe il rischio di essere ridotto alla fame, e un uomo o una donna di talento o ambiziosi potrebbero imparare nuove discipline, preparandosi a una professione di tipo nuovo. Una donna potrebbe lasciare il marito, un adolescente la famiglia. La gente potrebbe imparare a non avere più paura, dal momento che non deve più temere la fame. (Ciò vale, beninteso, soltanto a patto che nessuna minaccia politica gravi più sulla libertà di pensiero, parola e di azione.) Il reddito minimo garantito, non soltanto farebbe della libertà una realtà anziché un mero slogan, ma costituirebbe l’attuazione di un principio profondamente radicato nella tradizione religiosa e umanistica dell’Occidente, che suona: l’uomo ha comunque il diritto di vivere! Tale diritto di vivere, di disporre di cibo, ricovero, assistenza sanitaria, istruzione, eccetera, è intrinseco all’essere umano e non può venire limitato per nessun motivo, neppure la pretesa che l’uomo debba essere socialmente « utile ». La transizione da una psicologia della scarsità a quella dell’abbondanza rappresenta uno dei passi di maggior momento nello sviluppo dell’uomo. Una psicologia della scarsità produce ansia, invidia, egoismo (e lo si costata, con la massima evidenza, nelle culture agricole di ogni parte del mondo). Una psicologia dell’abbondanza produce iniziativa, fede nell’esistenza, solidarietà . Il fatto è che la maggior parte degli esseri umani sono ancora psicologicamente orientati secondo realtà economiche proprie alla scarsità , e ciò mentre il mondo industriale è sul punto di entrare nell’era dell’abbondanza economica. Ma proprio a causa di questo « ritardo » psicologico avviene che molti non riescano neppure a capire nuove idee come quelle implicite nel concetto del reddito minimo garantito, e ciò perché le idee tradizionali sono di norma promosse da sentimenti che hanno origine in precedenti forme di esistenza sociale. Un’altra conseguenza del reddito minimo garantito, unito a una drastica diminuzione degli orari di lavoro, sarebbe che i problemi spirituali e religiosi dell’esistenza acquisterebbero imperativa cogenza. Finora l’uomo è stato troppo preso dal lavoro (oppure si è trovato a essere troppo stanco al temine del lavoro) per potersi seriamente occupare di problemi come: « Qual’è il significato della vita? », « In che cosa crediamo? », « Quali sono i miei valori? », « Chi sono io? », e simili. Se l’essere umano cessasse dall’essere preso soprattutto dal lavoro, sarebbe libero di affrontare seriamente tali problemi, oppure si troverebbe ridotto sull’orlo della follia dalla noia, compensata o meno. Da questo dovrebbe conseguire che l’abbondanza economica e la liberazione dalla paura di essere ridotti alla fame segnerebbero il trapasso da una società pre-umana a una davvero umana. A controbilanciare il quadro, è indispensabile esaminare le possibili obiezioni, ovvero sollevare qualche interrogativo circa il concetto di reddito minimo garantito; e il più ovvio di essi è se il reddito in questione non ridurrebbe gli incentivi al lavoro. A parte il fatto che già oggi non c’è lavoro per una parte sempre crescente della popolazione, e che dunque il problema degli incentivi per questa parte dei cittadini è irrilevante, resta però che l’obiezione è di notevole momento. D’altro canto, io ritengo che si possa comprovare che l’incentivo materiale non è affatto l’unico al lavoro e allo sforzo. In primo luogo, di incentivi ce ne sono anche altri: orgoglio, riconoscimento sociale, piacere del lavoro in sé, e via dicendo, né mancano certo gli esempi che lo dimostrano. Il più ovvio é costituito dall’opera di scienziati, artisti e simili, le cui più alte realizzazioni non sono mai state promosse dall’incentivo del profitto economico, bensì da una mescolanza di diversi fattori: in primo luogo, l’interesse per il lavoro che stavano compiendo, nonché l’orgoglio per i risultati oppure il desiderio di gloria. Ma, per ovvio che possa sembrare quest’esempio, esso non appare del tutto convincente dal momento che si può affermare che si tratta di persone fuori dal comune le quali hanno potuto realizzare cose straordinarie proprio perché straordinariamente dotate, e dunque non costituiscono la riprova delle reazioni dell’individuo medio. L’obiezione però perde validità se prendiamo in considerazione gli incentivi alle attività di persone che non partecipano delle qualità eccezionali dei grandi