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il capitalismo è in crisi, la sinistra pure

Un’economia senza controllo e indirizzo: e siamo andati in mille pezzi

di Rossana Rossanda

Che si tratti di una crisi “nel” capitalismo o, come pensa Immanuel Wallerstein, “del” capitalismo le sinistre non sembrano opporvi né una propria diagnosi né un’alternativa. Chiedono per il lavoro dipendente un aumento dei salari e per la disoccupazione più ammortizzatori sociali. E qui si fermano: non sono in grado di esigere che si sfondi il patto di stabilità, né che si tassino robustamente i ceti medioalti. Non solo perché hanno davanti per lo più governi di destra, ma perché è anche loro la persuasione che tassare i più abbienti ridurrebbe gli investimenti nella produzione. Come se da oltre un ventennio non fosse in atto una diversione dei profitti dalla produzione alla finanza, la cui “creatività” è stata agevolata dallo sparire dei controlli sugli scambi e dalla totale liberalizzazione del mercato, che si sarebbe riequilibrato da solo. La tesi di una oggettività delle “leggi economiche”, sulle quali ogni intervento del politico sarebbe dannoso, si era aperta un varco nel Pci degli anni sessanta, e dopo l’ondata del 68 si sarebbe affermata con quell’inatteso «la produzione è un bene in sé» di Berlinguer, per poi trionfare infine nel 1989. Risultato: nei primi anni 2000 i redditi da lavoro e pensioni erano scesi di dieci punti nella composizione della ricchezza rispetto agli anni ’70. Le banche hanno facilitato i prestiti per l’immobiliare a ceti mediobassi, già diminuiti nella possibilità di rimborsare i crediti. Oggi, a bolle esplose, istituti di credito e di assicurazione falliti, calo precipitoso dell’occupazione e dei Pil, né governi né media sono in grado di dirci a quale composizione del reddito siamo. Nel solo dicembre gli Stati Uniti hanno perduto quasi settecentomila impieghi, e la previsione della Cgil di perderne cinquecentomila in Europa appare già superata dai dati spagnoli, francesi e tedeschi. La domanda è paurosamente ridotta per il declino degli acquisti e la serrata del credito. Il sistema è ingrippato. Non è paradossale che il maggior tentativo di regolamentazione venga dal presidente degli Stati Uniti, che dell’intervento pubblico non fa un tabù, né si preclude, iniettando liquidità ad alcuni colossi del credito e dell’industria, una partecipazione pubblica alla loro futura gestione, che tassa i redditi più alti per estendere a tutti l’assistenza sanitaria e aiuta chi si è indebitato per un’abitazione? E promuove una redistribuzione del reddito e delle chances simile al New Deal, che ha preceduto il keynesismo vincente in Europa dopo il 1945. L’Europa non si accorda su nulla del genere, iceberg neoliberista in un oceano surriscaldato dalla crisi.
Sinistre incluse. La proletarizzazione non è mai stata così vasta e mai così percepibile, sotto la pressione del modello di consumo e dell’informazione, delle inuguaglianze e dei bisogni. La base sociale della sinistra è cresciuta, ma è caduta la fiducia che un cambiamento di sistema sia augurabile e possibile. Perché? Sarebbe ora di chiederselo. Un primo punto è che nessuna delle sinistre ha fatto un esame della implosione dell’Urss, sulla cui esistenza si era appoggiata, né si interroga perché nulla abbiano lasciato dietro di sé i “socialismi” reali, velocemente trasformati in capitalismi selvaggi e autoritari dove ha retto un impianto statale o selvaggi e straccioni dove non ha retto. E’ una colossale rimozione, che rende difficile il reimpianto d’una alternativa sulle masse annichilite dal crollo dell’idea comunista, che ha abbattuto non solo il comunismo, già in cattivo stato, ma anche lo stato sociale (“assistenziale”). Rimozione che è alla base di tutti i progetti di Trattato della Ue, che cadono