Pochi giorni fa il sub-comandante Marcos ha annunciato che “smetterà di esistere” (qui trovate il discorso). Marcos e l’Ezln in questi venti anni sono stati per me una costante fonte di ispirazione per le scelte di vita e militanza. Lo continueranno a essere. Ripropongo un testo che scrissi per un libro edito da Carta nel 2006.
Poche cose rompono i coglioni più dello squillare costante del cellulare. Soprattutto quando squilla in continuazione. È l’ennesima telefonata. Devo scrivere un pezzo per questo libretto che avete tra le mani. Ho preso un impegno, ma la cosa proprio non mi viene. Rimando sempre. Non è che non voglia, anzi. Per me è un onore. Ma che diavolo può scrivere di interessante uno che è stato in Chiapas poco più di una settimana, e per giunta due giorni chiuso in bagno a San Cristobal?
Non che voglia essere originale a tutti i costi, è che mi sento francamente ridicolo. Mi torna in mente un vecchio articolo su quei compagni che andavano in Cina all’epoca di Mao, giravano un po’ in delegazione e dopo una settimana tornavano a casa e scrivevano un saggio su un paese di cui non sapevano un cazzo. Insomma qualche reminiscenza di moralistiche condanne e di ironie sarcastiche sul “turismo rivoluzionario” mi blocca. “… ciò che importa sapere è che gli zapatisti ci hanno fornito materiale mitologico che non aveva niente a che vedere col tradizionale terzomondismo feticistico, o col turismo rivoluzionario”, persino i wu ming me lo hanno intimato! Cerco tra i libri l’impronunciabile Hans Magnus Enzensberger e il suo scritto intitolato “Turismo della rivoluzione” su Palaver, Einaudi, quadratino rosso in copertina, anni 70. Un classico sul tema. Mi accorgo però che il tedesco scriveva di delegazioni di ritorno dai paesi socialisti, e di rivoluzioni che si fanno stato, non di ribelli che dichiarano: “Arrivare al potere e insediarsi come un esercito rivoluzionario sarebbe la cosa peggiore che potrebbe accaderci. Per noi sarebbe un fallimento”. A questo punto tiro un sospiro di sollievo e comunque, ve ne sarete accorti, ho cominciato a scrivere e tanto vale continuare. I turisti della rivoluzione d’altronde ci sono sempre stati. Il primo che coniò il termine o perlomeno il concetto pare sia stato Trotzky quando da tutto il mondo gli intellettuali andavano a frotte a visitare l’URSS. Il vecchio Leone si lamentava che la loro fosse una visione talmente rassicurante e contemplativa che non si accorgevano che la Rivoluzione era finita da un pezzo: “Tutti questi autori non hanno la forza di ribellarsi contro il proprio capitalismo. Tanto più sono disposti ad appoggiarsi su una rivoluzione straniera, per di più ormai placata”. Edmondo Peluso, misconosciuto fondatore del PCd’I invece si accorse presto di come andavano le cose. Si autodefiniva cittadino del mondo e lo aveva girato in lungo e in largo facendo mille mestieri sempre con la rebeldia nel cuore. Durante il fascismo decise di emigrare in URSS e finì ammazzato in Siberia con un colpo di pistola alla nuca. Solo nel 2001 la sua storia è emersa dall’oblio grazie a un bel libro, Odissea Rossa, della giornalista Didi Gnocchi. “Non mi conforta che i libri neri siano una manipolazione, che ad archivi aperti i processi politici risultino meno di cinque milioni e i fucilati meno d’un milione”, parola di Rossana Rossanda in La ragazza del secolo scorso, un libro che è anche il memoriale sofferto di una turista rivoluzionaria. Fidel chiese a Karol di scrivere un libro sulla rivoluzione, Karol gli rispose che poi si sarebbe arrabbiato come era