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Tim Costello working class hero

tim costello

La storia operaia sempre in movimento

di Tim Costello

Ferdinando Fasce

Con Tim Costello, scomparso qualche giorno fa a Boston, il mondo del lavoro e la sinistra perdono una delle voci più acute e autorevoli dei movimenti globali. Tim era nato a Boston 64 anni fa, figlio di un edile che gli aveva trasmesso il senso e il valore dell’organizzazione operaia. Camionista, guidatore di camion per il trasporto di olio combustibile, si era organizzato una specie di ufficio nel retro del camion, dove dedicava le pause allo studio e all’elaborazione per l’organizzazione sindacale (i «Teamsters» e i «Service Employees») e politica. Lettore insaziabile, aveva studiato alla New School a New York e alla University of Massachusetts, dove lo storico militante Jim Green lo definì «Cosmic Tim, che dava l’impressione di aver guidato camion per ogni dove e aver letto tutto».

Il pubblico italiano imparò ad apprezzarlo una trentina d’anni fa, per un bellissimo libro sulla recessione del primo shock petrolifero, intitolato da noi Tanto peggio tanto peggio. La lotta quotidiana in tempi difficili (Rosenberg & Sellier, 1979). Nel titolo originale, Common Sense for Hard Times, si rispecchiava meglio la lezione del grande artigiano-pensatore della Rivoluzione americana del 1776 Tom Paine sull’importanza del «buon senso» e dell’attenzione alle cose concrete.
Frutto di un viaggio nel paese stretto nella morsa della crisi, il libro era un formidabile repertorio di pratiche popolari e proletarie di autodifesa e sopravvivenza, in base al principio per cui «una buona vita giorno dopo giorno… quanto succede ogni giorno è la vera sostanza della vita umana: se essa è insoddisfacente, artificiale, povera, non libera, ogni giustificazione politica, religiosa o filosofica, non è che vaniloquio».
Scritto a quattro mani con Jeremy Brecher, il libro inaugurava una collaborazione giunta sino ai nostri giorni e che ci ha dato alcune gemme della riflessione e dell’intervento di classe come Building Bridges. The Emerging Grassroots Coalition (1990), o lavori sulla «globalizzazione dal basso» (Globalization from below, South End Press), sulle lotte e sulla partecipazione attiva della gente comune ai processi di globalizzazione, quali Contro il capitale globale (Feltrinelli, 2002) e Come farsi un movimento globale (DeriveApprodi), dove i due autori assieme a Brenda Smith elaborano la cosiddetta «strategia lillipuziana» di critica alla globalizzazione neoliberista basata su mobilitazioni locali che prospettano già la «società futura».
Una crescente attenzione alla questione ambientale e ai problemi della sostenibilità lo aveva portato alcuni mesi fa, dopo aver dato vita al network internazionale Global Labor Strategies, alla fondazione del Labor Network for Sustainability.
  
da il manifesto – 10 Dicembre 2009

IN MEMORY OF TIM COSTELLO
http://laborstrategies.blogs.com/global_labor_strategies/2009/12/in-memory-of-tim-costello.html

alcuni articoli di Tim Costello:

Social Movements 2.0
http://www.thenation.com/doc/20090202/smith_costello_brecher

WSF: Is Another World Possible? By Tim Costello & Brendan Smith
http://www.thenation.com/doc/20090302/costello_smith

Global Labor’s Forgotten Plan to Fight the Great Depression
By Jeremy Brecher, Tim Costello, and Brendan Smith
http://www.hnn.us/articles/69169.html

Auto-organizzazione globale dal basso
di Jeremy Brecher e Tim Costello
http://62.149.226.72/rifondazionepescara/modules.php?name=News&file=article&sid=157

Dopo le manifestazioni di Seattle 1999 uscì su il manifesto un articolo di Costello, Brecher e Smith che ben spiegavano il senso di quelle giornate. Un estratto di quell’articolo lo ciclostilammo in migliaia di copie e lo diffondemmo in giro. Merita di essere riletto oggi in occasione del decennale di Seattle e ve lo ripropongo:
IL CONTRIBUTO DI TRE STUDIOSI AMERICANI SULLE ORIGINI E LE PROSPETTIVE DEL MOVIMENTO CONTRO IL WTO

