Mentre la situazione si evolve di ora in ora, sembra che possa essere evitato il peggio: una ripetizione di Varsavia, schiacciata dai nazisti sotto gli occhi dell’Armata Rossa in attesa di togliere le castagne dal fuoco. Gli americani hanno finito col coordinarsi con i combattenti a terra e persino la Turchia sembra essere stata costretta ad aprire quantomeno un uscio lungo la frontiera, permettendo ad alcuni rinforzi di arrivare. Speriamo che la città venga salvata, arrestando l’avanzata di Daesh. Nel poco spazio di cui dispongo, e in base alle informazioni che ho, vorrei  soffermarmi su due punti.
In primo luogo, a cavallo della frontiera turco-siriana si sviluppano forme di solidarietà , di autogestione e di autodeterminazione che conferiscono alla resistenza non solamente il significato di una lotta nazionalista, ma quello di una importante sperimentazione democratica. Questo rompe con le tradizioni del PKK (e del PYD) alle quali i  governi occidentali dedicano tuttora gran parte delle loro dichiarazioni.
In seconda battuta,  questa resistenza comincia a diffondersi in tutta la regione, dagli studenti iraniani fino alle associazioni femminili curde in Turchia. Questo potrebbe voler significare che qualcosa di capitale importanza è in germe a Kobané. Una politica di civiltà che cerca di trattenere l’intera regione dallo sprofondare nel baratro dell’estremismo, il terreno per il quale è stato reso fertile da tanti massacri e interventi occidentali. E degli attori che disturbano il gioco dei tiranni, dei fanatismi, dei populismi e degli imperialismi. Una speranza tenue, ma vitale.
testo originale dal quotidiano comunista francese L’Humanitè
traduzione Federico Vernarelli GC Pescara
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