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Enzo Traverso: Il Nuovo Anti-comunismo: Rileggendo il ventesimo secolo

locandina del film Reds di Warren Beatty dedicato al giornalista comunista americano John Reed, autore del più noto resoconto della Rivoluzione d’Ottobre

Dopo la vergognosa risoluzione del parlamento europeo che equipara il comunismo al fascismo mi sembra opportuno socializzare la traduzione di un saggio dello storico Enzo Traverso apparsa nel 2007 nella raccolta History and Revolution. Refuting Revisionism purtroppo mai edita in Italia. Traverso analizza il nuovo anticomunismo divenuto egemone dopo il 1989. In italiano i temi del saggio sono diffusamente trattati nel suo libro Il secolo armato. Sulla risoluzione segnalo mio comunicato  e appello per il rispetto della memoria e della storia che vi invito a sottoscrivere.

Il Nuovo Anti-comunismo. Rileggendo il ventesimo secolo

Enzo Traverso

Come molti analisti hanno osservato con grande stupore, la caduta dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda non inaugurano un approccio alla storia del XX secolo più ‘obiettivo’, meno orientato dalla passione e dall’ideologia, ma piuttosto una nuova ondata di anti-comunismo: un anti-comunismo ‘militante’, combattente, tanto più paradossale in quanto il suo nemico aveva cessato di esistere. In un certo senso, Parigi è la sua capitale. Ha raggiunto il suo apice nel 1995 con la pubblicazione de Il passato di un’illusione di Francois Furet.1 Due anni dopo è arrivato Il libro nero del comunismo, un’antologia curata da Stephane Courtois, il cui scopo era quello di dimostrare che il comunismo era molto più micidiale del nazismo.2

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, la vecchia scuola di storici della Guerra Fredda sembra aver riscoperto la sua gioventù, come mostrano La rivoluzione russa di Richard Pipes (1990) e La tragedia sovietica di Martin Malia (1994).3 In questo contesto Ernst Nolte, uno storico conservatore che era stato isolato dal tempo della Historikerstreit della metà degli anni ’80, quando Jurgen Habermas e molti storici tedeschi lo avevano accusato di riabilitare il passato nazista, ha raggiunto improvvisamente una nuova legittimazione.4 Il vecchio revisionismo è diventato accettabile, e anche alla moda. Lodato da Furet in una lunga nota in calce a Il passato di un’illusione, lo studioso un tempo impopolare è oggi molto apprezzato in Francia, dove molti dei suoi libri sono stati pubblicati (da ultimo la sua molto controversa Der Europaische Bürgerkrieg, La guerra civile europea).5

Questi storici non possono essere ammassati insieme senza una spiegazione. In effetti, essi non appartengono nè allo stesso contesto nazionale nè alla stessa generazione intellettuale; inoltre, la qualità  delle loro opere è molto eterogenea. Tuttavia, lo scambio di lettere tra Nolte e Furet6 da un lato e la prefazione di Courtois all’edizione francese di La guerra civile europea di Nolte dall’altro, rivelano una serie di ‘affinità elettive’ e forgiano una sorta di fronte unito nel dibattito storico e politico presente. Al di là  delle divergenze metodologiche, le loro battaglie, come storici ‘impegnati’ convergono su un punto essenziale: l’anticomunismo sollevato al rango di un paradigma storico, una chiave ermeneutica per il XX secolo. Sul banco degli imputati è la rivoluzione russa, affrontata in modi diversi, ma sempre interpretata come il primo passo verso il totalitarismo moderno.

All’interno di questa ondata anti-comunista, Nolte appare come un precursore. Percepito come uno storico di sinistra da molti osservatori, all’inizio degli anni ’60, quando pubblicò I tre volti del fascismo,7 ha preso la guida tra gli storici conservatori tedeschi a partire dalla metà degli anni ’80, con lo scoppio della Historikerstreit. Ex-allievo di Martin Heidegger, egli appartiene ad una tradizione intellettuale del nazionalismo e del conservatorismo che possiede senza dubbio, da Treitschke a Meinecke e da Heidegger a Schmitt, i suoi titres de noblesse. Ma il suo posto all’interno di questa corrente è quello di un epigono, in un tempo in cui essa ha perso qualsiasi grandezza o il potere di affascinare e il suo appello apocalittico come un’eco distante del passato. Oggi, questa cultura ha abbandonato le sue tendenze radicali e si adatta a un conservatorismo più convenzionale. Dopo la seconda guerra mondiale, la `rivoluzione conservatrice’ ha cessato di esistere. Tutto ciò che rimane è un orgoglio nazionale ferito, a volte un risentimento nazionalista, e più spesso una visione apologetica del passato tedesco8. Tutte queste caratteristiche pervadono l’opera di Ernst Nolte.

Molti scrittori prima di lui hanno interpretato il ventesimo secolo come un periodo di guerra civile, prima europea e poi internazionale. Il concetto di `guerra civile mondiale'(Weltburgerkrieg) appare già negli scritti di Ernst Junger e Carl Schmitt.9 Junger la utilizzò nel suo diario di guerra nel 1942, vale a dire in un passaggio dedicato alla sua visita al fronte orientale. Schmitt la usò in Der Nomos der Erde, il suo primo lavoro pubblicato dopo la guerra, in cui analizzava la crisi del Jus Publicum Europeum, vale a dire l’ordine internazionale creato con la Riforma ed effettivamente distrutto negli spasmi delle guerre totali del ventesimo secolo.10 In questa prospettiva, la guerra civile è stata l’apogeo del `politico’ concepito come il luogo di un conflitto ‘esistenziale’  tra ‘amico’ e ‘nemico’. Questo concetto sarebbe stato in seguito utilizzato da diversi storici, spesso sull’altro lato dello spettro politico, come Arno J. Mayer e Dan Diner. In modi diversi, hanno analizzato il periodo 1914-45 come il culmine di una moderna ‘Guerra dei Trent’anni’, sottolineando che la Seconda Guerra Mondiale fu al un tempo stesso un conflitto militare, geo-politico e ideologico in cui si scontrarono non solo le grandi potenze, ma anche antitetiche visioni globali (in una sorta di Weltanschauungskrieg).11

