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Jonathan Demme, il cugino di Bobby

CousinBobby_640.640x360-e13541425456951È morto Jonathan Demme. Uno dei miei eroi culturali. Più di un regista. Un compagno con la macchina da presa, un’intellettuale organico della working class globale, mai retorico ma sempre antirazzista e anticolonialista, bianco ma afroamericano come qualsiasi cosa buona abbia prodotto l’America nell’ultimo secolo, il miglior dj del cinema contemporaneo.

“Qualcosa di travolgente” negli anni ’80 è stato per me un manifesto: tutti gli anni sono buoni per ribellarsi, tutte le culture debbono mescolarsi, ritmo e consapevolezza, etica e estetica. E una vecchia canzone ribelle degli anni ’60 come Wild Thing poteva essere riproposta in nuove versioni reggae o latine. Si campa una volta sola e tanto vale non smettere mai di essere Loco de amor come cantava David Byrne. La libertà e la buona vita come Melanie Griffith che ti incrocia per strada bisogna conquistarsele, difenderle e soprattutto non lasciarsele scappare. Il primo film che io ricordi fu il magnifico Stop Making Sense, il live dei Talking Heads, la band che ci ha aperto la testa. In prima fila nella lotta contro l’apartheid con l’esplosivo Sun City degli Artists United Against Apartheid, l’alternativa militante a We are the world, per il boicottaggio del regime criminale sudafricano sostenuto da USA e UK.

D’altronde tra i suoi capolavori preferiti c’era il film che le Pantere proiettavano nelle loro scuole di liberazione, La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo di cui divenne amico come di Monicelli e Bertolucci. E che dire dei suoi doc militanti. Il bellissimo The Agronomist, omaggio all’amico haitiano assassinato Jean Dominique, fondatore di cineclub, agronomo dalla parte dei contadini sfruttati, che con la sua radio trasmetteva democrazia e liberazione nonostante le minacce dei signori della morte.

Cousin Bobby, dedicato a suo cugino reverendo amico delle Pantere nere che si riunivano nella sua parrocchia. Uno che non ha mai smesso di lottare. Negli anni ’90 è ancora instancabile organizzatore di comunità, strappa alle droghe pesanti i ragazzi, guida cortei per chiedere a chi governa nell’interesse dei ricchi di sistemare le strade e mettere un semaforo nel quartiere. Come le Black Panthers. Lo ritroveremo come attore nel ruolo di padre di Tom Hanks in Philadelphia. Quando il malato di aids condannato a morte spiega l’opera ascoltando la voce della Callas cade qualsiasi barriera omofoba. Bruce Springsteen che cammina tra gli homeless prodotti dal reaganismo è puro neorealismo. L’America bianca è cannibale, assassina, genocida come Anthony Hopkins nel Silenzio degli innocenti, ma fortuna che c’è l’altra, quella raccontata dal vecchio hippie Neil Young.

L’ambivalenza di un America che non ha mai ammesso l’Olocausto che ha commesso verso nativi e africani come spiegava Bobby accompagnando il cugino regista nei luoghi in cui con la pantera Isahiah aveva sfidato il potere bianco restituendo umanità  a quelli che furono repressi come fanatici e criminali. Colonna sonora hip hop scarno e potente, immagini di repertorio.

Quel prete arrestato con le Pantere all’epoca dei riots e dell’operazione Cointelpro deve essere stato una figura di riferimento per il più giovane cugino che nei primi anni ’70 alla scuola di Roger Corman aveva imparato l’arte di essere indipendenti e popolari. “Ogni film deve avere il più possibile azione, umorismo, un po’ di sesso e una buona dose di impegno sociale possibilmente orientato a sinistra”.

Come diceva il filosofo: “non crediate che si debba esser tristi per essere dei militanti, anche quando la cosa che si combatte è abominevole. È ciò che lega il desiderio alla realtà a possedere una forza rivoluzionaria”. Grazie Jonathan, non sai quanto hanno cambiato la mia vita quei titoli di coda con Sister Carol.

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