non appena sottoposti a un referendum. Perciò l’Italia, quali che siano i governi, non ve li sottopone affatto. Ma più oltre, le sinistre europee si sono convinte, in quel passaggio, che esistono delle leggi oggettive dell’economia per cui ogni intervento politico sarebbe velleitario e dannoso. E’ una tesi che si è fatta strada nel Pci fin dagli anni ’60 e ’70 e ha avuto appoggi anche dall’estrema sinistra. C’è del vero in questo procedere del capitalismo, ma ne è venuto che i meccanismi economici appaiono indecifrabili, perfino ai grandi operatori, cui i segnali della recente catastrofe erano del tutto sfuggiti. I flussi essenziali del vivere e del produrre, gli equilibri e gli squilibri sono determinati da una centralità sempre più astratta, in un mondo che patisce inuguaglianze crescenti e una imprevedibilità data per fatale. La sfera politica non ne sa e non ne può nulla, la rivoluzione è una pericolosa velleità, una regolamentazione sarebbe impossibile. E’qui la radice della degenerazione della sfera politica: consentendo al deprivarsi di ogni indirizzo e controllo dell’economia, si è sclerotizzata in casta autoreferenziale, sempre meno capace di intendere quella “società civile” che dovrebbe rappresentare.
Non che questa sia atona. Scombussolata dal dichiarato venir meno di una visione della storia come conflitto fra le classi e dal tonfo del liberismo che le era stato opposto, non manca di sofferenze e insofferenze. Riflessioni e analisi su parti di sé, rifiuti del sistema e abbozzi di un altro modo di vivere e produrre si sono moltiplicati. Maria Luisa Boccia ne ha steso la mappa più persuasiva, sottolineandone la frammentazione e incomunicabilità per la mancanza di nessi che non siano recepiti come artificiosamente sovrapposti. Di questa frammentazione sono esemplari due concetti radicali e polarmente distanti come il femminismo, le cui origini vanno ben oltre il sistema capitalistico, e l’ecologismo, che si forma a una certa soglia del suo sviluppo. Anche il “lavoro” ne è diventato un aspetto, perché, scollegato dal modo di produzione capitalistico, non appare che come oppressione di una certa categoria sociale, gli “operai”, e generazionale, i precari. Essi stessi si vedono così quando si iscrivono al sindacato ma votano per la Lega, un partito che sperano protezionista e che addita il migrante come una minaccia per loro. In questo quadro anche un “partito del lavoro” non sarebbe diverso da un sindacato.
Così, alle convulsioni del capitale, le cui origini sfuggono e i cui sviluppi sarebbero imprevedibili, si accompagna la convulsione di soggettività incomunicanti. Il concetto gramsciano di blocco storico delle forze di cambiamento, che si svincolava dal semplicismo d’una centralità operaia intesa sotto un profilo meramente sociologico, è inutilizzabile fuori da ogni tentativo di interpretazione, per problematica che sia, d’una società complessa. La tesi postmoderna delle “grandi narrazioni” e dell’effimero ha reso uguali di segno arcaismi, fondamentalismi, individualismi, relativismi e differenzialismi ridotti al “cujius regio ejius religio,” negazioni di un senso condiviso che riesca a cogliere interessi e diritti comuni in un rivolgimento che domanda meticciato di uomini e di idee. La stessa vicenda di Rifondazione comunista ha riflesso non tanto la “crisi della forma partito”, grimaldello che apre tutte le porte e nessuna, quanto la incapacità di tener assieme le figure e i soggetti che si divincolano in un capitalismo maturo fino all’infracidimento: “lavoro” da una parte, “soggettività diverse” dall’altra, entrambi incapaci, nella loro separazione, di misurarsi con il tema cruciale del modo di produzione. Non credo che se ne uscirà senza sbrogliare questi nodi.

da Liberazione del 15/03/2009

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