Nolte suggerisce una diversa interpretazione. A suo parere la `guerra civile europea’ non è iniziata nel 1914 con la caduta dell’antico ordine imperiale e dinastico, lo scoppio di una guerra mondiale, la brutalizzazione della vita politica nel vecchio continente e l’apertura di un nuovo ciclo di rivoluzioni e contro-rivoluzioni che alla fine condussero al totalitarismo moderno. Secondo Nolte la `guerra civile europea’ iniziò nel 1917 con la rivoluzione russa che fu seguita due anni dopo dalla nascita dell’Internazionale comunista, un ‘partito della guerra civile mondiale’.12 Questa è la tesi ben nota che ha provocato una violenta polemica tra gli storici tedeschi nel 1986: Auschwitz come una `copia’ naturalmente estrema, ma comunque derivata di una barbarie `asiatica’ originariamente introdotta in Europa dai bolscevichi. Come possiamo spiegare i crimini nazisti, che sono stati perpetrati da un regime nato in una nazione europea moderna e civile? Secondo Nolte la risposta sta nel trauma provocato in Germania dalla Rivoluzione d’Ottobre. Essendo il primo regime totalitario ad adottare una politica di terrore e di ‘sterminio di classe’ fin dall’inizio della guerra civile russa il bolscevismo ha agito sulla mente tedesca sia come una ‘immagine spaventosa’ (Schreckbild) che come un ‘modello’ (Vorbild).13 Perciò il genocidio nazista e le pratiche criminali possono essere interpretate come una reazione ‘esacerbata’ ad una minaccia di annientamento incarnata dal bolscevismo russo. In altre parole Nolte considera l’antisemitismo nazista come un ‘particolare tipo di anti-Bolscevismo’ e il genocidio degli ebrei come ‘l’immagine invertita di un altro sterminio, quello di un mondo di classe, da parte dei Bolscevichi’.14 Al fine di difendere la sua tesi Nolte sottolinea l’entità  eccezionale del coinvolgimento degli ebrei nel movimento comunista centro-europeo russo. Dal momento che gli ebrei erano considerati responsabili dei massacri perpetrati dal regime bolscevico (la distruzione della borghesia) i nazisti conclusero che dovevano `sterminarli sia come ritorsione che come misura preventiva’. Auschwitz viene così spiegata dal gulag, ‘il precursore’ logico e fattuale dei crimini nazisti, come Nolte ha scritto nel suo articolo famigerato nel 1986.15

È interessante osservare che in questa ricostruzione delle origini del totalitarismo la collettivizzazione dell’agricoltura sovietica all’inizio degli anni ’30 è praticamente ignorata. La morte di diversi milioni di contadini russi e ucraini per fame e deportazioni di massa appare molto meno importante nell’approccio di Nolte rispetto alla violenza della guerra civile dopo la rivoluzione. Allo stesso tempo la sua ricostruzione della storia della guerra civile russa è molto superficiale (su questo punto il suo libro è incomparabilmente meno ben documentato che le opere di Edward H.Carr, Orlando Figes o Nicolas Werth).16 Ad esempio lui non dà  la stima del numero di vittime. La sua attenzione si concentra meno sui veri orrori di questo conflitto che sulla sua rappresentazione e le distorsioni nella coscienza collettiva tedesca. La sua tesi sul carattere fondante della violenza bolscevica e sulle origini derivative, ‘reattive’ del nazismo poggia su una base estremamente debole e controversa. Infatti, la sua fonte primaria chiave è la propaganda contro-rivoluzionaria. Perciò egli accetta come moneta corrente i vari (mai verificati) resoconti diffusi da emigrati zaristi e nazionalisti sulle torture praticate da una immaginaria ‘?eka cinese”. In particolare egli resuscita la leggenda spaventosa della “gabbia di topi'(Rattenkafig) che è stata narrata in diverse versioni da Octave Mirbeau a George Orwell.17 La fonte primaria di Nolte è una citazione di seconda mano. Nel 1924 Serguei Melgunov un emigrato social-rivoluzionario russo pubblicò a Berlino Terrore Rosso in Russia. Dopo aver ammonito contro diverse evidenti ‘esagerazioni’, Melgunov spese molte pagine citando un altro esiliato, cioé i resoconti della guerra civile russa di R. Nilostonsky.18  Esaminando le diverse fonti di Nolte, lo  storico tedesco Hans-Ulrich Wehler ha collocato queste citazioni nel loro contesto originale; un opuscolo di propaganda dei Bianchi pubblicato a Berlino nel 1920, Der Blutrausch des Bolschewismus (La sete di sangue del bolscevismo) essenzialmente dedicato a descrivere le atrocità  della ?eka. Wehler dà un esempio della prosa del libretto: ‘Dietro l’impostura comunista di Mosca vi è il trionfo dell’imperialismo mondiale ebraico che secondo la tesi del Congresso Sionista deve essere realizzato attraverso lo sterminio spietato di tutta la popolazione cristiana’.19 Naturalmente questa leggenda della ?eka cinese fu poi diffusa prima dal quotidiano nazista Völkischer Beobachter e poi in un altro opuscolo di Alfred Rosenberg, Peste in terra russa. Insieme a molte altre dichiarazioni della propaganda sulla violenza bolscevica al tempo della guerra civile russa, questa leggenda costituisce la essenziale base ‘documentaria’ sulla quale Nolte, costruisce la sua interpretazione del nazismo, dell’antisemitismo di Hitler e della natura ‘preventiva’ della guerra tedesca contro l’Unione Sovietica.