creatori. Quali sforzi infatti non vengono compiuti in campo sportivo come in quello di tutta una serie di hobby, dove non si hanno incentivi materiali di nessun genere! E fino a che punto l’interesse per il processo lavorativo in sé e per sé possa costituire un incentivo a compierlo, è stato dimostrato per la prima volta dal professor Mayo nel suo classico studio compiuto presso le officine Hawthorne di Chicago della Western Electric Company [Si veda Elton Mayo, The Human Problem of an Industrial Civilization, The Macmillan Co., NY 1946. Trad. it. I problemi umani e socio-politici della civiltà industriale, UTET, Torino 1969]. Il fatto stesso che operaie non specializzate fossero coinvolte nell’esperimento di produttività lavorativa di cui erano i soggetti, e che concepissero interesse per l’esperimento stesso, divenendone attive partecipanti, ha comportato un incremento della produttività e persino un miglioramento delle loro condizioni di salute fisica. La risposta diviene ancora più inequivocabile se prendiamo in considerazione forme più antiche di società . Erano celebri l’efficienza e l’incorruttibilità dell’amministrazione civile prussiana tradizionale, nonostante che i compensi finanziari fossero assai limitati; nel caso specifico, le motivazioni determinanti la capacità lavorativa erano costituite da concetti come onore, lealtà , dovere. E se prendiamo in considerazione le società preindustriali, come quella europea medioevale, o quelle semifeudali dell’America Latina agli inizi del nostro secolo, acquista evidenza un altro fattore ancora; in esse un falegname, per fare un esempio aspirava a guadagnare quanto gli bastava per soddisfare i bisogni del suo tradizionale livello di vita, rifiutandosi di lavorare di più per guadagnare più di quanto gli occorresse. In secondo luogo, è innegabile che l’uomo per sua natura, lungi dall’essere pigro, soffre anzi delle conseguenze dell’inattività . Può darsi che si preferisca non lavorare per uno o due mesi, ma la stragrande maggioranza implorerebbe di lavorare, anche senza essere pagata. È una situazione che é ampiamente comprovata dai dati relativi allo sviluppo infantile e alle malattie mentali; occorrerebbe un’indagine sistematica che permetta di ordinare e analizzare i dati in questione sotto il profilo dell’«ozio come malattia», mentre altri dati dovrebbero essere raccolti nel corso di nuove e puntuali ricerche. Tuttavia, perché il denaro non costituisca l’incentivo principale, il lavoro nei suoi aspetti tecnici e sociali dovrebbe essere abbastanza attraente e interessante da superare gli aspetti negativi dell’inattività . L’uomo moderno, alienato, è profondamente annoiato (per lo più a livello inconscio), e ne consegue un’aspirazione all’ozio anziché all’attività , aspirazione che però di per sé costituisce un sintomo della nostra « patologia della normalità ». È presumibile che gli abusi del reddito minimo garantito scomparirebbero in breve tempo, esattamente come dopo poche settimane, ammettendo che non si debba pagarli, la gente smetterebbe di fare indigestione di dolci. Un’altra obiezione suona: è proprio vero che la scomparsa della paura di essere ridotti alla fame renderebbe gli esseri umani assai più liberi, considerato che coloro i quali si guadagnano da vivere in maniera confortevole sono probabilmente altrettanto timorosi di perdere un’occupazione, che assicura loro, diciamo, 15.000 dollari l’anno, di coloro che sarebbero ridotti alla fame se perdessero il posto di lavoro? Se quest’obiezione fosse valida, ne conseguirebbe che il reddito minimo garantito aumenterebbe la libertà della grande maggioranza, non però quella delle classi medie e superiori. Per valutare appieno l’obiezione, dobbiamo prendere in esame lo spirito che caratterizza l’attuale società industriale. L’uomo si è trasformato in homo consumens. È vorace, passivo, tenta di compensare il proprio vuoto interiore appunto con consumi continui e sempre crescenti, e molti sono gli esempi clinici di questo meccanismo, costituiti da casi di bulimia, coazione all’acquisto, alcolismo, come reazione alla depressione e all’ansia. L’homo consumens consuma sigarette, liquori, sesso, pellicole cinematografiche, viaggi, e lo stesso fa con istruzione, libri, conferenze, arte. L’uomo appare attivo, « eccitato », ma nel profondo è ansioso, solitario, depresso, annoiato (la noia può venire definita come quella forma di