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Lelio Basso e l’Unione Europea

In questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario della morte di Lelio Basso, una delle più originali figure del movimento operaio e socialista italiano e europeo del Novecento. Un vero gigante. L’autore dell’articolo 3 della Costituzione. Lo studioso di Rosa Luxemburg e a mio parere un “rifondatore socialcomunista” antelitteram. Facendo un giro in rete scopro che ultimamente è spesso citato su vari siti “sovranisti” di destra e di sinistra per un discorso “antieuropeista” del 1949 contro la ratifica del Trattato di Londra che istituiva il Consiglio d’Europa. Mi accade sempre più spesso di imbattermi nell’uso di citazioni prive di contestualizzazione storica. Slegato dal dibattito e dallo scontro politico proprio di quel periodo (inizio guerra fredda e divisione dell’Europa in blocchi contrapposti, opposizione della sinistra socialcomunista al consolidamento di un campo occidentale a egemonia americana, ecc.) Basso diventa un profeta “sovranista”. Segnalo che in merito il pensiero di Basso fu assai più complesso, come accade quasi sempre ai marxisti. Basso non fu mai contrario al federalismo europeo e la sua posizione non rientra per nulla nella contrapposizione manichea tra sovranisti e antisovranisti che occupa il dibattito ultimamente. Basso era innanzitutto internazionalista, per nulla affezionato alla sovranità nazionale ma sempre difese la sovranità popolare, democratica. E non contrapponeva la lotta nello spazio nazionale a quella nello spazio europeo e viceversa, come accade nei dibattiti che da tempo ci ammorbano dividendo quel poco di sinistra anticapitalista che è rimasta in circolazione. Basso anzi si poneva il tema dell’organizzarsi sul piano europeo – e anticipava la necessità di costruire un partito europeo (il Partito della Sinistra Europea dovrebbe rendergli omaggio) – come necessità per fronteggiare un capitale che stava diventando sempre più multinazionale. Il marxista Basso era critico verso i Trattati – e chissà cosa avrebbe detto di Maastricht!!! – ma senza alcuna vocazione nazionalista. In questa epoca di semplificazioni e tweet molti non capiscono che si possono contestare i trattati senza rinunciare a una visione europeista. Ed è quello che d’altronde fece anche Lucio Magri nel celebre intervento del 1992 contro il Trattato di Maastricht a nome di Rifondazione Comunista e come abbiamo cercato e cerchiamo di fare da anni come Partito della Sinistra Europea e GUE. Trasformare Lelio Basso in una sorta di predicatore da social è quanto di peggio si possa fare. Di sicuro non si collocherebbe dentro la contrapposizione sovranisti/europeisti ma in una posizione di classe, democratica e antimperialista.

Nel 1973 Basso viene invitato a un convegno sul federalismo europeo organizzato dal presidente fanfaniano dell’IRI Giuseppe Petrilli e uno dei massimi esponenti del Movimento Federalista Europeo fondato nel 1943 da Altiero Spinelli. In quell’occasione riassunse il suo punto di vista. Vi propongo alcuni estratti.

