Community

Already a member?
Login using Facebook:
Powered by Sociable!

Archivi

L’inesistenza della Norvegia. Slavoj Žižek sulla crisi dei rifugiati

Syrian_refugees-800x500_cTraduzione dell’articolo di Slavoj Zizek in uscita sulla London Review of Books, evidentemente scritto prima dell’annuncio della Merkel di voler accogliere i profughi siriani e non per questo meno attuale. 

Il flusso di profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa occidentale ha provocato una serie di reazioni sorprendentemente simili a quelle che mostriamo nell’apprendere che abbiamo una malattia terminale, secondo lo schema descritto da Elisabeth Kübler-Ross nel suo classico studio On Death and Dying. In primo luogo c’è la negazione: ‘Non è così grave, limitiamoci a ignorarlo’ (non si sente più molto). Poi c’è la rabbia – come questo può accadere a me? – che esplode quando la negazione non è più plausibile: ‘I rifugiati sono una minaccia per il nostro stile di vita; Fondamentalisti islamici si nascondono in mezzo a loro; essi devono essere fermati’. C’è la contrattazione: ‘Ok, decidiamo in materia di quote; facciamogli avere campi profughi nei loro paesi’. C’è la depressione: ‘Siamo perduti, l’Europa si sta trasformando in Europastan!’ Quella che non abbiamo ancora visto è la quinta fase di Kübler-Ross, l’accettazione, che in questo caso comporterebbe l’elaborazione di un piano paneuropeo per occuparsi dei rifugiati.

Che cosa si dovrebbe fare? L’opinione pubblica è nettamente divisa. I liberali di sinistra esprimono la loro indignazione per il fatto che l’Europa sta permettendo che migliaia di persone anneghino nel Mediterraneo: l’Europa, si dice, dovrebbe mostrare solidarietà e spalancare le sue porte. I populisti anti-immigrati dicono che dobbiamo proteggere il nostro modo di vivere: gli stranieri dovrebbero risolvere i propri problemi. Entrambe le soluzioni suonano male, ma quale è peggiore? Per parafrasare Stalin, sono entrambe peggio. I più grandi ipocriti sono coloro che chiedono l’apertura delle frontiere. Sanno molto bene questo non accadrà mai: si innescherebbe immediatamente una rivolta populista in Europa. Essi interpretano la parte dell’anima bella, superiore al mondo corrotto, pur continuando ad andare d’accordo con esso. Il populista anti-immigrati sa anche molto bene che, abbandonati a se stesse, gli abitanti dell’Africa e del Medio Oriente non riusciranno a risolvere i loro problemi e a cambiare le loro società. Perchè no? Perché noi in Europa occidentale impediamo loro di farlo. E’ stato l’intervento europeo in Libia che ha gettato il paese nel caos. E’ stato l’attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq che ha creato le condizioni per la nascita di Stato islamico. La guerra civile in corso nella Repubblica Centrafricana tra il sud cristiano e il nord musulmano non è solo un’esplosione di odio etnico, è stata innescata dalla scoperta del petrolio nel nord: Francia e Cina sono in lotta per il controllo delle risorse attraverso loro mandatari. E’ stata una fame globale di minerali, tra cui coltan, cobalto, diamanti e rame, che ha incoraggiato i ‘signori della guerra’ [warlordism nel testo] nella Repubblica Democratica del Congo negli anni ‘90 e nei primi anni 2000.

Se davvero vogliamo arginare il flusso di rifugiati, allora, è fondamentale riconoscere che la maggior parte di loro provengono da “stati falliti”, in cui l’autorità pubblica è più o meno non operativa: Siria, Iraq, Libia, Somalia, Repubblica Democratica del Congo e così via. Questa disintegrazione del potere dello Stato non è un fenomeno locale, ma il risultato della politica internazionale e del sistema economico globale, in alcuni casi – come la Libia e l’Iraq – un risultato diretto dell’intervento occidentale. (Si deve anche notare che gli “stati falliti” del Medio Oriente sono stati condannati al fallimento dai confini elaborati durante la prima guerra mondiale da Gran Bretagna e Francia).

gulf-states-640x438-640x480Non è sfuggito che i paesi più ricchi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati, Qatar) sono stati molto meno aperti ai rifugiati che quelli non così ricchi (Turchia, Egitto, Iran, ecc). L’Arabia Saudita ha anche riportato rifugiati ‘musulmani’ in Somalia. Questo perché l’Arabia Saudita è una teocrazia fondamentalista che non può tollerare gli intrusi stranieri? Sì, ma la dipendenza dell’Arabia Saudita dai proventi del petrolio la rende un partner economico completamente integrato dell’Occidente. Ci dovrebbe essere una seria pressione internazionale sull’Arabia Saudita (e su Kuwait e Qatar e Emirati) ad accettare un grosso contingente di rifugiati, soprattutto dal momento che, sostenendo i ribelli anti-Assad, i sauditi portano una parte di responsabilità per l’attuale situazione in Siria.