La collezione di citazioni di Nolte non prova una tesi, ma evoca una certa atmosfera. A causa della sua abbondante documentazione il suo libro non è privo di interesse come studio della percezione del bolscevismo nella Germania nazista. Allo stesso tempo la completa mancanza di distanza critica dalle sue fonti e la sua adesione a una ‘immagine del nemico’ di questo tipo sono sorprendenti. Dopo aver presentato il nazismo come una forma del bolscevismo rovesciata, racconta la storia di quest’ultimo prendendo in prestito molti stereotipi dalla letteratura conservatrice tedesca degli anni ’30, che riproduce tutte le sue paure e fobie irrazionali.20 Nolte afferra genuinamente una caratteristica essenziale del nazismo: la sua natura controrivoluzionaria, quella di un movimento nato come reazione contro la rivoluzione russa e lo spartachismo tedesco, come una forza militante anti-marxista e anti-comunista. Questo è vero del fascismo – di Mussolini così come di Hitler – e della contro-rivoluzione più in generale, che à sempre inestricabilmente, ‘simbioticamente’ legata alla rivoluzione. L’Ottobre 1917 provocò un trauma spaventoso tra la borghesia europea, paragonabile per molti aspetti allo shock provato dalla nobiltà dopo il 1789. La dittatura sovietica, così come le repubbliche sovietiche effimere che apparvero in Baviera e in Ungheria nel 1919-20, diffuse paura e anche panico tra le classi dirigenti. Tuttavia questo è solo un aspetto del problema e sarebbe molto riduttivo ridurre le origini del nazismo a questa dimensione. Certamente la crisi politica del dopoguerra ha creato le condizioni per la sua nascita, contrariamente alle tesi di Sternhell, che data gli inizi del fascismo alla fine del XIX secolo, nella Francia dell’Affare Dreyfus 21 – ma molte componenti della sua ideologia e in particolare il suo antisemitismo erano più vecchi della rivoluzione russa. Senza dubbio le rivoluzioni accentuarono un odio già diffuso verso gli ebrei, ma l’antisemitismo nazista era fortemente radicato nella tradizione del nazionalismo volkisch che aveva impregnato le diverse tendenze della cultura conservatrice tedesca per diversi decenni. L’antisemitismo di Hitler si è formato a Vienna all’inizio del XX secolo quando non poteva essere contaminato dall’anti-comunismo né alimentato dal ruolo degli ebrei nella rivoluzione russa e dagli sconvolgimenti politici in Europa centrale.22

Seguendo una tendenza che per la prima volta apparve dopo il 1789, la contro-rivoluzione non si limita semplicemente a ‘ripristinare’ il vecchio regime; essa ‘trascende’ il passato assumendo una dimensione moderna, cercando di costruire un nuovo ordine sociale e politico, agendo come una ‘rivoluzione contro la rivoluzione’ (il che spiega la forte retorica ‘rivoluzionaria’ e lo stile sia del fascismo italiano che di quello tedesco).23 Ma il contenuto della contro-rivoluzione fascista è più vecchio; elabora e mobilita tutta una serie di elementi culturali e ideologici preesistenti in una nuova sintesi. Il nazionalismo e l’imperialismo, il pan-germanesimo e l’idea di ‘spazio vitale’, l’antisemitismo ‘redentore’ e il razzismo, l’eugenetica e lo sterminio delle ‘razze inferiori’, l’odio per la sinistra e la dittatura carismatica sono tendenze che si presentavano in forme più o meno sviluppate dalla fine del XIX secolo in poi. Il nazismo non le ha create, le ha semplicemente radicalizzate.

A differenza della rivoluzione francese, che, propagata dalle armate di Napoleone, fu veramente all’origine di una guerra civile europea, la rivoluzione russa entrò in una fase di ‘internalizzazione’ dopo la sconfitta dei vari tentativi insurrezionali in Europa centrale. Nata durante una guerra mondiale, condusse prima ad una guerra civile interna e poi allo stalinismo. Dopo le difficoltà degli anni ’20 e la stabilizzazione delle sue frontiere, il regime sovietico non attaccò il capitalismo internazionale – con il quale cercava di stabilire un modus vivendi – ma piuttosto lanciò una guerra interna contro i contadini e la società tradizionale russa. Da parte sua, Hitler probabilmente considerava l’Unione Sovietica una dittatura di classe, ma la sua immagine del nemico è stata filtrata attraverso le categorie dell’eugenetica e della biologia razziale. Ai suoi occhi, l’URSS rappresentava la minaccia di una rivoluzione distruttiva, non come la forza trainante del proletariato internazionale, ma essenzialmente come il risultato di un’alleanza diabolica tra l’intellighenzia ebraica e la ‘subumanità’ slava (Untermenschentum).24 Il nazismo percepiva il comunismo come un nemico mortale incarnando una forza antinazionale; il proletariato era solo il suo corpo sociale non il suo vero soggetto. Il genocidio degli ebrei non è stato concepito come una risposta a un presunto sterminio di classe ma molto di più in termini darwinismo sociale, come un passo necessario in un processo di selezione naturale, come la conquista dello ‘spazio vitale’ per la razza superiore. Se il nazismo ha realizzato la fusione di tre diverse lotte – un assalto coloniale sul mondo slavo, una lotta politica contro il comunismo e l’Unione Sovietica, e una lotta razziale contro gli ebrei – in una guerra unica di conquista e di sterminio25 significa che il suo modello potrebbe non essere il bolscevismo. Sarebbe più pertinente e coerente trovare il suo ‘modello’ nelle guerre coloniali del XIX secolo, che sono state effettivamente concepite dalle potenze imperialiste europee come l’appropriazione di ‘spazio vitale’, un saccheggio colossale dei territori conquistati, un processo di asservimento dei popoli indigeni e, secondo un modello darwinista sociale, la distruzione di ‘razze inferiori’. Queste guerre coloniali hanno spesso assunto la forma di campagne di sterminio da parte di eserciti europei che erano convinti che stavano portando avanti una ‘missione civilizzatrice’. In un completamente diverso contesto storico, erano ispirati dallo stesso fanatismo e spirito di crociata che caratterizzò la guerra nazista contro l’Unione Sovietica. ‘Sterminate tutti i bruti!’: questo slogan, evocato da Joseph Conrad in Cuore di tenebra, è stato applicato dagli europei in Africa nella seconda metà del XIX secolo, prima di essere adottato dai nazisti in Polonia, Ucraina e Russia durante la seconda guerra mondiale. In contraddizione con la sua tesi, Nolte stesso ricorda questo aspetto essenziale della guerra tedesca sottolineando l’intenzione di Hitler di trasformare il mondo slavo in una specie di ‘India tedesca’. Nolte cita il commissario del Reich Erich Koch che sosteneva di stare conducendo una guerra coloniale in Ucraina ‘come tra negri’.26 Durante il primo periodo della guerra sul fronte orientale nel 1941-42 le ‘conversazioni a tavola’ di Hitler con Bormann erano piene zeppe di riferimenti al futuro dell’Europa orientale come un impero per i tedeschi comparabile con quello che l’Asia, l’Africa e il Far West erano state per inglesi, francesi e USA.27 Il laboratorio storico per i crimini nazisti non fu la Russia bolscevica, ma il passato coloniale della civiltà occidentale nell’epoca classica del capitalismo industriale, del colonialismo imperialista e del liberalismo politico. Formulandolo con le parole di Nolte, potremmo definire in modo appropriato questo contesto storico come il ‘nesso causale’ e il ‘precedente logico e fattuale’ per la violenza nazista. Ma non è affatto sorprendente che il nuovo paradigma anti-comunista ignori completamente questa genealogia storica.