È un poco triste quando si è al tramonto della propria vita, come io sono ed accade troppo spesso, leggere un libro che riguarda la storia di un movimento a cui non ho partecipato, in cui non ho nessuna parte, e tuttavia incontrarvi il mio passato. Così mi è capitato con questo libro. Quando si è costretti a vivere di ricordi, l’incontro con il passato ci aiuta un pochino a ringiovanire. Occupandomi di politica, anche se non ho fatto ex professo il federalista, però mi sono incontrato, qualche volta, con il movimento federalista: leggendo queste pagine sono tornati in me ricordi di più di trent’anni fa. Ero appena ritornato a Milano dal campo di concentramento di Col Fiorito, quando una giovane signora, che veniva da Ventotene, mi portò il Manifesto di Ventotene. Era la moglie del mio indimenticabile amico, Eugenio Colorni (oggi la moglie di Altiero Spinelli) assassinato dai fascisti. Conoscevo Eugenio da quando era studente, e Ursula da quando si erano sposati; ero quindi un vecchio amico, per quanto era possibile esserlo per dei giovani sposi. Ursula mi portò il Manifesto perché gli amici e compagni di Ventotene volevano un mio parere su quel documento. Debbo dire che diedi un parere negativo, e proprio sul punto fondamentale, che ha toccato il prof. Petrilli: il punto cioè della priorità della battaglia politica per il federalismo sugli altri aspetti. È chiaro che per un socialista che si richiama a Marx come io mi richiamo, non c’è nessuna difficoltà a riconoscere il superamento dello stato nazionale. Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello “proletari di tutti i paesi unitevi” i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati. I capitalisti hanno fatto l’internazionalizzazione nelle grandi “multinazionali”, mentre il movimento operaio è rimasto a livello nazionale. Questa è una delle accuse più gravi che faccio al movimento operaio. Questa è una delle ragioni per cui non milito più nei partiti: a mio giudizio, i partiti assumono comportamenti assurdi rispetto a quella che è la realtà attuale.

Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre, nel Manifesto di Ventotene praticamente si diceva: “Lasciamo andare la battaglia entro i confini nazionali per la democrazia e per il socialismo e poniamo come compito prioritario quello del federalismo A mio giudizio era un errore; e credo che oggi pensi così anche l’amico Altiero Spinelli (perché è stata compiuta, in parte, un’autocritica su queste questioni). Non c’era infatti nessuna possibilità nell’immediato dopoguerra di costruire uno stato italiano in una federazione europea. Dalla guerra sarebbero usciti di nuovo degli stati nazionali e il nostro compito più urgente era di batterci, nella misura delle nostre possibilità, perché ognuno di questi stati nascesse con caratteristiche profondamente democratiche, che avrebbero potuto poi, in avvenire, favorire lo sviluppo federale. Mi sono annotata la frase con cui il prof. Petrilli ha terminato la sua così lucida esposizione, quando ha parlato di una “complementarietà” fra la lotta federalista e la lotta democratica. Sono d’accordo che ci sia una complementarietà. Non ritenevo allora e non ritengo oggi che si possa parlare di una priorità da dare all’istanza federalista, lasciando in disparte la battaglia democratica che secondo me, e secondo il prof. Petrilli, spero, se ho ben capito quello che ha scritto, crea una precondizione, di un qualunque movimento, di una qualunque realizzazione federalista. (…) Di conseguenza penso che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti.

Dunque Lelio Basso non era contrario al federalismo europeo ma non per questo disconosceva l’esigenza di lottare entro lo spazio nazionale. la maniera superficiale e unilaterale che prevale nel dibattito da anni a sinistra e nei movimenti tende a contrapporre i due livelli. Poi Basso ricorda che la sua posizione fu per l’astensione rispetto ai Trattati che segnarono la nascita dell’Unione.

(…) Un altro ricordo mi ha suscitato questo libro. Dopo la firma, i Trattati di Roma furono presentati al parlamento per la ratifica (1957). Io allora militavo nel partito socialista – nelle mie alterne vicende, le montagne russe della mia partecipazione al partito – ed ero membro della segreteria del partito. In quel momento, vi ricorderete tutti, il partito comunista prese una posizione nettamente negativa, votò contro, con un’argomentazione che veramente in bocca a comunisti e marxisti lasciava perplessi: la sovranità nazionale. Credo di avere della sovranità nazionale lo stesso concetto che hanno i miei amici federalisti: è veramente un relitto del passato. Quindi non mi commuoveva minimamente questa posizione dei comunisti. Ma c’era un altro argomento che aveva la sua validità. La matrice della Comunità era atlantica, di guerra fredda; quindi, sotto questo profilo, era ovvia la nostra posizione critica di fronte ai Trattati. Nel PSI non ci fu un atteggiamento unico – io lo considero un elemento di democrazia -; ci furono tre posizioni diverse: una parte voleva votare contro, associarsi al partito comunista più o meno sulle stesse posizioni; c’era poi chi voleva votare a favore perché portava in sé quella che giustamente il prof. Petrilli ha definito “l’illusione funzionalista”, (mettiamo in moto il meccanismo, essi dicevano, e poi andrà avanti automaticamente); c’era, infine, una terza posizione che grosso modo faceva capo a me, che si trovava nella situazione di non essere d’accordo né col no né col sì. Non d’accordo con il no, perché consideravamo che nel fatto di superare gli stati nazionali, nel creare il principio di Comunità c’era, almeno in embrione, un elemento di possibile futura sopranazionalità. Si trattava d’un aspetto positivo in se stesso, politicamente ed economicamente.

