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Thomas Piketty: Il capitale in Russia

Vi propongo un interessante un articolo di Thomas Piketty sulle caratteristiche del capitalismo russo dopo il crollo dell’URSS. Lo studioso francese è diventato arcinoto per il suo bestseller “Il capitale nel Secolo XXI” con un’immensa quantità di dati sulla crescita delle disuguaglianze (per un punto di vista critico sul libro di Piketty rimando a un articolo di David Harvey). L’articolo risente della demonizzazione di Putin che domina l’informazione occidentale come giustamente denuncia lo storico americano Stephen F. Cohen in una conferenza che andrebbe tradotta in italiano.  E’ evidente per esempio che la rapidissima conversione al capitalismo selvaggio e la nascita di una cleptocrazia di oligarchi risale agli anni di Eltsin che godeva del totale appoggio degli americani. Però è sempre bene tenere a mente che la Russia è un paese capitalistico. 

Il prossimo mese Karl Marx compirà 200 anni. Cosa avrebbe pensato del triste stato in cui si trova oggi la Russia? Questo è un paese che non ha mai smesso di affermare di essere “marxista leninista” durante tutto il periodo sovietico. Senza dubbio lui avrebbe negato qualsiasi responsabilità per un regime apparso molto tempo dopo la sua morte. Marx era cresciuto in un mondo di oppressione basata sul censo e di sacralizzazione della proprietà privata, dove persino i proprietari di schiavi potevano essere profumatamente ricompensati se la loro proprietà veniva violata (per i “liberali” come Toqueville questa era una cosa normale). Sarebbe stato difficile per lui anticipare il successo della socialdemocrazia e dello stato sociale nel 20° secolo. Marx aveva 30 anni al tempo delle rivoluzioni del 1848 e morì nel 1883, l’anno della nascita di Keynes. Entrambi erano commentatori dei loro tempi; senza dubbio abbiamo sbagliato a prenderli per consumati teorici del futuro.

Resta il fatto che quando i bolscevichi presero il potere nel 1917, il loro piano d’azione era ben lungi dall’essere “scientifico” come affermavano. La proprietà privata doveva essere abolita, questo era stabilito. Ma come si sarebbero organizzati i rapporti di produzione e chi sarebbero stati i nuovi padroni? Quali avrebbero dovuto essere i meccanismi per il processo decisionale e la distribuzione della ricchezza nell’enorme apparato di pianificazione statale? Per mancanza di una soluzione, fu fatto ricorso all’iper-personalizzazione del potere e per mancanza di risultati, i capri espiatori furono rapidamente trovati e imprigionati, con le purghe all’ordine del giorno. Alla morte di Stalin, il 4% delle popolazioni sovietiche era in prigione, più della metà per “furto di proprietà socialiste” e altri piccoli crimini che contribuivano a migliorare il proprio destino. Questa è la “società dei ladri” descritta da Juliette Cadiot ed essa segna il drammatico fallimento di un regime che desiderava di emancipare. Per superare questo livello di incarcerazione dobbiamo prendere la situazione degli uomini neri americani oggi (il 5% degli uomini adulti neri sono in prigione).

Gli investimenti sovietici nelle infrastrutture, nell’educazione e nella sanità resero possibile effettivamente una certa ripresa; il reddito nazionale pro capite ristagnava prima della rivoluzione a circa il 30-40% del livello nell’Europa occidentale; aumentò a oltre il 60% negli anni ’50. Ma il ritardo aumentò negli anni ’60 -’70, l’aspettativa di vita iniziò anche a scendere (fenomeno unico in tempo di pace), il regime era sull’orlo dell’implosione. Lo smantellamento dell’URSS e del suo apparato produttivo portò a un calo del tenore di vita nel 1992-1995. Il reddito pro-capite è salito a partire dal 2000 e nel 2018 si colloca a circa il 70% del livello dell’Europa occidentale in termini di parità di potere d’acquisto (ma è due volte più basso se si utilizza il tasso di cambio prevalente, data la debolezza del rublo). Purtroppo le disuguaglianze sono aumentate molto più di quanto affermino le statistiche ufficiali, come dimostrato in un recente studio condotto con Filip Novokmet e Gabriel Zucman (From Soviets to Oligarchs: Inequality and Property in Russia 1905-2016).

Più in generale, il disastro sovietico ha portato all’abbandono di qualsiasi ambizione di ridistribuzione. Dal 2001, l’imposta sul reddito è del 13%, sia che il vostro reddito sia di 1.000 rubli o 100 miliardi di rubli. Persino Reagan e Trump non sono andati così avanti nella distruzione della tassazione progressiva. Non ci sono tasse sull’eredità in Russia, né nella Repubblica popolare cinese. Se vuoi spendere la tua fortuna in pace in Asia, è meglio morire negli ex paesi comunisti e sicuramente non nei paesi capitalisti come Taiwan, Corea del Sud o Giappone dove l’aliquota d’imposta sull’eredità nelle proprietà più alte è appena aumentato dal 50% al 55%.

Ma mentre la Cina è riuscita a conservare un certo grado di controllo sulle fughe di capitali e sull’accumulazione privata, la caratteristica della Russia di Putin è una deriva senza limiti nella cleptocrazia. Tra il 1993 e il 2018, la Russia ha avuto enormi eccedenze commerciali: circa il 10% del PIL annuo in media per 25 anni, o un totale del 250% del PIL (due anni e mezzo di produzione nazionale). In linea di principio, ciò avrebbe dovuto consentire l’accumulo dell’equivalente in riserve finanziarie. Questa è quasi la dimensione del fondo pubblico sovrano accumulato dalla Norvegia sotto lo sguardo attento degli elettori. Le riserve ufficiali russe sono dieci volte più basse – appena il 25% del PIL.

Dove sono finiti i soldi? Secondo le nostre stime, le attività offshore detenute da ricchi russi superano un anno di PIL, o l’equivalente della totalità degli asset finanziari ufficiali detenuti dalle famiglie russe. In altre parole, la ricchezza naturale del paese (che, diciamolo di sfuggita, avrebbe fatto meglio a rimanere nel sottosuolo per limitare il riscaldamento globale) è stata massicciamente esportata all’estero per sostenere strutture opache che consentono a una minoranza di detenere enormi asset finanziari russi e internazionali. Questi ricchi russi vivono tra Londra, Monaco e Mosca: alcuni non hanno mai lasciato la Russia e controllano il loro paese attraverso entità offshore. Numerosi intermediari e aziende occidentali hanno anche recuperato grandi briciole lungo la strada e continuano a farlo oggi nello sport e nei media (a volte si parla di filantropia). L’estensione dell’appropriazione indebita di fondi non ha eguali nella storia.

Piuttosto che applicare sanzioni commerciali, l’Europa farebbe meglio a cercare questi patrimoni e a rivolgersi all’opinione pubblica russa. Oggi il post-comunismo è diventato il peggior alleato dell’ipercapitalismo: Marx avrebbe apprezzato l’ironia, ma questa non è una ragione per sopportarlo.

articolo originale: http://piketty.blog.lemonde.fr/2018/04/10/capital-in-russia/

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