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Hardt-Negri: COMUNANZA (Commons)*

robin hoodIl mondo moderno ha conosciuto un continuo processo di privatizzazione della proprietà pubblica. In Europa, la grande quantità di terre comuni create dopo il crollo dell’impero romano e la diffusione del cristianesimo, finirono per passare sotto il controllo del capitalismo nel corso dell’accumulazione originaria. Ciò che oggi resta dei vasti spazi aperti di un tempo appartiene per lo più alla leggenda: la foresta di Robin Hood, le grandi pianure degli Indiani d’America, le steppe delle tribù nomadi, e così via. Nell’epoca del consolidamento della società industriale, la costruzione e la distruzione degli spazi pubblici ha avviato una spirale sempre più ampia. Quando le necessità dell’accumulazione lo rendevano necessario (per accelerare lo sviluppo, per concentrare e mobilitare i mezzi di produzione, per fare le guerre, ecc.), la crescita della proprietà pubblica avveniva tramite l’espropriazione di ampi settori della società civile e con il trasferimento della ricchezza e della proprietà alla collettività. Quella proprietà pubblica tornava però poi, altrettanto rapidamente, nelle mani dei privati. In ognuno di questi episodi, il possesso comune, tradizionalmente considerato come una realtà naturale, viene trasformato, a spese della sfera pubblica, in una seconda o in una terza natura che finisce sempre per essere funzionale al profitto privato. Una seconda natura fu ad esempio creata con la deviazione del corso dei grandi fiumi del Nord America per irrigare le valli che soffrivano la siccità. In seguito, questa nuova massa di ricchezze fu consegnata ai magnati dell’industria agroalimentare. Il capitalismo mette in moto un ciclo continuo di riappropriazione privata dei beni pubblici, espropria ciò che è comune.


La nascita e la crisi del Welfare State, nel XX secolo, rappresentano un ennesimo ciclo della spirale di appropriazioni pubbliche e private. Con la crisi del Welfare, le strutture di assistenza e della distribuzione costruite con fondi pubblici vengono privatizzate ed espropriate a favore dei privati. La corrente neoliberale, che sostiene il programma delle privatizzazioni dell’energia e delle comunicazioni, traccia un altro ciclo della spirale. Il neoliberismo è determinato a consegnare ai privati i sistemi dell’energia e della comunicazione che erano stati finanziati con enormi capitali pubblici. L’economia di mercato e il neoliberismo si nutrono di questa appropriazione privata della seconda, terza o ennesima natura. I beni comuni accessibili alla maggior parte della popolazione, e che un tempo erano alla base dell’idea del pubblico, vengono espropriati per uso privato e nessuno può alzare un dito. Il pubblico viene così dissolto e privatizzato anche come concetto. L’immanenza della relazione tra il comune (the common) e il privato viene liquidato dalla trascendenza della proprietà privata.

Non intendiamo versare lacrime sulla distruzione e sulla espropriazione continua esercitate dal capitalismo nel mondo intero, anche se la resistenza (e, in particolare, la resistenza all’espropriazione perpetrata nei confronti del Welfare) è, senza dubbio, un compito eticamente necessario. Ci preme piuttosto chiedere quale sia, al giorno d’oggi, nel bel mezzo della postmodernità, della rivoluzione informatica e del conseguente mutamento del modo di produzione, la nozione operativa del comune. Ci pare, infatti, che oggi siamo partecipi della più radicale e profonda comunanza (commonality nel testo inglese) di cui si sia fatto esperienza nella storia del capitalismo. Il fatto è che siamo dentro a un universo produttivo creato per la comunicazione sociale, per i servizi interattivi e per i linguaggi comuni. La nostra realtà economica e sociale non è più esclusivamente dominata da oggetti materiali prodotti per essere consumati, bensì è pervasa dai servizi e dalle relazioni prodotte dalla cooperazione. Produrre significa, sempre di più, costruire cooperazione e comunanza comunicativa (communicative commonalities nel testo inglese).

In questo contesto, lo stesso concetto di proprietà privata, come diritto esclusivo di usare un bene e di disporre di tutta la ricchezza ricavabile dal suo possesso, diviene un vero e proprio non senso. Ci sono sempre meno beni che possono essere posseduti e usati in questo modo. Il soggetto della produzione è piuttosto la comunità, la quale, mentre produce, si riproduce e ridefinisce. In un certo qual senso, dunque, il fondamento della concezione classica della proprietà privata moderna sta svanendo nel modo di produzione postmoderno.

Occorre però rilevare che questo nuovo assetto della produzione non ha assolutamente eliminato i regimi politici e giuridici che sostengono la proprietà privata. La crisi concettuale della proprietà privata non si è tradotta in una crisi in senso materiale – al contrario, l’espropriazione condotta dalla proprietà privata ha trovato un campo di applicazione pressoché universale. Il rilievo che abbiamo appena formulato è comunque pertinente, per la semplice ragione che, nel contesto della cooperazione produttiva mediata dal linguaggio, il lavoro e la proprietà comune tendono a sovrapporsi.  Malgrado la sua persistente rilevanza giuridica, la proprietà privata non può evitare di divenire un concetto sempre più astratto e trascendentale e, dunque, sempre più alieno dalla realtà.

In questo quadro sta emergendo una nuova nozione del “comune” (commons nel testo inglese). In Che cos’è la filosofia?, Deleuze e Guattari sostengono che, nell’età contemporanea e nel contesto della produzione interattiva mediata dalla comunicazione, la costruzione dei concetti non è riducibile a un’operazione d’ordine epistemologico, ma si configura piuttosto come un progetto di portata ontologica. La costruzione dei concetti, che gli autori chiamano “nomi comuni”, si presenta, in realtà, come una pratica che associa l’intelligenza e l’azione della moltitudine e che le fa interagire tra di loro. Costruire concetti significa far esistere un progetto che si incarna in una comunità. La cooperazione è l’unico modo di costruire i concetti (There is no other way to construct concepts but to work in a common way). Dai punti di vista della fenomenologia della produzione, dell’epistemologia del concetto e delle pratiche, questa comunanza (commonality) è un progetto che investe integralmente la moltitudine. La comunanza (the commons) è l’incarnazione, la produzione e la liberazione della moltitudine. Rousseau diceva che il primo individuo che decise di appropriarsi di una parte della natura per il suo esclusivo possesso e di trasformarla nella trascendenza della proprietà privata fu responsabile dell’apparizione del male. Il bene, al contrario, è ciò che è comune.

* Estratto da Impero, pag.281-284

testo in inglese

leggi anche: Peter Linebaugh “Dai commons al comunismo e ritorno”

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