Ma la strumentazione dei Trattati, il modo come veniva realizzata la Comunità, la fondamentale antidemocrazia di tutta la struttura istituzionale della Comunità ci trovava totalmente all’opposizione. Dicevamo sì al fatto che si andava al di là dei confini nazionali; dicevamo no al modo come i Trattati di Roma avevano organizzato questa nuova istituzione. Purtroppo, lo sapete, la vita parlamentare ammette tre scelte: sì, no, astensione. L’astensione può apparire talvolta una vigliaccheria, una fuga davanti alla responsabilità, ma in molti casi è la sola maniera di non dire né sì né no quando non si può dire né sì né no. Io mi battevo nel mio partito per l’astensione e vinsi. Fu una delle poche battaglie che ho vinto nella mia vita di partito. Ma ottenni allora che il partito si astenesse, e feci io la dichiarazione di voto. Motivai la nostra astensione, spiegando le ragioni di adesione alla spinta sopranazionale, ma di opposizione alla strumentalizzazione che le veniva data. Credo che anche sotto questo profilo, oggi, non mi debba pentire delle cose dette. I comunisti mi attaccarono allora piuttosto duramente sull’Unità, ed io risposi con pari moneta sull’Avanti! Oggi leggo con piacere che i compagni comunisti hanno rinunciato a chiedere l’annullamento del Trattato di Roma; chiedono la revisione. Benissimo. La Comunità, ma una Comunità diversa, una Comunità più democratica, più rispondente a quella che è la nostra visione dei rapporti umani, sociali, economici nel mondo. Questa rimane tuttora la mia posizione. Credo che sia necessario fare delle grandi battaglie per ottenere questi risultati.

(…) la Comunità non ha risposto non dico a quelle che erano le sue aspettative più ottimistiche, ma neanche alle sue premesse. Il Trattato nel preambolo poneva dei fini alla Comunità ed uno dei fini era quello di superare gli squilibri; viceversa la Comunità li ha aggravati. Quindi una Comunità così concepita, così funzionante ha dato prova negativa. Si pone ora il problema di come uscire da questa situazione: la Comunità c’è; ha funzionato male; che cosa possiamo fare per migliorare questa situazione? Esiste questo problema notevole: la democratizzazione delle istituzioni, in modo particolare del Parlamento. Debbo dire che per quanto riguarda la proposta di legge pendente davanti al Senato, se sarà presentata la voterò senz’altro. La voterò nel senso che ha ricordato il prof. Petrilli: essa può essere un fatto importante che serva a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica; ma non può mutare la sostanza. I Trattati infatti stabiliscono che i membri del parlamento debbono essere eletti dal parlamento e delegati da esso, quindi la designazione popolare può essere fatta soltanto scegliendo membri di quel consesso, perché altrimenti non possono andare al parlamento europeo. Ma è una battaglia politica; ed io credo che anche le rivoluzioni più profonde esigono sempre delle mediazioni che chiamerei culturali. Non ho mai pensato che le rivoluzioni si facciano soltanto con i mitra sulle barricate. Anzi, credo che più andremo avanti meno serviranno i mitra sulle barricate. Quindi sono abbastanza seguace di Hegel quando dice che le idee hanno mani e piedi e camminano; sono seguace, se volete, di Marx, quando dite che la rivoluzione è una talpa: lavora sotterraneamente, invadendo poco a poco le coscienze, ed un giorno ci si accorge che il mondo così come è, non può essere più vissuto. Certamente nessuno si aspettava nel 1877 la Rivoluzione francese, e Lenin stesso nel 1916 tenne una conferenza in Svizzera dicendo: “Io non vedrò mai la rivoluzione russa”. Cioè le situazioni maturano e scoppiano in un modo che nessuno si aspetta. Ci sono delle vie sotterranee, inafferrabili. Le idee penetrano nelle coscienze.

