Nonostante i tentativi di tenermi aggiornato acquistando riviste e scaricando a manetta da alcuni anni devo ammettere che raramente mi capitano cose che mi entusismano o che mi rimangono dentro. Mi sono accorto che quasi mai, per esempio, sul mio profilo su fb (noto gruppo rivoluzionario del terzo millennio secondo il presidente del senato Schifani) posto video musicali recenti. Ho pensato che con l’età si diventa conservatori e che forse sono le mie orecchie e la mia sensibilità ad essere ormai fuori uso. Poi ho letto un articolo di Simon Reynolds, mica un cretino qualunque, e mi son detto che sono almeno in autorevole compagnia. Per chi non lo sapesse Simon reynolds ha due anni più di me, è un critico musicale inglese, autore tra gli altri di un libro fondamentale disponibile anche in edizione italiana Rip it up and start again che consiglio vivamente a tutti (un omaggio alla iper-creativa stagione del post punk 1978/1983). Non posso fare a meno di socializzare un estratto di Simon Reynolds dal libro GLI ANNI ZERO, raccolta di interventi di autori vari sugli anni duemila:
La prima domanda che salta alla mente ripensando alla musica pop del primo decennio
del ventunesimo secolo è: «cos’è accaduto?».
Non «cosa è accaduto?», espressione di stupore per un cambiamento caotico, difficile da valutare e comprendere,
bensì «cosa è accaduto? ». Ovvero, «è accaduto davvero qualcosa in questo decennio?». Se gli anni Settanta hanno
avuto la disco  music e il punk, gli anni ottanta l’hip hop e gli anni Novanta il rave e il grunge, qual è stato
l’imprescindibile fenomeno musicale che ha dominato il mondo della musica pop negli Anni Zero?
(Imbarazzato silenzio)
La verità scoraggiante è questa: il decennio pop che volge al termine è stato un passaggio a
vuoto. Il musicista e critico musicale Momus ha di recente dichiarato che il pop è uno dei
fenomeni di fatto superati, finiti. (Gli altri sono la televisione, il telefono e la democrazia.)
Io e Momus viaggiamo a vele spiegate verso i cinquanta, e tutti sanno che invecchiando
diventa molto più difficile percepire ed essere sensibili alle novità in campo musicale; c’è la
tendenza a diventare scontrosi e insensibili. Come se diventasse costituzionalmente
impossibile cogliere l’impatto emotivo delle novità . Questo dipende in parte dal fatto che
più conoscenza musicale acquisiamo più ci rendiamo conto dei precedenti, perdendo la capacità di sorprenderci.
Un esempio classico di questa sindrome è quello dei critici che nel 1976 liquidavano i Sex Pistols come una
rimasticatura degli Who. C’è anche la tendenza a proiettare il proprio decadimento fisico alla cultura in generale. Ma
a mettere in discussione la vitalità del pop degli Anni Zero non sono soltanto due stagionati stizzosi come me e
Momus. Il critico di Pitchfork Tim Finney ha osservato «la curiosa lentezza con cui questo decennio avanza», e lui ha
poco più di vent’anni. Si è diffuso un consenso trasversale tra le generazioni almeno tra chi ha investito
emotivamente nell’idea di progresso musicale sul fatto che il pop ha subito una battuta d’arresto.
Gli esperti del settore hanno cercato spiegazioni a questa apparente stagnazione. Alcuni la attribuiscono al mancato
scambio reciproco tra pop nero e bianco, altri mettono in evidenza l’acuirsi della divisione di classe che ha favorito la
comunicazione esclusiva della musica con la nicchia sociale di riferimento e la perdita di elementi di avventura e
imprevedibilità . Entrambe le diagnosi rappresentano verità parziali, ma c’è dell’altro, qualcosa di inesplicabile e
vagamente mistico, apocalittico direi. Ciò a cui si riferiva T. S. Eliot quando scriveva: «Così finisce il mondo / Non fra
il baccano ma in un piagnisteo», non un crollo disastroso, ma un graduale esaurimento,una ricaduta costante
nell’entropia e nell’inerzia.
Come misurare oggettivamente il livello di innovazione? Ciò con cui abbiamo a che fare non è scienza ma cultura: lo
scivoloso e precario dato della percezione e dell’affettività . Un metodo potrebbe consistere nel guardare al formarsi
degli stili l’emergere di nuovi suoni, scene, sottoculture, il genere considerato novità anche da chi detesta la musica.
Gli anni Sessanta ci hanno regalato l’irruzione di gruppi beat (l’R&B bianco inglese di Beatles, Stones, Kinks e altri),
rock psichedelico, folk rock, soul, ska, reggae e dub, disco e molti altri. Gli anni Ottanta hanno tenuto il passo con
l’arrivo di rap, synthpop, goth, house music, indie, dance hall reggae. Gli anni Novanta hanno assistito alla nascita
della cultura rave (e alla vertiginosa profusione di sottogeneri come jungle, gabba e trance) che rivaleggiava con il
grunge e l’alternative rock; nel frattempo la continua e impetuosa evoluzione dell’hip-hop portava al nu-R&B di
Timbaland. Ulteriore vivacità al fenomeno è stata apportata in questi primi quattro decenni dal continuo revival di
stili prematuramente accantonati dal pop nella sua incessante corsa verso il futuro. Nonostante fossero parodistici,
questi movimenti passatisti (come il britannico 2 Tone di fine anni Settanta, che ha tratto ispirazione dallo ska
giamaicano anni Sessanta) sono diventati significativi e «attuali».
Qual è dunque il valore di questo decennio? Quali generi emersi possono essere interpretati come autenticamente
nuovi? Perfino i più generosi estimatori del pop degli Anni Zero giungono naturalmente alla conclusione che si è
trattato per lo più di sviluppi minori e specifici (la emo, per esempio, una forma di punk melodica e melodrammatica)
o di incursioni in forme ricombinate (electroclash, freak-folk e tanto altro).Â
Â
UN’INTERVISTA A SIMON REYNOLDS:
http://www.freaknet.it/articoli/musica/intervista_con_simon_reynolds
a questo punto provo a ricordarmi i dischi per me imprescindibili del decennio che sta per concludersi. Chi vuole provarci può postare la sua personale playlist (magari mi sono perso qualcosa)…
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