accaduto con i cinesi. Fidel disse, ma no che dici, o giù di lì. Finì come aveva previsto Karol. Anche i cubani si lamentavano di quelli che dopo tre settimane scrivevano libri sulla guerriglia, “eroi bisettimanali” li definiva Heberto Padilla nella corrosiva poesia I Viaggiatori. Forse Padilla se la prendeva con gli intellettuali che criticavano alcuni aspetti della rivoluzione, forse era un modo per raccontare comunque critiche che condivideva. Ambivalenza che il governo alla fine notò se il fustigatore dei turisti rivoluzionari si ritrovò in galera nel ’71 e ne uscì dopo 38 giorni e un caso internazionale con le proteste di famosissimi “viaggiatori” tra cui Sartre, Simone de Beauvoir, Italo Calvino, Margherite Duras, Alberto Moravia. È morto nel 2000 esule negli USA dal 1980. Forse ne I Viaggiatori Padilla fingeva di prendersela con il poeta beat Allen Ginsberg arrestato e poi espulso da Cuba nella primavera del 1965 perché durante la sua visita di nord-americano solidale con la rivoluzione aveva scoperto le persecuzioni ai danni di poeti e artisti omosessuali e ne aveva chiesto pubblicamente ragione. Essendo un autentico rivoluzionario non scrisse un manuale sulla guerriglia che altri avevano combattuto, ma attraversò con la “sua” rivoluzione quella che stava visitando. Un anno dopo dichiarava che “il marxismo-leninismo dogmatico…è una specie di teoria religiosa imposta dall’alto e usata di solito per picchiare la gente in testa… L’idea generale della rivoluzione contro l’idiozia americana è buona, è ancora simpatica, e credo che vada bene a Cuba… ma quello che ne segue , il dogmatismo che ne segue, è una grande seccatura. E tutti si scusano per il dogmatismo dicendo che è una conseguenza della lotta contro la repressione americana. E anche questo può essere vero”.
Trent’anni dopo vi ricordate la scossa che ci ha attraversato leggendo l’ormai leggendario “Chi è Marcos?”:
“Marcos è un nero in Sudafrica, un gay a San Francisco, un anarchico in Spagna, un indio in Messico, un pacifista in Bosnia, un palestinese in Israele, un comunista dopo la fine della guerra fredda, una donna sola in una notte di sabato in ogni metropoli messicana, uno studente infelice, un dissidente nell’economia di mercato, un artista senza galleria e, naturalmente, uno zapatista nel Messico sud-orientale. Marcos è tutti gli sfruttati, gli emarginati, le minoranze oppresse che resistono e dicono: BASTA!”
Un gay a San Francisco ! Chissà se Ginsberg lo ha letto? Credo di sì perché la City Lights di Ferlinghetti pubblicò immediatamente una raccolta di scritti “First world, ha ha ha!” dedicata alla sfida zapatista. Il vecchio Lawrence nel 1997 risponde così ad un intervistatore messicano: Con el Tratado de Libre Comercio, Mexico comienza a ser parte de la monocultura corporativa americana. Un triunfo del imperialismo económico. Buena suerte! Nosotros tenemos un mural zapatista sobre una pared exterior de City Lights.
La grafica e i murales zapatisti sarebbero piaciuti all’ebreo russo Chagall che diventato commissario alle belle arti pensava di portare la sua fantasmagoria di colori nella rivoluzione bolscevica. Ma compagni ortodossi gli chiedevano con rudezza “perché la mucca è verde e perché il cavallo vola nel cielo?”. Alla fine decise di espatriare dopo aver annotato “la rivoluzione potrebbe essere una grande cosa qualora rispettasse ciò che è diverso”. “le minoranze oppresse che resistono e dicono: BASTA!” sembra una frase come tante, invece ci si può scrivere un trattato sopra. Scomodando persino Deleuze e Guattari.