Possiamo riconoscere un elemento di verità  nella osservazione di Nolte che la Germania nazista è apparsa quasi come un Rechtsstaat in confronto con l’USSR di Stalin.28 Naturalmente questo significa considerare il Terzo Reich uno Stato basato su un ordinamento giuridico non uno stato liberale. L’immagine hobbesiana di Behemoth, il mostro biblico evocata da Franz Neumann al fine di descrivere la Germania nazista come ‘un non-stato, un caos, un regno dell’illegalità e dell’anarchia’,29 potrebbe probabilmente essere applicata più appropriatamente all’URSS di Stalin che al regime nazista. L’Unione Sovietica fu creata da una rivoluzione che aveva profondamente modificato la struttura di classe della società. A differenza della Germania, dove le élite economiche, burocratiche e militari tradizionali avevano mantenuto il loro potere, la rivoluzione aveva ‘livellato’ la struttura della società e creato nuove gerarchie politiche. Nella misura in cui il regime politico si basava su una nuova struttura sociale in cui erano aboliti tutti i privilegi tradizionali, nessuno poteva evitare la minaccia della repressione e della deportazione. Al culmine del grande Terrore, qualsiasi kulak poteva diventare un nemico del socialismo, ogni membro del partito poteva essere una spia segreta, qualsiasi tecnico poteva essere un sabotatore, ogni ex-menscevico poteva essere un contro-rivoluzionario, qualsiasi membro di lunga data del partito poteva essere sospettato di trotzkismo e condannato come un traditore, ecc. Nella Germania nazista al contrario la violenza era strettamente codificata. Con l’ovvia eccezione degli antifascisti politici (in particolare socialdemocratici e comunisti) i suoi obiettivi erano varie minoranze classificate come non appartenenti al Volk germanico e come nemici della ‘razza ariana’: ebrei, zingari, congenitamente malati, omosessuali, persone ‘asociali’, ecc. A differenza degli antifascisti che furono perseguitati a causa delle loro attività politiche, il ‘crimine’ di queste minoranze era semplicemente di essere vive. L’ordine politico che corrispondeva a questa gerarchia razziale-biologica della società era ovviamente disumano e profondamente antidemocratico ma non necessariamente ‘irrazionale o caotico’. In altre parole, il terrore nazista non minacciava la società nel suo complesso.

Prigioniero delle contraddizioni della ‘poliarchia’ nazista, il sistema totalitario tedesco non era più completo o efficace di quello di Stalin. Il fatto è che lo stalinismo non aveva alcuna relazione con la Weltanschauung razzista e biologica che ispirava i crimini nazisti.30 Lo stalinismo da un lato era caratterizzato da uno stato di polizia, la repressione cieca, una organizzazione totalitaria della società, lo ‘sfruttamento feudale-militare’ dei contadini (nelle parole di Bucharin), la deportazione delle popolazioni giudicate ‘non affidabili’ o sospette, in base a criteri paranoici di collaborazione con il nemico. Il nazismo d’altro lato era caratterizzato in primo luogo da una società ‘sincronizzata’ (gleischhaltet) che era organizzata lungo linee etniche e razziali, poi da una guerra coloniale per la conquista dello ‘spazio vitale’ tedesco nel mondo slavo e da una guerra di sterminio contro gli ebrei, entrambe convergenti nella distruzione dell’URSS e del ‘giudeo-bolscevismo’. Questi modelli completamente diversi escludono l’ipotesi di un ‘nesso causale’ tra i crimini del nazismo e dello stalinismo. Essi inoltre limitano considerevolmente il valore del concetto di totalitarismo che si basa sulla loro somiglianze formali. L’interpretazione delle origini del totalitarismo proposta da Nolte nasconde una fonte essenziale del nazismo: l’eugenetica con i suoi progetti di purificazione razziale (fino al punto dell’eutanasia). Sviluppata in Europa occidentale a partire dalla fine del XIX secolo nell’epoca del liberalismo classico questa ideologia divenne l’asse centrale del progetto politico nazista.31

Dimenticando questi aspetti fondamentali, l’analogia di Nolte assume inevitabilmente un sapore di scusa. Nel suo libro utilizza il concetto di genocidio in modo molto ampio e non molto rigoroso. Da un lato riconosce il carattere peculiare delle politiche di genocidio nazista ma d’altra parte egli applica questa parola a tutte le violenze che si verificano durante la Seconda Guerra Mondiale. Ad esempio, egli attribuisce una ‘intenzione apertamente genocida’ a Churchill, citando alcuni passi di una lettera a Lord Beaverbrook nel giugno 1940, in cui il primo ministro britannico menzionava i mezzi da impiegare nella guerra contro la Germania. Nolte definisce la deportazione dei ‘popoli puniti’ in URSS come ‘massacri etnici praticati in una maniera repressiva e preventiva’. Infine qualifica la guerra anglo-americana contro la Germania nazista come ‘quasi esclusivamente una guerra di sterminio’ aggiungendo che l’espulsione delle popolazioni che vivono oltre la linea Oder-Neisse è stato un ‘omicidio etnico’.32 Naturalmente tali confronti sono altamente discutibili: cancellano ogni distinzione tra il genocidio “lo sterminio pianificato di un gruppo umano“ e lo spostamento forzato di una popolazione, quantunque autoritario, disumano e riprovevole possa essere, così come tra i crimini di genocidio e di guerra (una categoria a cui potremmo consegnare il bombardamento di civili tedeschi tra il 1942 e il 1945). Ma il problema principale sollevato da tutti questi confronti risiede nella loro struttura ermeneutica: la spiegazione di Auschwitz e della guerra nazista più in generale come un genocidio preventivo e una guerra preventiva entrambi generati da un regime di fronte alla minaccia di una terribile distruzione e agendo con un istinto elementare di auto-difesa.

