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Come Francesco Rosi raccontava Le mani sulla città

LE_MAN1E’ morto il regista Francesco Rosi. I suoi film sono stati fondamentali per la coscienza civile di questo paese, sicuramente lo sono stati per la mia. Ricordo quando da ragazzino li guardavo in tv in famiglia e poi con mio padre ne discutevamo per giorni (ho scoperto in rete che la Rai nel ’75 fece una rassegna di tutti i film di Rosi e probabilmente a quel momento risalgono questi ricordi). In particolare Le mani sulla città che mi dette l’occasione di farmi raccontare cosa era accaduto anche nella nostra città dopo la sconfitta delle giunte rosse (quelle vere) alla fine degli anni ’50, lo stravolgimento del prg di Piccinato, il dilagare della speculazione. Quel film mi colpì tantissimo. Il consigliere comunale comunista del film è sempre stato per me il modello, l’archetipo. Quel film stimolò in me la voglia di combattere la speculazione edilizia e l’interesse per l’urbanistica, l’orrore per come sono state sfigurate le nostre città e il nostro territorio ma anche l’abitudine ad analizzare gli interessi economici, l’intreccio politica-affari, le procedure amministrative e le norme, l’idea della città e del territorio come essenziale campo di battaglia sociale, civile, ecologica, politica. La coscienza che se non c’era il verde non era a causa di un inevitabile progresso ma di decisioni che mettevano gli interessi privati al di sopra di quelli collettivi. Se ho rotto per anni le scatole ai palazzinari e ai loro compari la responsabilità è anche di Francesco Rosi e al suo film. Il film è del’63, l’anno in cui fu sconfitto il progetto di riforma urbanistica. A distanza di decenni la politica continua a essere al servizio della speculazione edilizia e solo la crisi ha momentaneamente fermato l’incessante scempio. La storia del nostro paese è stata segnata dallo strapotere della rendita e questa – non il welfare o i diritti – è la vera differenza col resto d’Europa. Le mani sulla città continua a essere un film dolorosamente attuale da accompagnare con la lettura di Se questa è una città o Nella città dolente di Vezio De Lucia per capire come la nostra penisola è stata ricoperta da una “repellente crosta di cemento e asfalto”, per usare le parole di Antonio Cederna.

Vi propongo due interventi in cui Francesco Rosi parla del film. Uno del 1963 quando il regista, dopo aver ricevuto il Leone d’Oro al Festival di Venezia, presenta e discute il film a Parigi. L’altro è la lectio magistralis incentrata su Le mani sulla città che Rosi tenne al Politecnico di Torino quando nel 2001 ricevette la laurea ad honorem in Architettura (più che meritata visto che Le mani sulla città è una lezione di urbanistica come ha scritto Edoardo Salzano). Li pubblico sul blog per dire grazie a Francesco Rosi per la passione e la consapevolezza che mi ha trasmesso con i suoi film. Buona lettura!

Un film è sempre un atto politico (1963)