“La frontiera, ossia la linea di variazione, non passa tra padroni e schiavi, né tra ricchi e poveri. Perché, degli uni e degli altri, si tesse tutto un regime di relazioni e di opposizioni che fanno del padrone uno schiavo ricco, dello schiavo un padrone povero, in seno allo stesso sistema maggioritario…In realtà, la frontiera passa tra la Storia e … “quelli di cui la Storia non tiene conto”. Passa tra la struttura e le linee di fuga che l’attraversano. Passa tra il popolo e l’etnia. L’etnia, è il minoritario, la linea di fuga nella struttura, l’elemento anti-storico nella Storia. È che, in conclusione, minoranza ha due significati, sicuramente legati, ma ben distinti. Minoranza designa innanzitutto la situazione di un gruppo che, quale che sia il suo numero, è escluso della maggioranza, oppure incluso, ma come una frazione subordinata in rapporto al campione di misura che fa la legge e fissa la maggioranza. Si può dire in questo senso che le donne, i bambini, il Sud, il terzo mondo, ecc., sono ancora delle minoranze, per numerosi che siano. Ma, allora, prendiamo in “parola” questo primo significato. C’è subito un secondo significato: minoranza non designerà più un divenire di fatto, ma un divenire che si assume. Divenire-minoranza è un obiettivo, e un obiettivo che riguarda tutti, perché tutti assumono questo obiettivo e entrano in questo divenire, fintantoché ognuno costruisce la sua variazione intorno all’unità di misura dispotica, e sfugge, da una parte o dall’altra, al sistema di potere che ne faceva una parte della maggioranza. Nella prospettiva di questo secondo significato, è evidente che la minoranza è molto più numerosa della maggioranza…Un divenire-minoranza universale. Minoranza designa qui la potenza di un divenire, mentre la maggioranza designa il potere o l’impotenza di uno stato, di una situazione”.
Scusate, spero che non vi sia venuto un gran mal di testa. È che in rete le citazioni le trovi al volo. Da qualche parte ho letto che la persona che la polizia messicana ha identificato con Marcos da studente avrebbe scritto una tesi su Michel Foucault.
Dove eravamo ? Dunque il novecento lasciava dietro di sé montagne di disincanto e tutti noi eravamo piuttosto a pezzi quando l’EZLN apparve sui nostri schermi in quel capodanno che ricordava il giubileo dei Sex Pistols. I passamontagna guastano la festa del NAFTA come il barcone punk i festeggiamenti del Giubileo della regina. O Belushi che manda a puttane la parata del rettore in Animal House vestito da pirata al grido “siate liberi schiavi!”. Accostamenti irrispettosi forse. Ma non credo. È lo stesso Marcos che durante una tavola rotonda con Zack De La Rocha dei Rage Against The machine dice “I’m also a rocker, but an ‘old-fashioned’ one” e spiega cosa c’è in comune tra rock e zapatismo: “From the Underground Culture to the Culture of Resistance” è il titolo dell’intervento, chissà perchè nessuno lo ha tradotto in italiano!? Se il dibattito tra le mozioni congressuali del PRC o le polemiche demenziali del movimento italiano non vi hanno reso ancora catatonici provate ad ascoltare El Vez che canta Go Zapatistas sulle note di Johnny B. Good. “Il subcomandante Marcos è l’esempio del rivoluzionario mediatico” disse in un discorso ad una manifestazione pro-zapatisti a Barcellona Manuel Vasquez Montalban, ed era un complimento.
Alla morte dello scrittore spagnolo il sup scrive un omaggio:
“Durante la conversazione (si suppone fosse un’intervista, ma in realtà fu una chiacchierata) ci siamo trovati d’accordo sul fatto che, molte volte, i migliori testi di analisi politica sono nella letteratura universale, e senza palesarlo, siamo arrivati alla conclusione che il mondo andrebbe molto meglio se i politici sapessero più di letteratura che di mercatotecnica, e se leggessero più libri di poesia e novelle, e meno report statistici e bollettini giornalistici. Sarebbe magnifico che quelli che stanno al Potere fossero obbligati a leggere almeno sette libri: uno di poesia, uno di racconti, un romanzo, uno di teatro, un saggio, uno di filosofia, uno di grammatica? So che tutto questo può sembrare sovversivo, utopico, o entrambi, non fateci troppo caso”.