(…) Noi assistiamo alla decadenza generale dei poteri parlamentari e quindi non vorrei che ci facessimo troppe illusioni, su ciò che riusciremo ad ottenere. I Trattati di Roma prevedono l’elezione a suffragio universale del parlamento europeo. Se riusciremo ad arrivarci, avremo democratizzato la Comunità. Avremo creato uno strumento più democratico, avremo fatto un passo avanti; ma non pensiamo di aver così risolto il problema della democrazia.

(…) Perché considero il problema delle società multinazionali molto importante? Esse sottraggono i centri decisionali a coloro che di quelle decisioni sono poi le vittime. In particolare la “multinazionale” priva lo stato sottosviluppato, lo stato emergente, di qualunque potere decisionale sulla propria sorte, sul proprio futuro. Questa sorte viene decisa al consiglio di amministrazione della “multinazionale”, al di fuori dalla sede di coloro che sono interessati, del popolo che è interessato. Anche l’ONU ha giudicato le “multinazionali”. La “multinazionale” è un’istituzione, diciamo ambigua perché è nella realtà multinazionale, ma giuridicamente è nazionale… Il problema è molto ingarbugliato, molto complicato. In realtà queste società sono delle grosse autorità, hanno un grosso potere di fatto, che esiste a livello internazionale e viceversa non esiste alcun contropotere. Ora io credo che dovunque vi sia un potere, se non vogliamo che il potere abusi, ci deve essere sempre un contropotere. Dovremmo avere un contropotere, ovunque a livello europeo. Il movimento operaio è paurosamente in ritardo. Una delle cose più impressionanti per me è il ritardo dei sindacati a rendersi conto della necessità di un’unità europea dei sindacati. Si sono fatti adesso i primi timidissimi tentativi. Non so quanti anni ci vorranno ancora. Ricordo di avere in un convegno a Parigi, credo dieci anni fa, lanciato l’idea di un partito socialista europeo e parve un’eresia, un’utopia. Ma era un’eresia, un’utopia da coltivare. Perché proprio nella misura in cui l’Europa esiste (zoppa, mal fatta, ma esiste una certa Comunità di cui subiamo le conseguenze) ebbene noi dovremmo avere appunto degli altri strumenti allo stesso livello europeo da poter opporre. Su questo terreno la sinistra è stata completamente assente.