(…)Dopo la proiezione sembrava preoccupato: «Credo di avere chiesto troppo allo spettatore: è un film duro, rivedevo adesso le scene con tutti quei dialoghi e discussioni e tutta la meccanica del Consiglio comunale.  Per la prima volta, ho pensato di essere andato troppo in là… ». Invece è stato proprio questo freddo ragionare, volontariamente privo di emozione e sempre razionalmente concitato, man mano che il film volge alla fine, a conquistare la critica francese. Questa ha reso ieri sera a Rosi i massimi onori. lo ha fatto con quella generosa passione e quell’attonito entusiasmo che caratterizzano gli intellettuali parigini (la sinistra, in particolar modo) ogni volta che essi vengono costretti a sfondare il bozzolo dorato dove svolgono e avvolgono i loro fili (…) All’inizio della discussione, Rosi ha raccontato con tutta franchezza le difficoltà politiche incontrate dal film in Italia:  dalla opposizione fattagli da parte dell’Associazione dei costruttori alla denuncia spiccata contro di lui dalla polizia per «vilipendio delle forze dell’ordine». Egli ha ricordato che il critico del “Giornale d’ltalia” è stato licenziato per avere parlato bene del film e che il Centra cattolico cinematografico ha vietato Le mani sulla città ai minori, considerandolo adatto «agli adulti con riserva». «Qualcuno ha affermato – ha detto Rosi – che nel film si grida troppo, ma in Italia (e altrove) è importante gridare in nome di qualcosa…». «Ma i personaggi, è stato chiesto, non sono troppo manichei, non rappresentano troppo il bene e il male già scelto in anticipo? ». «Certo — ha risposto Rosi – Vita (il consigliere comunale dell’opposizione, n. d.r.) è il bene, egli ha scelto il bene. E io stesso ho scelto il bene, a sinistra. Mi si rimprovera di dimostrare che nel film la sinistra è migliore della destra, ma è propria quello che io penso. Io mi sento legato – e rispondo a coloro che mi chiedono se concepisco il film sotto altra forma che come un atto politico impegnato – a una certa realtà e cerco di fare film che la riguardano. Facendo così, io compio sempre, evidentemente, un atto politico. Questo è il mio modo di vedere le cose, di annotare, di ricostruire, di giudicare la realtà. Giudicare la realtà e un atto politico». E’ stato qui posto a Rosi il problema del rapporto tra il suo film e il neo-realismo, nel senso che tale opera rappresenta, secondo i critici francesi, uno stadio più elevato rispetto al primo:  «Invece che fare appello ai sentimenti come il neorealismo, il film diventa una macchina per far riflettere». Rosi ha concordato su questo giudizio. «Il neo-realismo – egli ha detto — è divenuto una sorta di etichetta da applicare alle cose, uno stile da sovrapporre a qualsiasi storia da raccontare. Mentre tanto in Salvatore Giuliano quanto in questo film è la realtà che impone il suo stile e il suo linguaggio». «Io non voglio essere – ha risposto Rosi a qualcuno che gli faceva notare come le vicende personali dei miseri abitanti dei “bassi” vengono mostrate troppo poco nel film – un propagandista della miseria, ma dei problemi. La stessa spinta dl indignazione morale che è alla base del film, in tanto è compresa dallo spettatore, in quanto questi passa dallo stadio dei sentimenti a quello della comprensione, dell’intelligenza».

da L’Unità 10 novembre 1963, articolo di M.A.Macciocchi


“i valori” di Francesco Rosi (2001)