Intanto le formiche zapatiste insegnano a leggere e scrivere in una specie di grande scuola di Barbiana: “Per quanto riguarda l’educazione si procede come si dovrebbe procedere in politica, cioè dal basso verso l’alto. Maestri di scuola e di edilizia, specialisti in pedagogia, uomini e donne con nomi e visi comuni, indigeni con e senza passamontagna, costruiscono scuole e conoscenze dove prima c’era solo ignoranza. “L’aspetto più interessante dell’educazione zapatista è la sua dimensione fondata sulla propria storia e cultura, le proprie tradizioni, il bilinguismo che permette da una parte l’emancipazione e l’inserimento sociale, e dall’altro la conservazione dell’identità e della lingua.” Sembra che l’EZLN abbia letto le lettere luterane a Gennariello o proiettato nel cineforum della selva lo splendido documentario “Le mura di Sanaâ” di Pasolini, le immagini di uno Yemen in cui rivoluzionari filocinesi scambiano il progresso con lo sviluppo e fanno a pezzi monumenti e tradizioni in nome di una modernità peraltro cialtrona. Rileggete il discorso che Marcos tenne nello zocalo di Città del Messico nel 2001 e forse diventerà meno esoterico Pasolini quando evocava “la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”.
Il novecento è una miniera, ma anche una prigione se non giochiamo con i paradossi come chi sta in alto usa con cinismo tutto quello che i “sovversivi” hanno prodotto in secoli di rebeldia individuale e collettiva. Quella di “turismo rivoluzionario” era una pesante accusa di sinistra, nel caso dei nostri compagni zapatisti si è trasformata nel contrario. Un sottosegretario messicano dichiarò “Non tollereremo che il Chiapas diventi una Disneyland” per denunciare il “turismo rivoluzionario” degli osservatori italiani espulsi dal suo Governo. Un professore spagnolo gli replicò: “parafrasando il Che, forse ciò di cui abbiamo bisogno sono mille Disneyland —Algeria, Afghanistan, Colombia, Indonesia, Kosovo, Kurdistan, Timor…- che servano a promuovere la presenza di osservatori internazionali che collaborino ad evitare l’impunità, che contribuiscano a farci prendere sul serio il fatto che i diritti umani sono universali; cioè a farci vedere anche i diritti di quegli esseri umani che non sono visibili nel mercato mediatico”.
Oltre che da tante antinomie e fisime novecentesche l’EZLN ci ha liberato anche del complesso di colpa da turismo rivoluzionario. Nel ’98 chiedono a Marcos: Dicono che voi avete trasformato il Chiapas nell’ultimo centro di turismo rivoluzionario del millennio. E lui risponde: “Questo dà fastidio a molti, ma ha impedito che lo zapatismo si trasformasse in un movimento fondamentalista, etnico, di indigeni contro ladinos. Quando i compagni delle comunità si incontrano con altre persone, bianche, rosse, nere o gialle e si rendono conto che possono essere compagni o fratelli e non nemici, che la pelle non ha niente a che vedere con la prepotenza, che il colore bianco non è il colore di un figlio di puttana che viene solo a far danno, ma riconosce in lui una persona con la quale parlare e che può aiutare, allora questo ha successo”. I territori zapatisti in questi anni sono stati attraversati da migliaia di visitatori di tutto il mondo, intellettuali europei e statunitensi, ex dirigenti guerriglieri latinoamericani, femministe, gruppi omosessuali, gruppi rock, società civile di tutti i colori. L’EZLN ha anticipato i forum Sociali Mondiali con l’invito le sue convocazioni di incontri intergalattici e intercontinentali. Senza pretendere di essere l’ultima avanguardia che detta la linea, ma per costruire ponti.
“Questi fenomeni di resistenza [“sacche di resistenza” le chiamiamo noi per opporle alle “altre” borse, quelle dei valori] tendono a cercare la comunicazione con fenomeni simili in altre parti del mondo. Le superautostrade dell’informazione, concepite per facilitare il flusso delle merci e del denaro, cominciano a vedersi [non senza timore] percorrere da vecchie strade, animali da soma e pedoni che non scambiano merci e capitali, ma qualche cosa di molto pericoloso: esperienze, mutuo appoggio, STORIE”.
E allora ben venga il “turismo rivoluzionario”! Soprattutto perchè una cosa è leggere Marcos e trasformarlo in un pezzo pregiato della nostra piccola libreria o in un superman rivoluzionario, altra è incontrare, stringere la mano, guardare negli occhi gli uomini e le donne zapatisti, osservare i villaggi e i paesaggi. Stupirsi per quanto sono magri i cani per le strade del Chiapas.