Vi chiedo scusa di aver forse divagato e di aver detto delle cose che magari non centravano l’argomento. Ve lo avevo detto prima: io sono un dilettante in queste questioni; un “extra moenia”, rispetto al Movimento federalista. Però ci sono cose che vanno, secondo me, profondamente meditate. A me, se così posso dire, la sovranità nazionale non interessa; però c’è una cosa che mi interessa: è la sovranità democratica.  (…) Domani farò qui a Firenze all’Università una conferenza-dibattito sul rapporto fra il tipo di Italia che ci configurammo noi Costituenti quando redigemmo la Costituzione e quella che è oggi. Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”. Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo. E allora, quando arrivano al parlamento i “regolamenti comunitari” e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco. A questo proposito ho fatto una lunga battaglia, mi pare nella legislatura passata. Sono riuscito, per tre anni, a tenere in scacco il governo sulla richiesta di delega per approvare questi, “regolamenti comunitari”, con provvedimento delegato. La mia battaglia non era contro il contenuto dei “regolamenti comunitari”, ma voleva sottolineare un aspetto costituzionale. Posi allora, e non solo io, ponemmo in parecchi – naturalmente fummo messi in minoranza – il problema della validità di questa norma del Trattato, perché, secondo la nostra Costituzione, le leggi vengono approvate dal parlamento: non ci può essere una legge, senza approvazione del parlamento. Quando si dice che un certo Trattato ha delegato ad un’Autorità Comunitaria la facoltà di emanare provvedimenti obbligatori, diciamo che quel Trattato doveva essere ratificato con legge costituzionale, perché era una modifica della costituzione. Senza legge costituzionale, a nostro avviso, quei Trattati, almeno per quel che si riferisce alla legge di ratifica, almeno per quanto riguarda quella disposizione, non potevano essere validi. Il parlamento non può essere spogliato della decisione. Naturalmente chi ha sostenuto questa tesi ha avuto torto. Dopo tre anni di battaglia sono state approvate quelle norme comunitarie che noi avevamo tenute ferme. Però io continuo a considerare che qui quello che conta non è che l’Italia viene spogliata della sovranità nazionale, ma viene spogliata della sovranità popolare, democratica, perché noi abbiamo degli organi, come la Commissione Comunitaria o degli organi puramente di potere esecutivo, come il Consiglio dei ministri, che approvano le disposizioni di legge, non avendone, il potere, secondo la nostra Costituzione. Si invoca sempre la norma per cui il Diritto Internazionale prevale sul Diritto Interno. In realtà questa è una norma che va sempre – come dire – bilanciata con le norme costituzionali, perché se dovesse essere interpretata altrimenti noi arriveremmo alle possibilità più assurde. Ripeto, quella che viene calpestata non è la sovranità nazionale, alla quale possiamo benissimo rinunciare, a condizione che sia rispettato, però, il fondamento della sovranità, che per noi è sempre il popolo e deve essere il popolo.

Questi sono problemi che mi sembrano oggi da tenere in considerazione, nel quadro di una prospettiva che io condivido totalmente. Sono d’accordo che si deve andare avanti verso il superamento delle barriere nazionali, sono d’accordo che si deve andare avanti verso l’abbandono totale, definitivo di ogni forma di nazionalismo. Però devo dire che i problemi sono infinitamente complessi e richiedono interventi a una serie di livelli diversi.

Mi scuso nel fare un’ultima digressione prima di chiudere. Noi siamo in un periodo in cui diciamo, probabilmente con ragione, che storicamente le unità nazionali sono superate, però viviamo un periodo in cui viceversa assistiamo ad una reviviscenza dei problemi nazionali. Ho cercato di darmi una spiegazione, probabilmente è tutta sbagliata come in genere le spiegazioni che mi dò io. Il fatto è, come ho detto prima, che viviamo in una società invivibile. Una delle conseguenze di questa società è la mutilazione dell’uomo. Ognuno viene gettato in una serie di rapporti anonimi, impersonali. La vita moderna spoglia l’uomo delle sue caratteristiche comunitarie. (…) Oggi questa vita comunitaria si è ridotta a brandelli. Allora eccoci alla ricerca di qualche elemento comunitario che ci leghi: e si ricerca la lingua. A mio giudizio, questo riattaccarsi alla lingua, alla propria lingua ritrovare la propria comunità nella lingua, è un tentativo di resistere al livellamento generale, ad un anonimato generale in cui non c’è più niente di comune. Ci conosciamo, ci incontriamo, ci salutiamo, ma in realtà non abbiamo più una partecipazione di uno alla vita dell’altro. Questo elemento, secondo me, è anche da valutare, quando pensiamo ad un movimento federalista che arrivi a superare gli stati e i nazionalismi. Sono d’accordo, ma ripeto, non dimentichiamo che l’uomo deve essere ancorato non solo ad una grande comunità, ma anche alla piccola comunità dei giorni feriali.

 

 

 

 

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