Quando nel 1963 «Le mani sulla città» vinse il Leone d’oro all’unanimità alla Mostra cinematografica di Venezia, la platea si spaccò in due, metà applaudiva, metà fischiava. Il film era riuscito nel suo intento di provocazione. «Il premio dato a questo film – dichiarai suscitando l’applauso pacificatore – significa che l’Italia è un paese nel quale vale la pena battersi e lavorare».
Per battersi e lavorare per il vantaggio di tutti, occorre trasparenza: e il film infatti denunciava il groviglio di intrighi politici, affaristici e mafiosi alla base della speculazione edilizia a Napoli, dove Napoli stava per l’Italia e per il mondo. Lo stravolgimento della corretta utilizzazione del territorio, fondamento dell’Urbanistica; il potere mafioso associato con attività imprenditoriali non sospette, con la complicità e la protezione di certa politica, costituiscono il campo operativo privilegiato della criminalità organizzata, non secondo a quelle del narcotraffico e del riciclaggio.
Il cinema è specchio della società e dei tempi, e non si sottrae a tale sua specifica funzione.
Ciò che costituiva il fatto nuovo e importante di quel film, era che metteva apertamente a confronto moralità differenti contrapposte nei meccanismi di funzionamento di un Consiglio comunale, nel luogo cioè dove viene decisa, attraverso il dibattito politico, la vita di una città per il presente e per il suo futuro. In tal modo fu chiaro a tutti il processo in base al quale il potere, nelle mani di uomini corrotti, falsa le regole per raggiungere i propri disegni illeciti di cui tutta la società finirà per pagare il prezzo. Molti dissero che non si può fare arte con tematiche simili e con intenzioni così polemiche.
Io risposi che in effetti non mi ero tanto preoccupato di voler fare arte quanto di stimolare la partecipazione a una storia pubblica che riguardava tutti come uomini e cittadini.
L’arte, quando c’è, non potrà mai essere messa in fuga dall’interesse degli autori per la politica, come il film ha ampiamente dimostrato.
Carlo Ludovico Ragghianti, che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare durante la clandestinità a Firenze quando era a capo del Comitato di Liberazione Nazionale, a proposito dell’urbanistica scrive: «La conoscenza effettiva dell’insediamento delle comunità umane, implica la ricostruzione di tutte le condizioni della vita sociale: economia, diritto e rapporti della proprietà, stratigrafia dei ceti, dinamica delle forze, psicologia e comportamento, produzione di beni e cultura. Una urbanistica seria non è concepibile fuori di questi termini, cioè se non ha come premessa e fondamento un piano sociale economico… Poniamo che sia stato elaborato un piano, e conseguentemente sia stata formulata la sua determinazione urbanistica, che implicherà la fissazione della misura e delle funzioni dell’edilizia pubblica e privata, industriale e residenziale, delle reti stradali e della distribuzione dei servizi…» fin qui Ragghianti.
Ed ecco come l’imprenditore Nottola protagonista del film enuncia il suo piano: «Lo so che la città sta là, e da quella parte sta andando perché il piano regolatore così ha stabilito. Ma è proprio per questo che noi da là la dobbiamo fare arrivare qua».
«Qua» è il terreno agricolo alla periferia della città, dove un metro quadrato, se diventa edificabile grazie alla complicità dei suoi amici politici e agli interventi illegali sul piano regolatore, e cioè se a spese della comunità vengono portati a quel terreno acqua, luce, telefono, strade e tutti gli altri servizi, può aumentare fino al 5.000 per cento il suo valore. Le decisioni vengono prese in Consiglio Comunale e le prende la politica. Il film è la storia di come quel metro quadrato cambia destinazione, uso, e, smisuratamente, valore; e di come un imprenditore delle costruzioni riesce a diventare assessore all’urbanistica per potersi servire di quel potere a vantaggio degli interessi delle sue imprese.
le_mani_sulla_cittaIo e lo scrittore Raffaele La Capria, che scrisse con me il soggetto non eravamo certo dotati di particolari capacità divinatorie nell’immaginare gli intrighi e le complicità necessarie a far convergere su di un unico obiettivo tanti interessi diversi. Ci accorgemmo ben presto infatti, che tutto era sotto gli occhi di tutti, bisognava saper vedere e soprattutto voler vedere.
Avemmo la conferma alla intuizione dalla quale era partito il nucleo drammatico e poetico del nostro racconto, valido ieri come oggi, e cioè che il sacco della città e il relativo sistema di alleanze politico-affaristiche-mafiose avrebbero provocato la conseguente compromissione del suo tessuto connettivo morale e del suo patrimonio culturale, di quei beni cioè che sono all’origine, in un cittadino, dell’amore per la propria Patria e che dovrebbero rappresentare la sua identità.
Andavamo in giro per la città, io e La Capria, per farci investire dalla sua realtà, perché fosse questa a suggerirci la struttura drammatica della storia. In quei giorni c’era a Napoli, al teatro S. Carlo, il congresso della DC, da cui doveva nascere il centro sinistra. C’erano Moro, Nenni e tutti gli altri. Io ci andavo ogni giorno, e nella testa cominciava a prendere forma il progetto che da una parte avrebbe dovuto riflettere la nostra indignazione nei confronti della dilagante speculazione edilizia, e dall’altra la speranza nella progettualità politica del momento, nelle nuove alleanze delle quali personalmente mi aspettavo che potesse nascere quella spinta ad attuare le riforme, nelle quali ho sempre creduto. Fu al Congresso democristiano di Napoli che conobbi Enzo Forcella, allora editorialista de «Il Giorno». Una volta definito il soggetto del film con La Capria, chiamai a collaborare alla sceneggiatura con noi anche lui, e in seguito Enzo Provenzale.
La decisione di scegliere Carlo Fermariello come protagonista-antagonista, l’ho presa frequentando per giorni e giorni di seguito le sedute del Consiglio Comunale di Napoli, nascosti, io e La Capria, nella tribuna stampa.
Fermariello era il Segretario della Camera del Lavoro di Napoli, e consigliere del Pci con notevoli competenze urbanistiche. Rimasi colpito dalla sua intensità e dall’ironia che illuminava di razionalità la sua veemenza. E poi era piuttosto bello e questo per l’eroe positivo di un film non guasta. Mi fissai, lo volevo a tutti i costi per fare da contraltare a Rod Steiger l’attore americano che avevo scelto per rappresentare lo speculatore Nottola. Il film, tranne Steiger e Salvo Randone, lo feci con attori non professionisti, rivelatisi tutti perfettamente in ruolo, così come, per animare di autentica partecipazione le tre divisioni politiche nel Consiglio, Destra, Centro e Sinistra, avevo accuratamente scelto gente di sentimenti politici corrispondenti, di maniera che al momento dei contrasti politici, venivano fuori degli accesi scontri ideologici che a volte facevo fatica a placare, al di là delle necessità della scena. Per avere Fermariello dovetti smuovere il Partito Comunista che, a parte le iniziali perplessità di Fermariello stesso, non era d’accordo: il sì di Giancarlo Pajetta e di Giorgio Amendola fu risolutivo. Carlo Fermariello si rivelò un attore nato, mentre la sua pratica di consigliere comunale e la sua abitudine al dibattito diedero ragione alla mia intuizione e alla mia impuntatura a volerlo a tutti i costi. In più, sia lui che l’ingegnere Luigi Cosenza, vecchio combattente della sinistra e architetto, che il professor Roberto Pane e l’ingegnere Antonio Guizzi, furono per me e La Capria preziose fonti di informazione sulla situazione urbanistica di Napoli.
La vecchia palazzina che crolla, a fianco a un palazzo di nuova costruzione, solo dopo avere noi immaginato e sceneggiato l’episodio, scoprii che nella cronaca era avvenuto esattamente come lo avevamo noi supposto. Il crollo l’ho voluto girare tutto dal vero, senza modellini, senza trucchi cinematografici: 7 macchine da presa e un meccanismo arduo e complicato realizzato dallo scenografo Canevari e da mio fratello architetto. Il produttore, Lionello Santi, ebbe coraggio a fare il film, che disturbò non pochi nell’ambiente degli imprenditori.
Ma il cinema italiano di quei tempi costituiva riferimento di verità e provocazione utile per una riflessione comune. La generazione di autori cinematografici alla quale appartengo ha raccolto dai grandi maestri del cinema del dopoguerra – Rossellini, Visconti, De Sica – la volontà di contribuire, sia pure con la testimonianza e lo stimolo alla riflessione, alla ricostruzione materiale e morale di una società uscita distrutta dalla guerra e da una dittatura, una società nella quale potessero avere un ruolo preminente valori come la libertà, la giustizia, la morale e la bellezza. I valori che Francesco De Sanctis affidava alla vita intesa come una missione che l’uomo ha il dovere di svolgere secondo i grandi fini dell’umanità.
I valori precipui della Resistenza dalla quale l’Italia è risorta, e che sento la necessità di riaffermare di fronte al revisionismo imperante.
Nel 1993, a trent’anni esatti dal mio film, una immagine in esso contenuta sembrò essere all’origine della definizione dell’operazione «Mani pulite» meritoriamente allora in corso nel Paese a opera della magistratura: i consiglieri comunali di Napoli, accusati di malgoverno e di corruzione, levano in alto le mani protestando la loro estraneità: «Le nostra mani sono pulite!». A trent’anni dalla sua realizzazione, il film si confermava premonitore di un’attualità che gli corrispondeva ma lo superava di gran lunga nelle dimensioni e nella complicità tra politica, affari e mafia.