Durante l’Historikerstreit, Habermas descrisse la tesi di Nolte come ‘una sorta di riduzione del danno’ (ein Art Schadensabwicklung)33 che ha permesso a Nolte di offuscare tutte le radici tedesche del nazismo e attribuire i suoi crimini, anche se indirettamente, al bolscevismo. Secondo Saul Friedlander, l’approccio di Nolte tende a modificare radicalmente il quadro storico, spostando la Germania nel suo complesso sul lato delle vittime.34 Nella visione di Nolte, la Germania non appare come una società divisa tra uno zoccolo duro di carnefici, un altro più o meno ampio strato di complici e, con l’eccezione di una minoranza di oppositori antifascisti, una grande maggioranza di spettatori passivi, ma come un unico blocco di vittime, come una nazione minacciata che naturalmente si identificò con il regime che cercò di organizzare la sua difesa (e smarrì la strada negli eccessi criminali). In questo modo, Nolte evacua semplicemente la questione della ‘colpa tedesca’ (Deutsche Schuldfrage), una questione che Karl Jaspers sollevò nel 1945 e che potrebbe essere facilmente estesa a tutta l’Europa occupata dal Terzo Reich. Jaspers distinse quattro diverse forme di colpa: la colpa penale dei responsabili diretti, la colpa politica delle istituzioni e delle forze organizzate che sostennero il potere di Hitler, il senso di colpa individuale dei complici, e la ‘colpa’ metafisica di tutti i cittadini che riconobbero il carattere criminale del regime nazista, ma lo accettarono senza protestare. Definita in questo modo, la colpa era la fonte di una responsabilità storica che la nazione tedesca era obbligata ad assumere al fine di riconquistare il suo posto all’interno nella comunità internazionale35. Al contrario, l’interpretazione di Nolte della ‘guerra civile europea’ mette la Germania nel suo complesso sul lato delle vittime compreso il regime nazista, perché fu minacciata la prima volta da una rivolta bolscevica diretta da Mosca e poi da una guerra di sterminio condotta da entrambe le forze militari sovietiche e Alleate. Il persecutore trasformato in una vittima: il revisionismo di Nolte si trova in questo rovesciamento di prospettiva storica. Molto più di un canone della storiografia, che è molto difficile da definire, questo revisionismo riguarda una coscienza storica diffusa. Un corollario di queste premesse è l’inclinazione di Nolte a legittimare – senza condividerla- la negazione dell’Olocausto, attribuendo ai suoi sostenitori una serie di ‘spesso onorevoli’ motivationi.36 Per esempio, nella sua corrispondenza con Furet, scrive che la negazione ‘dovrebbe essere accettata come un fenomeno interno allo sviluppo scientifico’.37 Anche se espresse riserve scettiche su questa posizione, lo storico francese non fu scandalizzato da un tale atteggiamento compiacente. Nonostante le loro a volte considerevoli divergenze storiche, Furet accordò al suo collega tedesco la sua stima e ammirazione. In ultima analisi, trovarono un terreno comune – potremmo dire una comune passione – nell’anti-comunismo, a cui hanno aggiunto un corollario importante: l’anti-anti-fascismo. Questo è stato sufficiente a trasformare tutti i loro disaccordi in un normale ‘scambio di idee’. Secondo Nolte, l’antifascismo fu solo la maschera di un regime totalitario. Con l’eccezione di alcuni dettagli, Furet condivise questo punto di vista. In Il passato di un’illusione, l’antifascismo è ridotto a un aspetto dell’ideologia stalinista, come una sorta di camuffamento democratico, o uno stratagemma che permette al bolscevismo ‘nel momento del grande Terrore di presentarsi come la libertà in virtù di una negazione’.38 Leggendo Furet, si potrebbe facilmente concludere che né l’antifascismo democratico né il comunismo anti-stalinista siano mai esistiti.

Nella prefazione all’edizione francese del suo libro sulla ‘guerra civile europea’, Nolte qualifica il marxismo come una ‘ideologia di sterminio’ e il bolscevismo, ‘la sua applicazione pratica’, come una ‘realtà di sterminio’.42 Difficilmente possiamo trovare formulazioni simili negli scritti di Furet. Seguendo Raymond Aron, era ancora in grado di distinguere tra campi di concentramento come Buchenwald e Dachau, il cui obiettivo era il lavoro forzato e dove la morte era il risultato delle condizioni imposte ai detenuti, e campi di sterminio come Treblinka e Auschwitz-Birkenau, che in realtà  funzionavano come fabbriche di uccisione.43 Questa differenza è implicitamente cancellata nell’introduzione di Courtois al Libro nero del comunismo, dove afferma un’omologia strutturale tra il genocidio di classe comunista e il genocidio di ‘azza nazista.44 In un saggio più recente Courtois si spinge anche più avanti. Ora presenta la Lubianka, l’edificio della GPU di Mosca, come un ‘centro di uccisione’ del tutto paragonabile ad Auschwitz, la cui unica differenza risiede nei mezzi di distruzione utilizzati: da un lato le esecuzioni tradizionali con armi da fuoco, dall’altro le camere a gas. (Una posizione molto simile fu assunta in precedenza, durante l’Historikerstreit, dal biografo di Hitler, Joachim Fest.)45

Nel 1947, Herbert Marcuse interruppe la corrispondenza che aveva appena iniziato con Martin Heidegger, il suo ex-mentore, a causa dell’atteggiamento apologetico di Heidegger verso il nazismo, che rendeva impossibile ogni dialogo. Heidegger rifiutava di distinguere tra lo sterminio degli ebrei da parte del nazismo e l’espulsione dei tedeschi che vivevano al di fuori delle nuove frontiere tedesche.39 Nel 1986, Habermas ha mostrato la stessa indignazione verso Nolte. Con la compostezza del suo liberalismo blasé, Furet riservava il suo disprezzo per altri avversari. Quando Nolte suggerisce di dare credibilità scientifica alla negazione dell’Olocausto, Furet esprime solo educato scetticismo, una mera ombra del sarcasmo e della furia polemica che aveva dispiegato alcuni anni prima nel tentativo di demolire la ‘vulgata populista-leninista’ di Claude Mazuric e Albert Soboul relativa all’interpretazione del Rivoluzione Francese.40  Forse Furet cercava di imitare il suo grande modello, Alexis de Tocqueville, che descriveva i socialisti nei suoi Souvenirs come ‘canaglia’ (canailles), ma rimase un amico fedele e complice intellettuale di Gobineau, il fondatore del razzismo moderno, durante tutta la sua vita.41 In sostanza, i nostri tre studiosi condividono una visione comune del comunismo come una ‘ideocrazia’, un sistema politico generato da un essenza ideologica. Il suo antecedente storico è inevitabilmente percepito come il Terrore della Rivoluzione francese. ‘Come nel 1793’, scrive Furet in Il passato di un’illusione, ‘la rivoluzione nel suo complesso deriva dalla idea rivoluzionaria’.46 Secondo Nolte, la rivoluzione francese è stato il primo tentativo storico di ‘realizzare l’idea di sterminare una classe o un gruppo’. Successivamente, i bolscevichi sono stati ispirati da una ‘terapia di sterminio’ precedentemente sviluppata dai rivoluzionari francesi.47 Infine, Courtois considera lo ‘sterminio del popolo’ (popolicidio)48 perpetrato dai giacobini in Vandea come un massacro che prefigura la violenza bolscevica e nazista, tutti e tre essendo l’espressione di una ‘ideocrazia’.