LA BATTAGLIA DI SEATTLE

Un movimento sociale eterogeneo che vuol limitare il potere del “capitale globale” a favore di regole a tutela dell’ambiente e di salvaguardia della nuda vita di uomini e donne

di JEREMY BRECHER, TIM COSTELLO, BRENDAN SMITH

 L a “Battaglia di Seattle” segna un punto di svolta nella politica della globalizzazione. Essa rappresenta l’emergere di un movimento su scala mondiale che cerca di porre dei limiti al capitale globale. La “Strada da Seattle” fornisce a questo movimento opportunità fortemente accresciute, se esso riuscirà a evitare le buche sulla sua strada.
Seattle ha dimostrato che migliaia di persone sono così arrabbiate per la direzione intrapresa dall’economia globale da essere pronte a mettere in gioco i propri corpi per modificarla. Inoltre, ha dimostrato che altre decine di migliaia di persone sono così preoccupate da essere pronte a rompere la propria routine quotidiana per combatterla.

Seattle ha richiamato l’attenzione di milioni di persone sul semplice fatto che esiste una Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), e che la sua esistenza è qualcosa di cui devono occuparsi. Inoltre, ha reso la globalizzazione delle corporations una questione pubblica.

Seattle ha ridefinito le questioni della globalizzazione per il pubblico e i media, fornendo un nuovo paradigma per comprendere che cosa sta davvero succedendo oggi nel mondo. Ha imposto alla consapevolezza generale la nozione che il problema non è più protezionismo contro il libero commercio. I dimostranti hanno riformulato la questione in termini di regole a difesa delle imprese contrapposte a delle regole a difesa delle persone e dell’ambiente.

Anche se le proteste di Seattle hanno preso di mira in prima istanza il Wto, esse riguardavano in senso più ampio l’impatto della globalizzazione, senza cadere nella trappola di definire la questione come un semplice problema di “commercio”, libero o meno. Ad esempio il movimento “Giubileo Duemila”, basato principalmente da fedeli, era rappresentato in forze, assicurando una forte enfasi sul Terzo mondo e sul ruolo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale nei programmi di aggiustamento strutturale che hanno devastato il Terzo mondo.

Il movimento che è sceso per le strade ha inciso sulla politica stessa del Wto. I delegati del Terzo mondo sono stati incoraggiati a porre la domanda se la liberalizzazione stesse davvero lavorando a loro favore, e a sfidare le argomentazioni del mondo sviluppato, secondo cui essa porterà sicuramente vantaggi ai paesi del Terzo mondo, in futuro. E, rispondendo anzitutto alla pressione del sindacato, il presidente Clinton si è detto favorevole a includere sanzioni contro i paesi che vìolino i diritti dei lavoratori.

A Seattle, il movimento impegnato a controllare il “capitale globale” si è posto come un’opposizione globale capace di rappresentare gli interessi della gente e dell’ambiente su scala mondiale. Esso ha dimostrato che, anche quando i governi nel mondo sono dominati dagli interessi delle corporations, le persone nel mondo possono agire per perseguire i loro interessi comuni. (Questo è ciò che intendono alcuni quando parlano del movimento come espressione della “società civile”.)

Il movimento a Seattle è stato internazionale e profondamente internazionalista. Pochi erano gli echi di Pat Buchanan. La maggior parte degli incontri hanno visto la partecipazione di relatori provenienti da tutto il mondo. Secondo il Post-Intelligencer di Seattle, alla marcia più importante appoggiata dal sindacato hanno partecipato persone di 144 paesi.