Tra l’altro vi può capitare di incontrare compagni italiani in viaggio di nozze che non vedete da vent’anni, come è capitato a me. Affronterete prove durissime come l’ascoltare un concerto di musica tzotzil per un tempo che vi apparirà interminabile. Riceverete anche lezioni di buona educazione quando vi spiegheranno che prima di scattare una foto bisogna chiedere il permesso all’interessato. Vi racconteranno delle cooperative che stanno promuovendo come i nostri bisnonni socialisti, dei problemi legati alla gestione quotidiana dell’autogoverno, delle manovre e dei ricatti del malgoverno. Nei pochi giorni che ho passato in Chiapas mi è spesso venuto in mente che forse abbiamo caricato sulle spalle di questi compagni un peso eccessivo. E che abbiamo molti debiti nei loro confronti. “Forse l’eredità più triste che il ventesimo secolo ci ha lasciato è la disillusione, la perdita della speranza”, ha scritto John Holloway. “La speranza era evaporata dalle nostre vite”. Poi il primo gennaio sbucarono fuori questi sconosciuti zapatisti. Marco Revelli in occasione del decennale ha scritto: “Chi – ricordo che mi chiesi allora – è ancora capace di parlare un linguaggio così? Chi sono questi che riescono ancora a fare di un proclama politico una poesia?”.
Gli zapatisti hanno svolto una funzione di portata storica: hanno catalizzato un movimento globale per l’umanità e contro il neoliberismo. Senza di loro probabilmente non ci sarebbero state Seattle, Genova, ecc. Senza di loro io non starei qui a scrivere (e questo è sicuramente uno dei pochi effetti collaterali negativi dello zapatismo). Mi sembra il minimo che in ogni ente locale dove c’è un compagno lo si contatti, gli si proponga di promuovere un gemellaggio con un municipio autonomo, che si rintracci nelle pieghe del bilancio qualche risorsa per un progetto di cooperazione. Tenendo sempre presente che nessuno vi chiede di diventare dei piccoli Bob Geldof.
“Abbiamo cercato di imparare dai nostri encuentros con la società civile nazionale e internazionale. Ma ci aspettavamo che anche loro imparassero. Il movimento zapatista è insorto, tra le altre cose, per chiedere rispetto. Ed è successo che non abbiamo sempre ricevuto rispetto. Non che ci abbiano insultati. O almeno non intenzionalmente. Ma per noi la pietà è un affronto, e la carità uno schiaffo morale… E’ quella che viene praticata da qualche ONG e agenzia internazionale. Consiste, grosso modo, nel fatto che decidono loro di cosa hanno bisogno le comunità, e, senza neppure consultarle, impongono loro non solo progetti specifici, ma anche i tempi e i mezzi per la loro implementazione. Immaginate la disperazione di una comunità che ha bisogno di acqua potabile, e le viene appioppata una biblioteca. Un’altra chiede una scuola per i bambini, e loro le danno corsi di erboristeria.”
Il mio comune [Pescara] si è gemellato col municipio autonomo di San Andrés Sakamch’en de los Pobres. Nella discussione sul bilancio abbiamo proposto di finanziare un progetto gestito da Enlace Civil e controllato dalla Giunta del Buon Governo. Non so quanti consiglieri dell’Unione hanno capito cosa stavano votando. Uno di AN mi ha chiesto se c’era il rischio che con i soldi si comprassero fucili. Con 25.000 euro si garantirà l’accesso all’acqua potabile a duemila persone. Fate il conto di quante amministrazioni locali dell’Unione ci sono in giro per l’Italia. In molte ci sono compagni che vengono dal movimento e che si possono attivare facilmente. Immaginate una campagna molecolare e capillare di cooperazione dal basso. E tante carovane che vanno e poi ritornano e raccontano. “Molti municipi autonomi della regione si sono gemellati con diversi posti del mondo. Per noi, è qualcosa di molto importante perché ci permette di avere un contatto diretto con questi compagni solidali con la nostra situazione, e loro possono conoscerla e quando ritornano al loro paese possono informare la gente sul nostro lavoro“. E ovviamente possiamo anche scambiarci le visite.
Non perdete la prossima carovana.
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