In realtà, la violenza del Terrore giacobino veniva dal basso. Marat, Danton e Robespierre cercarono di organizzarla e contenerla in un quadro giuridico. Era l’espressione di una dittatura di emergenza – Lazare Carnot la definì una dittatura de la détresse – che condusse prima alla levee en masse quando la rivoluzione fu minacciata da una coalizione militare straniera, poi al Comitato di Salute Pubblica, quando la reazione si organizzò all’interno del paese. Secondo Robespierre e Danton, si trattava di sostituire la vendetta popolare, pericolosamente cieca e furiosa, con ‘la spada della legge’. Seguendo Edgar Quinet, Arno J. Mayer analizza la Vandea come una guerra civile classica caratterizzata da eccesso e fanatismo su entrambi i lati. Esprimendo la resistenza cattolica, monarchica e contadina alle trasformazioni rivoluzionarie, la guerra della Vandea prese la forma di una reazione militare, che fu repressa con la forza. La comparazione di oggi con un genocidio,49 Mayer sottolinea, non è affatto appropriata, perché le vittime della Vandea erano essenzialmente soldati. L’obiettivo della ‘furia’ giacobina non era un popolo, ma la contro-rivoluzione, in una regione dove il 90 per cento dei sacerdoti si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà alla nazione, alla legge e alla costituzione e, infine, organizzò un’armata monarchica.50 Ma la spiegazione ‘ideocratica’ permette ai nostri storici conservatori di evitare tutte le analisi storiche.

Il concetto di ‘ideocrazia’ è stato formulato per la prima volta alla fine degli anni ’30 da un emigrato tedesco, Waldemar Gurian, un ex studente di Carl Schmitt, che divenne un teorico di totalitarismo.51 L’età dell’oro di questo concetto è stata la guerra fredda nei primi anni ’50, quando lo storico israeliano Jacob L. Talmon situò le radici delle moderne ideologie totalitarie nelle utopie democratico radicali di Rousseau e Marx.52 Adottando questo punto di vista, molti studiosi hanno presentato la tradizione del pensiero controrivoluzionario come la prima espressione embrionale di una critica del totalitarismo. A differenza di Hannah Arendt, che presentava il rifiuto dei diritti dell’uomo di Edmund Burke come una delle matrici ideologiche del razzismo moderno e in particolare del nazismo, Robert Nisbet celebrò l’autore delle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia come un precursore dei crociati anti-totalitari del XX secolo.53  Tra i più recenti storici a stigmatizzare la ‘ideocrazia’ comunista, i più prolifici sono probabilmente gli americani Richard Pipes e Martin Malia. Inspirato – come Furet – dallo storico reazionario Augustin Cochin, Pipes paragona le ‘Sociétés de pensée’ illuministe francesi ai circoli dell’intellighenzia russa della fine del XIX secolo. Dopo aver sottolineato le affinità profonde, egli conclude che il ‘terrore senza spargimento di sangue’ di tali movimenti intellettuali pose le basi per il ‘terrore sanguinario’ delle dittature rivoluzionarie, sia giacobina che bolscevica. In altre parole, il Comitato di Salute Pubblica deriva dalla Encyclopédie proprio come la ÄŒeka fu un risultato dei circoli populisti dell’epoca zarista. Per quanto riguarda il terrore bianco, le cui vittime ammontarono a diverse centinaia di migliaia di persone tra il 1918 e il 1922, Pipes non ha nulla da dire. Esso semplicemente non è esistito. ‘Il Terrore è radicato nelle idee giacobine di Lenin’, scrive, aggiungendo che il suo obiettivo principale era ‘lo sterminio fisico della “borghesia”’. Possiamo osservare che le virgolette non sono messe attorno al verbo, sterminare, ma all’oggetto, la borghesia, un concetto molto largo comprendente, nella sua interpretazione, non solo una classe sociale, ma, più in generale, ‘tutti quelli che, indipendentemente dalla loro condizione economica e sociale, si opponevano alle politiche bolsceviche’.54 Anche se un po’ meno radicale, Malia sottoscrive la stessa logica. Egli descrive il comunismo come la realizzazione di una innaturale ‘utopia’ e presenta la storia sovietica come la manifestazione di una ideologia dannosa: “Nel mondo creato dalla Rivoluzione d’Ottobre, non siamo mai di fronte ad una società, ma solo a un regime, un regime “ideocratico”.’’55 Tutti questi approcci riducono il nucleo dell’esperienza rivoluzionaria al Terrore “ la Repubblica giacobina del 1793-94 e la dittatura bolscevica del 1918-1922  che può essere essenzialmente, se non esclusivamente, spiegato con categorie come la psicosi, la passione, l’ideologia e il fanatismo. Evocando Tocqueville, Pipes paragona la rivoluzione a un “virus”.56

Da parte sua, Furet la descrive come il trionfo della “illusione della politica”.57 A seguito di questa ipotesi, egli interpretò la storia del comunismo come la traiettoria autarchica di un concetto, privo di qualsiasi dimensione sociale. Di conseguenza, l’esperienza comunista è stata l’ascesa e la caduta di un “illusione”. Nel suo primo libro sulla rivoluzione francese scritto con Denis Richet nel 1965, Furet opponeva il 1789 al 1793, distinguendo tra la rivoluzione liberale e il suo derapage (deragliamento).58 Ma ora, la rivoluzione stessa è vista come un “andare fuori dai binari”. La rivoluzione bolscevica fu intrinsecamente cattiva dal suo inizio. Da questo punto di vista, il comunismo appare fondamentalmente come un’esperienza messianico-politica, una sorta di “religione secolare” praticata dai suoi adepti come una fede e una passione.

