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INDAGATO PERCHE’ INDIGNATO? UN ONORE!

fede “Libero fischio in libero stato” (Sandro Pertini)
Ieri alle ore 18,40 in Questura sono stato “edotto di essere persona sottoposta a indagini poichè in data 17/9/2011 in Pescara, si faceva promotore di una riunione in luogo pubblico invitando cittadini e associazioni a ritrovarsi…al fine di contestare l’evento pubblico denominato Miss Gran prix e Mister Italia che lì si teneva omettendo di darne avviso all’Autorità locale di Pubblica sicurezza, violando con la propria condotta il disposto di cui all’art.18 del T.U.L.P.S. (Regio Decreto 18.6.1931 nr.773)”.
Questo eccesso di zelo nell’applicazione del codice non è abituale nella nostra città, ma capisco che il rimbalzo mediatico derivante dalla contestazione di uno dei più rappresentativi esponenti del regime – Emilio Fede – abbia potuto creare qualche nervosismo.
Non considero l’iniziativa della Questura “un atto dovuto” perché nella mia pluridecennale esperienza di militante in questa città non si è soliti procedere con questo zelo.
Faccio comunque notare che trattasi di norma del Regio Decreto 773/1931.
Tengo a precisare che anche volendo non avremmo potuto rispettare i 3 giorni di preavviso previsti dall’art.18 del T.U.L.P.S. perché della partecipazione di Emilio Fede alla manifestazione l’ho saputo solo il giorno precedente a seguito della conferenza stampa del Comune di Pescara che annunciava questa “chiusura in bellezza” dell’estate pescarese.
Inoltre va precisato che noi non abbiamo contestato né impedito lo svolgimento del futile evento ma esplicitamente e precisamente la partecipazione nel ruolo di presidente della giuria (di un concorso di miss) di un indagato per favoreggiamento della prostituzione.
Nutro anche qualche dubbio sull’applicabilità della fattispecie perché noi abbiamo invitato i cittadini che costituivano il pubblico potenziale di un evento che si sarebbe svolto in luogo pubblico e finanziato con denaro pubblico a esprimere il proprio pubblico disappunto.
Personalmente, in ogni caso, resto serenamente in attesa delle determinazioni della Magistratura, mentre nel merito rivendico la sacrosanta e civile protesta nonviolenta a cui hanno partecipato consapevolmente dopo un tam tam spontaneo in rete centinaia di cittadini indignati.
Il sottoscritto è un attivista e un militante e quindi abituato a questo genere di problemi avendo sempre partecipato in prima fila e in prima persona alle lotte sociali.  La nostra protesta è stata un atto di disobbedienza civile di cui mi assumo la piena responsabilità e di cui non penso certo di dovermi vergognare.
Ritengo altresì onorevole essere indagato perché indignato come milioni di italiani che non ne possono più dell’arroganza e della spudoratezza dell’attuale sistema di potere.
Non è il momento di restare a casa a lamentarsi davanti al televisore.
Maurizio Acerbo, consigliere comunale e regionale PRC
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Disobbedienza, la giustizia oltre la legge

di HOWARD ZINN

 un brano di “Disobbedienza e democrazia” di Howard Zinn (il Saggiatore)

 

Vi è un’obiezione diffusa contro la disobbedienza civile che suona così: se approvo il tuo gesto di disobbedienza civile, non mi impongo in questo modo di approvare la disobbedienza civile di chiunque?

Se approvo le violazioni della legge da parte di Martin Luther King non devo anche approvare le attività illegali del Ku Klux Klan?

Questa argomentazione nasce da un’idea sbagliata di disobbedienza civile.

La violazione della legge allo scopo di commettere un’ingiustizia (come il governatore dell’Alabama che impedisce a uno studente nero di entrare in una scuola o il colonnello Oliver North che compra armi per i terroristi in America Centrale) non è difendibile.

Che sia legale (come fu fino al 1954) o illegale (dopo il 1954), impedire ai bambini neri di andare a scuola è comunque sbagliato.

La verifica della giustificazione di un atto non è la sua legalità ma la sua moralità.

Il principio di valutazione che suggerisco per la disobbedienza civile non è che dobbiamo tollerare qualunque disobbedienza alla legge, ma che dobbiamo rifiutare l’obbedienza assoluta alla legge.

La verifica ultima non è la legge, ma la giustizia.

Questo turba molti, perché presuppone una pesante responsabilità: valutare le azioni sociali in base alle loro conseguenze morali. La cosa può diventare complicata e richiede un’infinita serie di giudizi su prassi e politiche. E’ molto più facile astenersi e lasciare che sia la legge a esprimere giudizi morali per conto nostro, qualunque cosa la legge dica, qualunque cosa i politici abbiano fatto della legge sulla base dei loro interessi, in qualunque modo la Corte suprema interpreti la legge al momento. Sì, è più facile. Ma ricordate le parole di Jefferson: «L’eterna vigilanza è il prezzo delle libertà».

C’è chi teme che questo genere di giudizi da parte dei cittadini su quando obbedire o non obbedire alla legge possa condurre a conseguenze terribili. Nell’estate del 1968, quattro persone che invocavano l’obiezione di coscienza come modo per fermare la guerra in Vietnam – Benjamin Spock, il reverendo William Sloane Coffin, lo scrittore Mithcell Goodman, lo studente di Harvard Michael Ferber – furono condannate al carcere dal giudice Francis Ford di Boston, che disse: «Dove finiscono la legge e l’ordine, ovviamente ha inizio l’anarchia».

Si tratta dello stesso impulso fondamentalmente conservatore che un tempo induceva a ritenere che le leggi sul salario minimo avrebbero portato al bolscevismo, o che l’eliminazione della segregazione dei neri sui mezzi pubblici avrebbe portato ai matrimoni interrazziali, e il comunismo in Vietnam al comunismo mondiale. Esso presuppone che tutti gli atti in una certa direzione conducano a conseguenze estreme, come se qualunque mutamento sociale avvenisse sulla cima di una collina ripida e sdrucciolevole, dove alla prima spinta si precipita in basso.

Di fatto, un atto di disobbedienza civile, come qualunque gesto riformista, è piuttosto una prima spinta verso l’alto, verso la cima della collina. La tendenza della società è mantenere le cose come sono. Nella storia dell’umanità, la ribellione è solo una reazione occasionale alla sofferenza; abbiamo molti più esempi di sottomissione all’autorità che non di rivolta. Quello di cui dovremmo maggiormente preoccuparci non è una presunta tendenza naturale alla sollevazione violenta, ma piuttosto la propensione della gente a sottomettersi all’ingiustizia.

Storicamente, i fenomeni più orribili – guerra, genocidio, schiavitù – non sono stati conseguenze della disobbedienza, ma dall’obbedienza.(…)

Chi possiamo ammirare, additare come esempio ai giovani della prossima generazione: colui che segue rigorosamente la legge o il dissidente che lotta, qualche volta dall’interno, qualche volta dall’esterno, qualche volta contro la legge, ma sempre per la giustizia?

Quale vita è più degna di essere vissuta: quella corretta, obbediente e ligia al dovere di chi segue la legge e l’ordine o la vita di chi pensa in modo indipendente, del ribelle?

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