E’ difficile pensare a qualcosa come questo tipo di internazionalismo – né funzionale a un determinato stato, né polarizzato su posizioni comuniste/anticomuniste – dall’era di Rosa Luxemburg. Esso scaturisce direttamente dalle realtà della nuova economia globale, in cui i lavoratori in tutte le zone del mondo vengono messi in competizione in quella che molti relatori hanno definito una “corsa verso il fondo”. Non è solo in Cina che i lavoratori non possono formare un sindacato, o in Bangladesh che i salari vengono spinti al ribasso dalla competizione internazionale – i lavoratori americani presenti alle dimostrazioni di Seattle sapevano che stanno subendo anche loro le stesse pressioni.Sebbene i partecipanti rappresentassero un’ampia gamma di opinioni su quale dovrebbe essere l’equilibrio ideale di potere locale, nazionale, e globale, un’ampia parte di essi considerava necessaria una qualche forma di regolamentazione globale, ma riteneva altamente desiderabile che i livelli locali e nazionali riacquistassero potere.
Pochi erano disposti ad affermare che ogni forma di governo transnazionale dovrebbe essere abolita, e pochi sembravano credere che la globalizzazione sarebbe un’ottima cosa se pochi standard mondiali  fossero incorporati nel Wto.

Sulla “strada per Seattle” c’erano state tensioni significative tra il sindacato e i gruppi che lavorano sui consumi, sull’ambiente, sul commercio, ed altri gruppi con cui era alleato. Queste tensioni erano radicate sia nelle differenze politiche che in una sfiducia di vecchia data. Alla fine, comunque, questa coalizione è riuscita a lavorare insieme e ad evitare una spaccatura. La grande marcia è andata avanti senza segni visibili di spaccature.

Le decine di migliaia di partecipanti hanno anche espresso un’unità insolita. C’è stata una convergenza di così tante questioni e di subculture che è persino difficile elencarle tutte. Mentre i leader sindacali e gli ambientalisti di professione parlavano dallo stesso podio, i colletti blu si mescolavano nella folla con giovani attivisti ambientalisti travestiti da tartarughe. Nessuna delle due parti mostrava di sentirsi “contaminata” dalla presenza dell’altra. Seattle sembra aver segnato almeno una tregua temporanea nelle guerre tra culture. Nelle dozzine di forum, seminari e workshop che hanno accompagnato la battaglia, tale interazione spesso ha condotto, al di là del semplice mescolarsi, a una rispettosa, reciproca formazione.

C’è stata anche una sorprendente tolleranza nei confronti di diversi stili di attivismo. Martedì mattina migliaia di dimostranti hanno affrontato la polizia con forme estremamente militanti di azione nonviolenta, in uno sforzo sorprendentemente riuscito di impedire lo svolgimento dei meeting del Wto. (Paradossalmente, il segretario generale del Wto Mike Moore ha confermato le accuse dei critici dicendo che i disordini non importavano perché il vero lavoro del Wto procedeva non nelle sessioni pubbliche cancellate, ma negli incontri privati a porte chiuse). Nel frattempo, venti o trentamila dimostranti, principalmente colletti blu sindacalizzati, si sono radunati per una marcia pacifica. Alla fine della marcia la maggior parte di loro è
tornata a casa, mentre poche migliaia si sono uniti ai dimostranti nelle strade.Il fatto stupefacente è stato che ciascun gruppo sembrava soddisfatto di condividere il mondo – o almeno Seattle – con gli altri.
Di conseguenza, le due forme di protesta hanno prodotto in larga misura una sinergia. (Entrambe hanno scelto con forza un approccio nonviolento,
e le azioni dirette per le strade hanno limitato molto più della polizia le poche dozzine di persone che rompevano vetrine e danneggiavano i
negozi).

L’unità che è stata raggiunta a Seattle è vulnerabile, sia per la diversità degli interessi e delle culture coinvolte, sia perché i fautori della globalizzazione potrebbero cercare di comprare dei gruppi per estrometterli o cercare di metterli l’uno contro l’altro.