Con il mio modo di fare il cinema, da «La Sfida» a «I magliari», da «Salvatore Giuliano», che ebbe il merito di contribuire alla decisione di varare finalmente nel 1962 la legge costitutiva della Commissione parlamentare antimafia; da «Il Caso Mattei» che contribuì anch’esso alla conclusione della Magistratura che la morte di Mattei era avvenuta in seguito a un attentato e non per un incidente; da «Lucky Luciano» a «Uomini contro», a «Cristo si è fermato a Eboli», a «Tre fratelli», a «Cadaveri eccellenti», a «Dimenticare Palermo», ho affrontato la storia di questi ultimi cinquant’anni del nostro Paese, testimoniandone la realtà nelle sue vicende nodali, quali, ad esempio, il passaggio della principale attività mafiosa dal contrabbando al narcotraffico con le conseguenze tragiche nel mondo che tutti conosciamo; la questione meridionale, il terrorismo, la tentazione golpista, il rischio di indebolire l’autorità morale nei compromessi del potere, in storie dove il protagonista è l’uomo, i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue speranze, le sue vittorie, le sue sconfitte. E ho voluto cercare di avvicinarmi alla verità di alcuni degli episodi più oscuri della vita pubblica ancora oggi avvolti nel mistero.
Ho sempre creduto nel cinema come denuncia, come testimonianza e come racconto di vicende attraverso le quali mettere in relazione il privato con il pubblico, l’attualità con il passato, traendone riflessione per il presente, come nel mio film più recente, e, «La tregua» tratto dal libro omonimo di Primo Levi, realizzato per rappresentare il ritorno alla vita dopo l’orrore dei campi di sterminio, e allo scopo di non dimenticare mai il genocidio del popolo ebraico e di battersi onde evitare ogni possibile ritorno ai crimini contro l’umanità, e che desidero qui a Torino, città di Primo Levi, ricordare. A cento anni dalla sua nascita sono convinto che il cinema è Storia e come tale dovrebbe costituire in tutte le scuole del mondo un necessario complemento di insegnamento.
La Laurea che mi conferisce oggi il Politecnico di Torino è la più alta conferma a questa mia convinzione, e l’onore più ambito come riconoscimento non solo di un film, per il quale ringrazio qui tutti i collaboratori che mi hanno aiutato a realizzarlo, ma come riconoscimento di una vita di lavoro. Ve ne sono grato.

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