depressione cronica che può essere validamente compensata dal consumo). L’industrialismo del XX secolo ha dato vita al nuovo tipo psicologico dell’homo consumens soprattutto per ragioni economiche, cioè la necessità di consumi di massa stimolati e manipolati dalla pubblicità . Ma il tipo caratteriale, una volta creato, a sua volta influenza l’economia e fa sì che i principi della sempre crescente soddisfazione appaiano razionali e realistici. [Il problema è complicato dal fatto che almeno il 20% della popolazione degli Stati Uniti vive a un livello di penuria, come del resto accade ad alcune zone d’Europa, soprattutto i paesi socialisti che non hanno ancora raggiunto un livello di vita soddisfacente, e dal fatto che la maggior parte dell’umanità , che vive in America Latina, in Asia e in Africa, continua a sussistere a un livello poco meno che di fame. Ogni argomentazione a favore della diminuzione dei consumi urta contro l’obiezione che in gran parte del mondo sono necessari anzi maggiori consumi. È un’obiezione assolutamente incontrovertibile, e tuttavia sussiste il pericolo che persino nei paesi attualmente poveri l’ideale del massimo consumo ne guidi gli sforzi, ne plasmi lo spirito, e pertanto sia destinato ad imporsi anche una volta raggiunto il livello ottimale (non massimo)] L’uomo contemporaneo ha un appetito illimitato per consumi sempre maggiori, e ne deriva tutta una serie di conseguenze: se non c’è limite alla brama di consumo, e dal momento che nel prevedibile futuro nessuna economia é in grado di produrre abbastanza per assicurare a chiunque consumi illimitati, mai potrà esserci vera « abbondanza » (in senso psicologico) finché la struttura caratteriale dell’homo consumens permanga dominante. Per l’individuo avido esiste sempre scarsità , dal momento che egli non ha mai abbastanza, quali che siano i beni di cui dispone, e oltretutto è invidioso e competitivo nei confronti di chiunque altro, e pertanto è sostanzialmente isolato e spaventato. Non è in grado di godere davvero dell’arte o di altri stimoli culturali, perché permane mentalmente vorace, e ciò significa che coloro vivessero al livello del reddito minimo garantito si sentirebbero frustrati e privi di valore, mentre coloro che guadagnassero di più resterebbero prigionieri delle circostanze perché sarebbero preda del timore di perdere la possibilità di un massimo di consumo. Per tali motivi, ritengo che il reddito minimo garantito che non si accompagni a un distacco dal principio del consumo massimo, potrebbe costituire la risposta soltanto a certi problemi economici e sociali, senza però avere l’effetto radicale che si dovrebbe aspettarsene. Che cosa dunque andrebbe fatto per introdurre il reddito minimo garantito? In via generale, si dovrebbe mutare il nostro sistema, passando da un consumo massimo a un consumo ottimale. Questo comporterebbe una trasformazione di ampio momento dalla produzione industriale, che dovrebbe passare dalla fornitura di beni di uso individuale alla fornitura di beni di uso pubblico, come scuole, teatri, biblioteche, parchi, ospedali, trasporti pubblici, edifici d’abitazione; in altre parole, l’accento dovrebbe spostarsi sulla produzione di quelle cose che costituiscono la base per il pieno sviluppo della produttività e attività interiore del singolo. È dimostrabile che la voracità dell’homo consumens riguarda soprattutto il consumo individuale di cose che egli « mangia » (incorpora), mentre l’uso di servizi pubblici gratuiti, che permettono all’individuo di godere la vita, non determinano né brama né voracità . Un simile passaggio dal consumo massimo all’ottimale richiederebbe drastici mutamenti dei modelli produttivi, nonché una drastica riduzione delle tecniche pubblicitarie che aguzzano l’appetito, lavano il cervello, eccetera [La necessità di porre limiti alla pubblicità , e più ancora di avviare la produzione verso una maggior fornitura di servizi pubblici, a mio giudizio è difficilmente concepibile senza interventi statali di vasta entità .]