Il movimento davvero è unito intorno alla proposizione che le corporations, i mercati, il capitale mondiale devono essere sufficientemente controllati per proteggere il benessere dell’ambiente e della popolazione mondiale. Ma esso è composto anche da gruppi specifici con interessi specifici. Tutti coloro che partecipano a questo movimento hanno la responsabilità di rappresentare non soltanto i propri interessi e le proprie preoccupazioni, ma anche gli interessi generali della gente e dell’ambiente su scala mondiale. La “corsa al fondo” li rende indivisibili. Dobbiamo vedere i nostri interessi e le nostre preoccupazioni particolari come parte di questo obiettivo più ampio. E dobbiamo comprendere che il potere che abbiamo di affrontare le nostre preoccupazioni particolari dipende in primo luogo dalla crescita e dalla coesione del movimento nel suo insieme. Il sorprendente livello di unità del movimento è stato raggiunto senza un’organizzazione centralizzata, né a livello nazionale né a livello globale. Esso è composto principalmente da gruppi organizzati a livello locale o nazionale, da organizzazioni di raccordo transnazionali, e da una grande quantità di
lavoro in rete condotto via Internet. Appare improbabile che un movimento globale così diversificato possa mai sviluppare una leadership e una organizzazione centralizzate. La coesione dovrà essere mantenuta e consolidata con altri mezzi. Da questo punto di vista la maggior forza consiste nella pressione degli attivisti della base. Internet consente loro di lavorare in rete con le diverse organizzazioni e di fare pressione sui leader e sulle stesse organizzazioni.

Molte di queste questioni si porranno concretamente nella battaglia che si svolgerà intorno all’ingresso della Cina nel Wto.

Il presidente Clinton ha negoziato un’intesa per l’ammissione della Cina nel Wto. Ma perché questo accada, il Congresso dovrà dare il suo assenso sullo
status permanente di nazione altamente favorita (most favored nation) per la Cina. Il voto del Congresso è previsto per febbraio. Nel periodo che da Seattle andrà fino ad allora si potrebbe assistere al più importante scontro sulla globalizzazione che si sia mai svolto fino ad oggi negli Stati uniti. L’intesa sulla Cina di Clinton prevede ampie e specifiche concessioni per le banche, le società assicurative, rivenditori e compagnie aeree americane. Queste corporations sono riuscite a montare una campagna per fare approvare la legislazione che gli serviva. A loro si uniranno anche coloro che sono ideologicamente legati all’idea di una globalizzazione senza regole.

C’è però un ostacolo. Oltre due terzi degli americani sono contrari a portare la Cina nel Wto in assenza di un suo ulteriore progresso nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa. (Quattro persone su cinque vorrebbero che in generale, negli accordi commerciali, fossero inclusi i diritti dei lavoratori e le tutele ambientali). Il sindacato sembra aver deciso di prendere posizione sulla questione Cina. Prima dell’intesa sulla Cina di Clinton, John Sweeney aveva persuaso l’Afl-Cio a sostenere Al Gore, e aveva persino firmato una lettera insieme ad alcuni alti dirigenti di corporations che dichiaravano il proprio sostegno all’Amministrazione nei negoziati sugli obiettivi al Wto. Ma quando Clinton ha annunciato l’intesa sulla Cina, Sweeney l’ha definita “disgustosamente ipocrita” e ha promesso “una forte, vigorosa campagna” per bloccare lo status permanente di most favored nation alla Cina.

La battaglia di Seattle ha già fornito l’avvio per questa campagna. Il pubblico è molto più interessato – e molto meglio informato – che in battaglie sul commercio del passato. La coalizione è già in piedi, ha esperienza, ed è relativamente unita. Ma c’è ancora il rischio di divisioni, cooptazioni, e anche che gli oppositori vengano accusati di rappresentare soltanto particolari interessi di scarso rilievo.

La battaglia può essere vinta solo se non sarà definita come una questione riguardante i rapporti commerciali con la Cina – o in termini di protezionismo contro libero commercio – ma piuttosto in termini di che tipo di economia globale vogliamo. John Sweeney è partito bene con
questa impostazione, quando ha detto al National Press Club che “il dibattito non riguarda il libero mercato o il protezionismo, il legame o
l’isolamento. La vera questione non è se essere parte dell’economia globale, ma quali debbano essere le regole per questa economia, e chi debba farle”.