Nuove forme di schiavitù sono il segno distintivo di questi paesi ricchi: milioni di lavoratori immigrati nella penisola arabica sono privati dei diritti civili e delle libertà elementari; in Asia, milioni di lavoratori vivono in laboratori clandestini organizzati come campi di concentramento. Ma ci sono esempi più vicino a casa. Il 1° dicembre del 2013 una fabbrica di abbigliamento di proprietà cinese a Prato, vicino a Firenze, bruciò, uccidendo sette operai intrappolati in un dormitorio di cartone improvvisato. ‘Nessuno può dire che sono sorpreso di questo’, Roberto Pistonina, un sindacalista locale, ha sottolineato, ‘perché tutti sapevano da anni che, nella zona tra Firenze e Prato, centinaia se non migliaia di persone vivono e lavorano in condizioni di quasi schiavitù’. Ci sono più di quattromila imprese di proprietà cinese a Prato, e migliaia di immigrati cinesi si ritiene vivano in città illegalmente, lavorando fino a 16 ore al giorno per una rete di laboratori e grossisti.

La nuova schiavitù non è confinata alla periferia di Shanghai, o di Dubai o in Qatar. E’ in mezzo a noi; noi non la vediamo, o facciamo finta di non vederla. Il lavoro sudato è una necessità strutturale del capitalismo globale di oggi. Molti dei rifugiati che entrano in Europa diventeranno parte della sua crescente forza lavoro precaria, in molti casi, a spese dei lavoratori locali, che reagiscono alla minaccia unendosi all’ultima ondata di populismo anti-immigrati.

Nel fuggire dai loro paesi d’origine devastati dalla guerra, i profughi sono posseduti da un sogno. I rifugiati che arrivano in Italia meridionale non vogliono rimanere lì: molti di loro stanno cercando di raggiungere la Scandinavia. Le migliaia di migranti a Calais non sono soddisfatti della Francia: sono pronti a rischiare la vita per entrare nel Regno Unito. Decine di migliaia di profughi nei paesi balcanici cercano disperatamente di raggiungere la Germania. Essi affermano i loro sogni come il loro diritto incondizionato, e richiedono da parte delle autorità europee non solo cibo adeguato e cure mediche, ma anche il trasporto fino alla destinazione di loro scelta.

C’è qualcosa di enigmaticamente utopico in questa domanda: come se si trattasse del dovere dell’Europa di realizzare i propri sogni – sogni che, per inciso, sono fuori dalla portata della maggior parte degli europei (sicuramente anche un buon numero di europei meridionali e orientali preferirebbe vivere in Norvegia?). E’ proprio quando le persone si trovano in condizioni di povertà, disagio e pericolo – quando ci si aspetterebbe da loro di accontentarsi di un minimo di sicurezza e benessere – che il loro utopismo diventa più intransigente. Ma la dura verità da affrontare per i profughi è che ‘non c’è nessuna Norvegia’, anche in Norvegia.

Non è intrinsecamente razzista o proto-fascista per le popolazioni ospitanti parlare del proteggere il loro ‘stile di vita’: questa nozione deve essere abbandonata. Se non lo è, la strada sarà spianata per la marcia in avanti del sentimento anti-immigrazione in Europa la cui manifestazione più recente è in Svezia, dove secondo l’ultimo sondaggio i Democratici Svedesi anti-immigrati hanno superato i socialdemocratici come più popolare partito del paese.

La linea liberale di sinistra standard su questo è un moralismo arrogante: nel momento in cui diamo qualche credito all’idea di ‘proteggere il nostro stile di vita’, abbiamo compromesso la nostra posizione, dal momento che stiamo semplicemente proponendo una versione più modesta di quello che populisti anti-immigrati apertamente sostengono. E questo è davvero l’approccio prudente che i partiti centristi hanno adottato negli ultimi anni. Rifiutano il razzismo aperto dei populisti anti-immigrati , ma allo stesso tempo professano di «comprendere le preoccupazioni» della gente comune, e così mettono in atto una politica più ‘razionale’ anti-immigrazione.