. Ed esso dovrebbe anche accompagnarsi a un non drastico mutamento culturale: una rinascita del valore umanistico della vita, della produttività , dell’individualismo e via dicendo, contrapposto al materialismo dell’« uomo dell’organizzazione » e dei suoi manipolati formicai. Sono considerazioni, queste, che comportano altri problemi da prendere a loro volta in esame: esistono criteri obiettivamente validi per distinguere tra bisogni razionali e irrazionali, tra bisogni buoni e cattivi, oppure qualsiasi bisogno soggettivamente avvertito ha identico valore? (Nel caso specifico, definiamo « buoni » quei bisogni che promuovono la vitalità , la prontezza, la produttività , la sensibilità umana, e « cattivi » quelli che indeboliscono o paralizzano tali potenzialità .) Non va dimenticato che, nel caso della tossicomania, della bulimia, dell’alcolismo, tutti facciamo distinzioni del genere; lo studio di tali problemi porterebbe dunque a porsi le seguenti domande d’ordine pratico: quali sono i bisogni minimi, legittimi, di un individuo? (Per esempio: una o più stanze per persona, quanti abiti, quante calorie, quanti beni culturalmente validi come radio, libri, eccetera.) In una società di relativa abbondanza come quella degli odierni Stati Uniti, non dovrebbe essere difficile stabilire il costo di un minimo decente di sussistenza, determinando anche quali dovrebbero essere i limiti del consumo massimo. Si potrebbe per esempio prendere in considerazione l’applicazione di imposte progressive su consumi che eccedano una certa soglia. Mi sembra comunque indispensabile che si tolgano di mezzo le condizioni di vita proprie degli slum, e tutto questo comporterebbe la combinazione dei principi di un reddito minimo garantito e della trasformazione della nostra società , nel senso di una transizione dal consumo individuale massimo al consumo individuale ottimale, e quindi un netto passaggio dalla produzione intesa alla soddisfazione di bisogni individuali a quella volta alla soddisfazione di bisogni collettivi. Ritengo necessario legare all’idea di reddito minimo garantito un’altra che deve essere del pari oggetto di studio: quella di libero consumo di certi prodotti. Un esempio potrebbe essere costituito dal pane oppure dal latte e dalle verdure. Supponiamo, per il momento, che chiunque possa entrare in una panetteria e prendere tutto il pane che vuole (lo Stato pagherebbe al fornaio tutto il pane prodotto). Come s’è già detto, i voraci dapprima metterebbero le mani su quantitativi maggiori di quelli che possono consumare, ma in breve tempo questo « consumo avido » si attenuerebbe e la gente prenderebbe soltanto ciò di cui ha realmente bisogno. A mio giudizio, siffatto libero consumo introdurrebbe una nuova dimensione nell’esistenza umana (a meno che non lo si consideri la ripetizione, a un livello assai più alto, del modulo di consumo proprio di certe società primitive). L’uomo sarebbe liberato dal principio del « chi non lavora non mangia ». Persino quest’inizio di libero consumo potrebbe costituire un’esperienza originalissima di libertà . È evidente anche al non economista che lo Stato potrebbe agevolmente provvedere il pane gratuito per tutti, coprendo l’esborso relativo con un’imposta di pari entità ; ma possiamo spingerci un passo più in là , supponendo che non soltanto i bisogni minimi di natura alimentare siano soddisfacibili gratuitamente (pane, latte, verdura, frutta) ma che lo siano anche i bisogni minimi di vestiario (si potrebbe introdurre un sistema tale per cui a ciascuno sarebbero assicurati ogni anno, sempre gratuitamente, diciamo un abito, tre camicie, tre paia di calze, e via dicendo) e che siano gratuiti anche i trasporti, cosa che, ovviamente richiederebbe servizi pubblici assai migliori degli attuali, mentre le vetture private diverrebbero più care. Si potrebbe anche pensare a una soluzione dello stesso genere per il problema della casa: grandi insiemi abitativi, con dormitori comuni per i giovani, stanze separate per i vecchi e per le coppie sposate, dove potrebbe essere ospitato chiunque lo desideri. E questo mi conduce a formulare l’ipotesi che un altro modo per risolvere il problema del reddito minimo garantito potrebbe consistere nel permettere il consumo minimo gratuito di tutti i generi di prima necessità , che non dovrebbero quindi venir pagati in contanti. La produzione dei generi in questione, in una con servizi pubblici assai migliori degli attuali, manterrebbero in funzione la macchina produttiva, come del resto avverrebbe anche con il versamento del reddito minimo garantito. Si potrà obiettare che il metodo da me proposto e più radicale, e quindi meno accettabile, di quello formulato da altri autori, e probabilmente è vero. Non va però dimenticato che, da un lato, il sistema dei servizi