Anche se la questione dei diritti umani in Cina è importante, stigmatizzare la Cina per il suo scarso rispetto dei diritti umani non è sufficiente. I due ultimi scontri sullo status di most favored nation al Congresso erano impostati in questo modo e, di conseguenza, non hanno ottenuto nemmeno un conteggio dei voti rispettabile. Negli ultimi dieci anni, l’opposizione al conferimento di tale status è dipesa da uno scandalo su vasta scala connesso alla Cina (massacro del 1989, raccolta di fondi, tecnologia degli armamenti, spionaggio). Di fatto, i voti contrari al conferimento di questo status diminuivano via via che il 1989 si allontanava. Inoltre, la tesi secondo cui ammettere la Cina nel Wto indebolirà la repressione del governo è quantomeno plausibile, ed è sostenuta da importanti gruppi per i diritti umani.

Il conferimento dello status di most favored nation alla Cina deve rientrare in un referendum nazionale su che tipo di economia globale vogliamo avere. La Cina deve diventare emblematica non solo del mancato rispetto dei diritti umani, ma della “corsa al fondo”. Dopo tutto, in Cina ci sono 240 milioni di disoccupati. E studi condotti sia dal National Labor Committee che da altri dimostrano che l’ingresso della Cina nel mercato globale, lungi da far aumentare gli standard di vita della popolazione cinese, li sta già facendo diminuire.

Un altro elemento di vulnerabilità di questa campagna è che essa può essere raffigurata come se rappresentasse gli interessi particolari dei
lavoratori americani privilegiati, piuttosto che l’interesse più ampio della popolazione mondiale. Bisogna controbattere a questo punto in vari
modi:

– La lotta può riuscire solo se è combattuta dalla coalizione ampia di gruppi che lavorano sull’ambiente, sui consumi, sull’agricoltura, sul lavoro, e sui diritti umani che si erano oposti al Nafta e avevano bloccato il Fast Track. La ripetuta enfasi di Sweeney sulla dipendenza del sindacato dai suoi alleati è sulla pista giusta.

– La campagna deve rigettare esplicitamente temi che siano contro gli stranieri, contro la Cina o contro l’Asia. Dovremmo imparare dalla lotta sul Nafta e dal potere che veniva da lavorare insieme ai lavoratori messicani, e dovremmo mettere al centro della campagna i temi del lavoro e dei diritti umani in Cina.

– La campagna deve essere transnazionale. Come ha sottolineato Sweeney, coloro che saranno i più colpiti dalla competizione cinese sono quei paesi del Terzo mondo che non vogliono essere costretti a sfruttare i loro lavoratori e il loro ambiente tanto quanto ha fatto la Cina. Il modo più efficace di dimostrare che non stiamo proteggendo interessi ristretti dei lavoratori americani è definire la campagna come una battaglia in uno sforzo a livello mondiale per dare forma a un diverso tipo di economia globale.

– Una grossa vulnerabilità attualmente è quella che la campagna può essere rappresentata come se fosse contro il Terzo mondo. I suoi partecipanti devono assumere come una parte del loro messaggio un impegno a rimodellare l’economia globale a beneficio del Terzo mondo. Questo include naturalmente questioni come la cancellazione del debito, la fine degli aggiustamenti strutturali, vantaggi commerciali per i paesi più poveri che soddisfino criteri standard sulle condizioni dei lavoratori e sull’ambiente, e un qualche tipo di revival del dialogo Nord/Sud sulla forma dell’economia globale – nella cornice delle Nazioni Unite, non del Wto.Se la questione è “quali sono le regole per questa economia globale e chi le fa”, dobbiamo esprimere la nostra risposta.
Questo è il modo migliore per dimostrare che non rappresentiamo interessi limitati o di secondo piano, ma piuttosto una visione superiore di ciò che è necessario per il futuro.

Questa lotta può essere vinta solo con la base. Il lavoro di lobby ufficiale non lo farà – solo una mobilitazione alla base ha una possibilità di successo. La battaglia originale contro il Nafta dovrebbe essere il punto di partenza.