Nolte è forse l’unico storico conservatore oggi preoccupato di suggerire un’interpretazione delle origini del totalitarismo. Secondo lui, un filo essenziale nella prima metà della storia del ventesimo secolo sta nella contrapposizione fondamentale tra bolscevismo e nazismo, il primo introducendo la spirale di violenza e radicalizzazione cumulativa che ha portato a una guerra di sterminio. Indifferente alle sue origini, Courtois riduce il comunismo ad un fenomeno semplicemente criminale. La sua lettura del passato cancella tutte le rotture storiche, le sue dimensioni sociali e politiche, e gli a volte tragici dilemmi dei suoi attori, e lo comprime nella continuità lineare di un sistema totalitario. La guerra civile russa, la carestia, la collettivizzazione dell’agricoltura, i gulag e la deportazione non derivano da una molteplicità di cause, e la loro spiegazione può anche sfuggire in amplissima misura al loro contesto storico. Tutte queste vicende diventano semplicemente le diverse manifestazioni esteriori di una stessa ideologia di natura intrinsecamente criminale: il comunismo. Il suo atto di nascita risale al putsch dell’ottobre 1917. Con Courtois, il determinismo ideologico del rapporto tra Rivoluzione e Terrore non ha bisogno di spiegazioni; è semplicemente postulato a priori. Stalin diventa l’esecutore dei progetti di Lenin e Trotsky, e i suoi crimini perdono il carattere “erratico” e “improvvisato” rilevato da storici come Nicolas Werth e Arch Getty.59 Da un lato, appaiono come massacri che sono stati rigorosamente pianificati “ una diagnosi che è accettabile per le grandi purghe e i gulag, ma molto discutibile per la collettivizzazione, il più esteso dei suoi crimini“ e, dall’altro, sono presentati come prodotti delle loro radici ideologiche maligne. Una ideologia criminale, il comunismo, ha causato milioni di vittime: Lenin fu il suo architetto, Stalin il suo esecutore più importante. Questi uomini assumono il ruolo di autentici eroi demiurgici che ricordano, anche se in modo capovolto, i miti del “capo infallibile” e del “grande timoniere” propagandati un tempo dalla vulgata stalinista. In questo modo, la storiografia anti-comunista propone semplicemente, come Claudio Sergio Ingerflom ha giustamente osservato, ‘una versione anti-bolscevica di una storia “bolscevizzata”.60

Spinto in avanti dall’impeto della sua incessante crociata contro il grande male del ventesimo secolo, Courtois dimentica alcune regole di base del confronto storico: mettere gli eventi nel contesto, riconoscere il loro carattere internazionale o nazionale, tenendo presente la durata di un regime politico, ecc. Per esempio, dimentica che a differenza del nazismo, che durò solo dodici anni e subì una continua radicalizzazione fino alla sua implosione durante la guerra, l’URSS esistette per settantaquattro anni e attraversò una fase rivoluzionaria, una “termidoriana”, una totalitaria e una lunga fase post-totalitaria. Agli occhi di Courtois, è semplicemente insignificante considerare il comunismo come un fenomeno plurale e contraddittorio, distinguendo tra Trotsky e Stalin, Bela Kun ed Enrico Berlinguer, Robert Hue e Pol Pot. E’ anche superfluo separare lo stalinismo dalle sue vittime comuniste o fare distinzioni tra i movimenti e i regimi, tra un’utopia rivoluzionaria e una burocrazia dominante, tra modelli di liberazione e quelli di oppressione, o tra un resistente antifascista e un agente del KGB.61 Naturalmente, le frontiere che separano le diverse forme di comunismo non sono sempre perfettamente chiare “a volte possono anche essere molto ambigue“ ma esistono e dovrebbero impedirci di ridurre questo “campo di esperienza” aperto a un fenomeno monolitico. In effetti, Courtois evita scrupolosamente di considerare tali “complicazioni”. Ai suoi occhi, il comunismo è criminale sia come ideologia che come realtà, e sempre identico in ogni momento e in ogni luogo.

Le semplificazioni di Courtois hanno costretto alcuni storici, compresi quelli a lui molto vicini come Marc Lazar, a prendere le distanze. Secondo Lazar, la “colpa fondamentale” di Courtois sta nel suo tentativo di “privilegiare le omologie, molto rare nella realtà [storica], invece di fare analogie”, cioè di discernere gli elementi comuni che possono esistere tra due realtà distinte a livello globale come Nazismo e comunismo.62 Questa è la differenza, secondo Lazar, tra un uso critico e uno meramente ideologico del concetto di totalitarismo. Ma questa critica non convince Courtois, che ripete incessantemente le sue certezze. Chiede una “Norimberga del comunismo” (come il leader fascista francese Jean-Marie Le Pen) e punta il dito accusatore sul “fondamentalismo” dei resoconti sia ebraici che comunisti del passato. Questa è la causa principale, a suo avviso, della riluttanza degli studiosi ad applicare il suo paragone storico (nazismo e comunismo come facce gemelle dello stesso gene totalitario). Se la sua interpretazione è stata ampiamente criticata, lui suggerisce, ciò è dovuto all’influenza odiosa sull’università  e le istituzioni di ricerca francesi fino al 1989 del “formidabile potere ideologico” del comunismo, una “macchina di propaganda perfettamente organizzata dalla fine degli anni Venti e pervasiva nell’opinione pubblica, comprese le università”.63

Fondamentalmente, Courtois non ha inventato nulla. Propone semplicemente una nuova versione della vecchia teoria maccartista della cospirazione comunista. In un saggio del 1950, Isaac Deutscher dipinse un raffinato e acuto ritratto dell’ex -comunista che si trasformò durante la guerra fredda in un viscerale anticomunista, disposto a combattere il totalitarismo sovietico con metodi totalitari. L’ex maoista Stephane Courtois si adatta molto bene a questo tipico ritratto ideale. Spesso, scrive Deutscher, l’ex comunista porta con sé la mancanza di scrupolo, la ristrettezza mentale, il disprezzo per la verità e l’intenso odio con cui lo stalinismo lo ha permeato. Rimane settario. E’ uno stalinista invertito. Continua a vedere il mondo in bianco e nero, ma ora i colori sono distribuiti in modo diverso. Come un comunista egli non vide alcuna differenza tra nazismo e comunismo. Una volta accettò la pretesa di infallibilità del partito; ora crede di essere infallibile. Dopo essere stato catturato dalla “più grande illusione”, ora è ossessionato dalla più grande disillusione del nostro tempo.64

Recensendo Il passato di unìillusione, Eric J. Hobsbawm scrisse che non era il primo libro dell’era post-comunista, ma l’ultimo prodotto della Guerra Fredda.65 Tale valutazione sembra ancora più appropriata per Stephane Courtois. Non ha ereditato dal suo mentore il senso della proporzione, l’erudizione, il piacere della narrazione che contraddistinsero lo stile dello storico della Rivoluzione francese. L’unica eredità che ha ricevuto da Furet è l’anticomunismo.