minimi gratuiti potrebbe, almeno in via teorica, essere organizzato e inserito nel sistema attuale, e che d’altro canto l’idea di un reddito minimo garantito non riuscirebbe accettabile a molti, non già perché irrealizzabile, ma a causa delle resistenze psicologiche che s’oppongono all’abolizione del principio « chi non lavora non mangia ». Va anche preso in considerazione un altro problema filosofico, politico e psicologico: quello della libertà . La concezione che ne ha l’Occidente si è basata e si basa in larga misura sul principio della disponibilità di accesso alla proprietà e al suo sfruttamento nella misura in cui ciò non minacci altri interessi legittimi; un principio che in effetti e stato minato in varia guisa, nelle società industriali occidentali, dall’imposizione di tasse, le quali costituiscono una forma di espropriazione, e da interventi statali in campo agricolo, commerciale e industriale. In pari tempo, la proprietà privata dei mezzi di produzione viene sempre più largamente sostituita dalla proprietà semipubblica, tipica delle aziende di proporzioni gigantesche. Se è vero che l’applicazione del concetto di reddito minimo garantito implicherebbe ulteriori regolamentazioni statali, va anche tenuto presente che oggi la libertà dell’individuo non consiste tanto nella possibilità di avere e sfruttare proprietà (capitali), quanto in quella di consumare ciò che gli piace. Oggi sono molti coloro i quali nelle restrizioni del consumo illimitato vedono un’interferenza con la loro libertà , sebbene soltanto gli appartenenti alle classi elevate siano effettivamente liberi di scegliere ciò che vogliono. La concorrenza tra diverse marche degli stessi prodotti e tra diversi tipi di merci dà l’illusione di una libertà personale, laddove in effetti l’individuo aspira a ciò che è condizionato a volere [Anche in questo caso la burocratizzazione totalitaria dei consumi nei paesi del blocco sovietico ha rappresentato e rappresenta un argomento a sfavore di qualsiasi regolamentazione dei comsumi.]. È necessario un nuovo approccio al problema della libertà , e soltanto con la trasformazione dell’homo consumens in persona produttiva, attiva, l’essere umano potrà sperimentare la libertà in condizioni di vera indipendenza, e non soltanto sottoforma di un’illimitata scelta di merci. Il principio del reddito minimo garantito può rivelare tutta la propria efficacia soltanto in unione con: 1) un mutamento delle abitudini consumistiche, vale a dire la trasformazione dell’homo consumens in uomo produttivo, attivo (nel senso di Spinoza); 2) la creazione di un nuovo atteggiamento spirituale, quello dell’umanesimo (forme teistiche o atee); 3) una rinascita di veri metodi democratici (per esempio, l’istituzione di una nuova « Camera Bassa» frutto dell’integrazione e della somma delle decisioni formulate da centinaia di migliaia di piccoli gruppi di gente che si conosce, dall’attiva partecipazione alla dirigenza di tutti coloro che lavorano in un’impresa di qualsiasi genere, eccetera). Il pericolo che uno Stato che nutre tutti possa diventare una dea madre dotata di caratteristiche dittatoriali, può essere superato soltanto mediante un incremento simultaneo e cospicuo di procedure democratiche in ogni sfera delle attività sociali. (È un fatto che anche oggi lo Stato è potentissimo, senza che d’altra parte ne derivino i benefici in questione). Per riassumere: in una con ricerche economiche nel campo del reddito minimo garantito, ne vanno intraprese altre, di carattere psicologico, filosofico, religioso, pedagogico. Il grande passo avanti costituito dal reddito minimo garantito potrebbe diventare realtà , a mio giudizio, solo se fosse accompagnato da mutamenti in altri campi. Non va infatti dimenticato che il sistema può essere introdotto soltanto a patto che si smetta di spendere il 10 per cento delle nostre risorse complessive in armamenti economicamente inutili e pericolosi, a patto che si riesca a bloccare la diffusione di violenza insensata mediante aiuti sistematici ai paesi sottosviluppati, e infine se troviamo modo di arrestare l’esplosione demografica. In mancanza di questi mutamenti, nessun programma per il futuro potrà avere successo, perché non ci sarà nessun futuro.
Erich Fromm
The Psychological Aspects of the Guaranteed Income
(1966)
http://www.erich-fromm.de/data/pdf/1966c-e.pdf
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