Come nella lotta contro il Nafta, la leadership principale dovrà provenire dalle organizzazioni della società civile. Anche se i politici possono giocare un ruolo importante, essi non dovrebbero essere ai posti di guida. Il movimento dovrà ampliare ulteriormente la sua capacità di funzionare come forza di opposizione capace di determinare quanto accade nell’arena politica dando forma al suo contesto sociale.

Il modo in cui questa battaglia sarà combattuta può essere tanto importante quanto il suo esito. L’obiettivo dovrebbe essere venirne fuori con un movimento su scala mondiale ancora più potente, in grado non solo di bloccare semplicemente il riconoscimento all Cina di most favored nation, ma anche di imporre nuove regole all’economia globale.

 (tradotto da Marina Impallomeni)

dal manifesto di martedi 17 luglio 2001

La piramide rovesciata della solidarietà

“Come farsi un movimento globale. La costruzione della democrazia dal basso”, edito da DeriveApprodi l’ultimo lavoro di Jeremy Brecher, Tim Costello e Brendan Smith. Un tentativo di distillare dal dopo-Seattle gli elementi per un programma d’azione il più possibile condiviso, un manuale per il militante globale

di BRUNO CARTOSIO

Aveva ragione, negli anni scorsi, il Monde diplomatique ad agitare lo spauracchio del pensiero unico e, fortunatamente, avevano ragione anche
quelli che avvertivano che l’incombere stesso del predominio del pensiero e della prassi neoliberiste stava producendo risposte in ogni parte del
mondo. La globalizzazione capitalista deve fare paura, e gli esempi di risposta che sempre più il mondo ci è venuto offrendo devono essere
raccolti, analizzati, metabolizzati e fatti diventare patrimonio fondante di nuove politiche d’opposizione, al di là di ogni confine nazionale e
barriera di genere, casta e classe. Se è vero che ogni movimento sociale “sviluppa nel suo divenire una propria consapevolezza” di sé e dei propri
obiettivi, ogni contributo alla crescita di tale consapevolezza può essere importante.