Ciò nondimeno dobbiamo respingere l’atteggiamento liberale di sinistra. Le accuse che moralizzano la situazione – “l’Europa è indifferente alla sofferenza degli altri”, ecc – non sono altro che l’altra faccia della brutalità . Essi condividono il presupposto, che non è in alcun modo ovvio, che la difesa del proprio modo di vivere non è compatibile con l’universalismo etico. Dovremmo evitare di rimanere intrappolati nell’autocoscienza liberale ‘Quanta tolleranza possiamo permetterci?’ Dobbiamo tollerare migranti che impediscono ai loro bambini di andare a scuole statali; che costringono le loro donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo; che organizzano matrimoni dei loro figli; che discriminano gli omosessuali? Noi non possiamo mai essere abbastanza tolleranti , o siamo sempre già troppo tolleranti. L’unico modo per rompere questa situazione di stallo è di muoversi oltre la semplice tolleranza: dobbiamo offrire agli altri, non solo il nostro rispetto, ma la prospettiva di unirsi a loro in una lotta comune, dal momento che i nostri problemi oggi sono problemi che condividiamo.

I rifugiati sono il prezzo che paghiamo per un’economia globalizzata in cui le merci – ma non le persone – sono autorizzate a circolare liberamente. L’idea dei confini porosi, di essere inondati da parte di stranieri, è immanente al capitalismo globale. Le migrazioni in Europa non sono le uniche. In Sud Africa, più di un milione di profughi provenienti dai paesi limitrofi sono stati attaccati in aprile dai poveri locali per aver rubato il loro posto di lavoro. Ci saranno sempre più di queste storie, causate non solo dal conflitto armato, ma anche da crisi economiche, disastri naturali, cambiamenti climatici e così via. Ci fu un momento, sulla scia del disastro nucleare di Fukushima, in cui le autorità giapponesi si stavano preparando a evacuare l’intera area di Tokyo – più di venti milioni di persone. Se fosse successo, dove sarebbero andate? Avrebbero dovuto dare loro un pezzo di terra da sviluppare in Giappone, o sarebbero state disperse in tutto il mondo? Che cosa succede se il cambiamento climatico rende la Siberia settentrionale più abitabile e appropriata per l’agricoltura, mentre gran parte dell’Africa sub-sahariana diventa troppo arida per sostenere una grande popolazione? Come sarà organizzata la ridistribuzione delle persone ? Quando gli eventi di questo genere avvennero in passato, le trasformazioni sociali erano selvagge e spontanee, accompagnate da violenza e distruzione.

L’umanità dovrebbe prepararsi a vivere in un modo piu ‘plastico’ e nomade. Una cosa è chiara: la sovranità nazionale dovrà essere ridefinita radicalmente e nuovi metodi di cooperazione globale e di prendere decisioni- concepiti. In primo luogo, nel momento presente, l’Europa deve riaffermare il proprio impegno a provvedere al trattamento dignitoso dei profughi. Non ci dovrebbe essere alcun compromesso qui: le grandi migrazioni sono il nostro futuro, e l’unica alternativa a un tale impegno è rinnovata barbarie (ciò che alcuni chiamano un ‘scontro di civiltà‘).

In secondo luogo, come conseguenza necessaria di questo impegno, l’Europa dovrebbe imporre regole chiare e regolamenti. Il controllo del flusso dei rifugiati dovrebbe essere fatto rispettare attraverso una rete amministrativa che comprenda tutti i membri dell’Unione europea (per evitare barbarie locali come quelle delle autorità di Ungheria e Slovacchia).

I rifugiati dovrebbe essere certi della loro sicurezza, ma dovrebbe anche essere loro chiaro che essi devono accettare la destinazione loro assegnata dalle autorità europee, e che dovranno rispettare le leggi e le norme sociali degli Stati europei: nessuna tolleranza della violenza religiosa , sessista o etnica; nessun diritto di imporre agli altri la propria religione o modo di vivere; rispetto della libertà ogni individuo di abbandonare i propri costumi comuni, ecc Se una donna sceglie di coprirsi il volto, la sua scelta deve essere rispettata; se sceglie di non coprirsi il volto, la libertà di non fare così deve essere garantita. Tali norme privilegiano il modello di vita europeo occidentale, ma questo è il prezzo da pagare per l’ospitalità europea. Tali norme dovrebbero essere chiaramente indicate e applicate, con misure repressive – contro i fondamentalisti stranieri e contro i nostri razzisti – ove necessario.

In terzo luogo, un nuovo tipo di intervento militare e economico internazionale dovrà essere inventato – un tipo di intervento che evita le trappole neocoloniali del recente passato. I casi di Iraq, Siria e Libia dimostrano come il tipo sbagliato di intervento (in Iraq e Libia), così come di non intervento (in Siria, dove, sotto l’apparenza di non intervento, potenze esterne come la Russia e l’Arabia Saudita sono profondamente coinvolte) finiscono nella stessa situazione di stallo. Quando ero giovane, un simile sforzo organizzato verso la regolamentazione veniva chiamato comunismo. Forse dovremmo reinventarlo. Forse questa è, a lungo termine, l’unica soluzione.

 

[traduzione di Maurizio Acerbo con la cortese collaborazione di Paola Aceto e Maria Antonietta D’Emilio]

Leave a Reply