Il vice-sindaco Camillo D’Angelo si è offeso per la breve dichiarazione del sottoscritto relativa all’arresto del sindaco D’Alfonso.
 Non intendo parlare ora sul caso giudiziario perchè è bene prima avere tutti gli elementi. Quello che emerge, al di là della rilevanza penale dei fatti, è quel quadro di intreccio politica – affari e di gestione spregiudicata del Comune che ci ha costretto per anni a scontrarci ripetutamente con D’Alfonso e che successivamente a non confermare l’alleanza.
D’Angelo può offendersi quanto gli pare. Un dato è certo per chiunque abbia seguito la vita politico-amministrativa: la sinistra pescarese – tranne Rifondazione – per anni ha svolto il ruolo di zerbino di D’Alfonso lasciandoci quasi sempre soli.
Per ora non aggiungo altro perchè nutro rispetto per gli esseri umani quando vivono momenti di difficoltà .
Ma torneremo a parlare del dalfonsismo e dei suoi servi sciocchi.
Vi consiglio la lettura dell’editoriale di gabriele Polo dalla prima pagina del manifesto:
NON SI PUÃ’ FARE
di Gabriele Polo
Nella notte della sinistra, dopo gli scandali di Napoli, Genova e Firenze, sul Pd si abbattono le inchieste di Pescara e Potenza. Avviene mentre l’Abruzzo, in un indicativo trionfo d’astensionismo, passa al Pdl – in elezioni anticipate per un’altra inchiesta, quella che ha cacciato Del Turco (ora rifugiato a destra). Sarà la magistratura a stabilire quanto di vero c’è in tutto questo. Individualmente, ciascuno degli inquisiti è innocente fino a prova contraria. Ma, politicamente, i cittadini la condanna l’hanno già emessa. E potrebbe essere finale.
Al centro delle inchieste, gli appalti per l’estrazione del petrolio in Basilicata: in carcere l’amministratore delegato della Total, indagato un deputato del Pd; e, poi, le commesse per la gestione dei cimiteri in Abruzzo: arrestato insieme ad alcuni imprenditori il sindaco di Pescara, segretario del partito di Veltroni, indagato anche Carlo Toto, patron di AirOne nonché gran commis della nuova Alitalia di Colaninno. Niente male per un partito nato al solo fine di governare e che considera la «buona amministrazione» il centro della politica. Ovvio che Berlusconi se la rida e che Di Pietro diventi la disperata scialuppa di salvataggio di tanti elettori.
Doveva essere un partito leggero (o liquido), il Pd. E si sta dissolvendo (o liquefacendo). Veltroni pensava di poter fare a meno di un progetto generale di società e ha finito per perdere il controllo dei «particolari» che compongono l’agire politico quotidiano. Predicava il ricambio generazionale, la fine degli apparati burocratici a favore della leadership e ha finito col promuovere in Parlamento e nell’apparato centrale una generazione di impreparati ragazzi, mediando poi con i potentati locali e rimanendone ostaggio. Riteneva che la forma fosse il contenuto e sta franando in un inseguimento televisivo dell’apparire senza messaggio. In sintesi, insieme a tutto il gruppo dirigente del Pd, ha perso il controllo della situazione: i suoi terminali locali – quegli amministratori e quelle burocrazie in cui il partito ormai si esaurisce – sono andati avanti per conto proprio, regolandosi come meglio – o peggio – potevano con la realtà circostante, fino al punto di pensare più ai passaggi su giornali e tv che a studiare gli atti amministrativi da firmare. E anche questa leggera incompetenza gioca un ruolo nelle vicende giudiziarie.
Più che il de profundis di una leadership sembra la morte di un’ipotesi. Che non è mai riuscita ad assumere il profilo di un’idea forte, per non dire di un progetto. Perché a monte di questo nuovismo che si sgretola nelle urne, scivola sul petrolio e inciampa in un cimitero c’è l’assenza di una scelta di campo: se non ti contrapponi al mondo degli affari – che da noi sono sempre stati un po’ sporchi e che la crisi insozzerà sempre di più – sono i faccendieri a determinare tutto. Si facciano chiamare imprenditori o politici. O si chiamino Berlusconi, perfetta sintesi della truffaldinità rivendicata e «premiata».
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