Un contributo di questo tipo lo danno Jeremy Brecher, Tim Costello e Brendan Smith, in quest’ultimo libro tradotto da poco: Come farsi un
movimento globale. La costruzione della democrazia dal basso (DeriveApprodi, pp. 226, L. . 22.000). Il titolo italiano è forse un po’ troppo “fai da te”. L’originale, Globalization from Below: The Power of Solidarity, mi sembra più esplicito, e include due richiami forti, anche se di segno diverso, che nell’italiano si perdono: il primo al concetto di “globalizzazione dal basso”, che ricorre poi nel testo, essendo uno dei cardini del discorso, e il secondo alla solidarietà e alla forza che essa è in grado di generare.
In questo uso del concetto di solidarietà si esplica una caratteristica per me molto importante del discorso di Brecher e dei suoi compagni: non è
necessario recidere le proprie radici – personali, culturali, politiche – che affondano nella storia del composito movimento operaio e sindacale
statunitense per comprendere e aderire ai nuovi movimenti, per scrivere di Seattle e del dopo Seattle. Anzi, con numerosi richiami alla realtà attuale
delle organizzazioni operaie, quelle radici vengono fatte diventare tronco, indispensabile a sostenere la ricca chioma di movimenti diversi che
globalmente stanno occupando la scena. E vengono sottolineati i rapporti e qualche volta i legami che in questi ultimi anni hanno fatto intrecciare la
vicenda operaia con quella del “popolo di Seattle”. Il nuovo internazionalismo solidale del sindacato statunitense, che era presente in massa a Seattle nel novembre 1999, viene fatto entrare a pieno titolo nel discorso sul presente e sul futuro del movimento per una “globalizzazione dal basso”. Nelle prospettive del dopo-Seattle, tanto le novità pure e semplici, quanto le svolte all’interno di lunghe continuità come quelle sindacali vanno valorizzate con cura. Per quanto ci riguarda, mi sembra indispensabile sottolineare la necessità del coinvolgimento strategico di tutto il sindacalismo italiano (e non solo della Fiom) nel movimento anti-globalizzazione, a partire da Genova e in costante ricerca di collegamenti con le organizzazione operaie di altri paesi.
Il concetto di “globalizzazione dal basso”, e quello speculare di “globalizzazione dall’alto”, suonano invece generici; sono come sfocati.
Credo che Brecher & C. li abbiano adottati come concetti d’uso generale, in nome di una specie di compromesso politico. Cercherò di spiegare e spiegarmi. Non è che gli autori non siano chiari. Le prime righe del libro sono: “Le imprese, i mercati, gli investitori e le classi dirigenti stanno diventando globali. La globalizzazione, così come viene spesso celebrata da economisti, esperti, capi d’azienda e dai leader delle nazioni ricche, è
attualmente una ‘globalizzazione dall’alto’, cioè una realtà creata a loro immagine e somiglianza”. Questa è la globalizzazione capitalistica, cioè l’affermazione dell’egemonia mondiale capitalistica; un’egemonia che si articola, a seconda dei luoghi e delle necessità, lungo tutto il ventaglio che va dal dominio alla cooptazione, sia nei rapporti tra stati e tra classi dominanti, sia nei confronti delle classi e dei gruppi subalterni e dominati.
L’iniziativa “dal basso” nei confronti di tale dominio capitalistico non può che essere anticapitalistica. Ma i termini, oggi, vanno usati con molta cautela: questa è l’implicazione decisiva nel discorso di Brecher. Non solo perché “basso” non vuol più dire soltanto classe operaia. Il movimento attuale è un movimento estremamente composito, in gran parte di classe media; molte delle componenti attive al suo interno non provengono dai movimenti di protesta degli anni Sessanta o dai partiti della sinistra, o dai movimenti sindacali. L’arcipelago dell’ambientalismo, il mondo del volontariato e delle Organizzazioni non governative, spesso legati ad ancore confessionali, sono stati e sono parti integranti del movimento contro la globalizzazione, e tuttavia non hanno quasi mai patrimoni teorici “classisti” alle spalle. I concetti di solidarietà cui fanno riferimento non è quello delle tradizioni operaie e sindacali.
Da qui le cautele terminologiche e il taglio non adamantino con cui le “cose” vengono chiamate nel libro. Inoltre, sembra essere la natura stessa
del volume ad imporlo. Infatti, diversamente da Contro il capitale globale (pubblicato nel 1996 da Feltrinelli, con un titolo italiano più diretto dell’inglese, Global Village or Global Pillage), che era un’analisi della globalizzazione capitalistica, delle sue strutture e istituzioni e delle strategie di resistenza possibili, il libro attuale è soprattutto un tentativo di distillare dal dopo-Seattle gli elementi per un programma d’azione il più condiviso possibile. Quello di Brecher, Costello e Smith è quasi un manuale per il militante globale, oltre che un contributo generoso: non molti, finora, si sono sentiti di fare proposte programmatiche complessive, prendendo di petto la “moltitudine di conflitti nazionali, etnici, religiosi, politici ed economici” che preesistevano a questo movimento e che sono entrati in esso. Eppure, se è vero che il livello delle contraddizioni presenti al suo interno è altissimo, è anche vero che da queste bisogna partire per costruire un qualcosa di comune. E la necessità di contrapporre un movimento antagonistico globale al capitale globale è impellente.
Riescono, Brecher & C., nel loro intento? Se si ammette la possibilità di adottare una “strategia lillipuziana” (la definizione era già presente nel Capitale globale) anche sul piano programmatico, sì. Se si ammette che l’eterogeneità del movimento possa imporre una certa ecumenicità dello sguardo, sì. Non potrà essere sempre così: dal movimento stesso, dalle analisi politiche e dai tentativi di elaborazione programmatica verranno fuori altre proposte; qualcosa cadrà e qualcosa d’altro emergerà; la dialettica stessa con l’antagonista globale distillerà nuove consapevolezze e nuovi obiettivi… speriamo. Per ora, questo libro si pone come una guida necessaria alla lettura della fase attuale della globalizzazione capitalistica in funzione di un pensare e un agire politico-organizzativo di cui si era quasi persa traccia negli ultimi due decenni. Non è poco.

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