Tuttavia, criticare i cliché anticomunisti non risolve il problema del confronto storico tra nazionalsocialismo e stalinismo. Naturalmente, ciò richiede una rivalutazione della rivoluzione russa, della guerra civile e del loro rapporto con lo stalinismo. Tali domande non sono affatto chiuse e continuano a suscitare nuove e controverse interpretazioni. Indubbiamente, non possiamo rifiutare gli schemi ideologici della storiografia anticomunista per mezzo di un altro tipo di storicismo apologetico. Alcuni studiosi marxisti furono tentati di invertire lo schema di Nolte o Courtois e di presentare lo stalinismo come risposta a una colossale minaccia all’esistenza dell’URSS stessa. Il nazismo, il cui Blitzkrieg del 1941 dimostrò il suo progetto di sterminio, incarnava questa minaccia; lo stalinismo, con i suoi deplorevoli crimini, fu la conseguenza inevitabile.66 Naturalmente, la risposta stalinista fu sproporzionata e criminale nelle sue estreme conseguenze, ma alla fine fu una politica derivata ed esterna. Questo approccio è la versione simmetrica e marxista del revisionismo storico di Nolte.

Senza dubbio, l’isolamento della rivoluzione russa “ circondata da un mondo capitalista ostile“ negli anni tra le guerre mondiali fu un fatto storico. Possiamo tenere presente questa realtà per spiegare la dittatura, ma non per legittimare la repressione della Ceka, i processi di Mosca, la carestia ucraina o il gulag. Se il concetto di guerra civile europea non è sufficiente per giustificare una spiegazione mono-causale del nazismo, non consente neppure un’analoga analisi dello stalinismo. Possiamo certamente distinguere tra terrore rivoluzionario, nato nel mezzo della guerra civile e alimentato dalla violenza della controrivoluzione, e il terrore stalinista, lanciato come una “rivoluzione dall’alto” all’interno di un paese in pace, non minacciato da reazioni sociali interne né dall’intervento militare straniero.67 Tuttavia, questa differenza non elimina il problema delle politiche bolsceviche all’inizio dell’esperienza sovietica.

Nel periodo che precede la Prima Guerra Mondiale, il marxismo era il background culturale condiviso sia dal bolscevismo russo che dalla socialdemocrazia tedesca, da Lenin e Kautsky. Fino al 1914, Lenin si considerava un discepolo di Kautsky, le cui teorie cercava di applicare all’analisi della società russa.68 Se la stessa ideologia ha ispirato sia gli attori che i più acuti critici della rivoluzione, è difficile concludere, con Nolte e Courtois, che l’ideologia bolscevica produsse la guerra civile russa. Parecchie scelte e misure, come lo scioglimento dell’Assemblea costituente, la censura, la soppressione di tutta l’opposizione politica, le esecuzioni della Ceka, la creazione dei primi campi di lavoro nel 1919 e la repressione dell’insurrezione di Kronstadt due anni dopo, non possono derivare dal marxismo nello stesso modo in cui le leggi di Norimberga e Auschwitz possono essere coerentemente derivate dal Weltanschauung razzista e biologico del nazionalsocialismo. Ma se il Terrore Rosso non fu un sottoprodotto automatico di un’ideologia, sicuramente derivava da scelte politiche. La rapidità con cui una dittatura militare e politica, un regime a partito unico che teorizza e pratica la violenza come mezzo per costruire una nuova società, prese forma in Russia deve essere spiegata. L’entità della repressione e il soffocamento di tutte le critiche “ comprese le critiche che provenivano dall’interno del campo rivoluzionario (Martov ne è un esempio) – non possono essere spiegate esclusivamente come risultato del contesto storico, del Terrore Bianco o della minaccia costituita dalla coalizione militare antisovietica. Inevitabilmente, tali misure sollevano la questione del ruolo svolto dall’ideologia bolscevica nella formazione del totalitarismo sovietico.

Senza dubbio, le scelte del regime sovietico vennero prese in un contesto di guerra civile, la cui violenza era tremendamente grande e omicida. L’entità di questa violenza era un’eredità della prima guerra mondiale – la “brutalizzazione” della vita sociale e politica (nelle parole di George Mosse) – in un paese arretrato senza una tradizione democratica; e la crudezza del conflitto tra le forze sociali e politiche coinvolte nel processo rivoluzionario accentuò inevitabilmente questa tendenza a ricorrere alla violenza quando i bolscevichi presero il potere. Le vecchie istituzioni avevano perso la loro legittimità, il governo di Lenin era sostenuto dai soviet ma sfidato al di fuori di loro, il monopolio statale della violenza era stato rotto, la ribellione contadina era scoppiata in campagna e i soldati desideravano lasciare il fronte. In altre parole, era una guerra civile classica, con tutte le sue “furie”. Come per la levee en masse e la repressione della Vandea in Francia, la Ceka e il comunismo di guerra furono, secondo Arno Mayer, il risultato di un contesto in cui «panico, paura e pragmatismo si mescolavano a arroganza, ideologia e volontà di ferro».69 Il Terrore Rosso fu una risposta al Terrore Bianco, in una situazione di violenza endemica, con la sua spirale di radicalizzazione ed eccesso, che il governo bolscevico cercò di controllare e incanalare. Una volta riconosciuto questo contesto storico, è possibile discutere il ruolo svolto dall’ideologia nella politica bolscevica. Non produsse la guerra civile, ma intensificò i conflitti e accentuò il ricorso alla violenza, contribuendo così all’erezione di un regime autoritario e non democratico, che alla fine distrusse tutte le speranze emancipatorie del 1917.

Il culto della violenza inteso come una “ostetrica” della storia, la completa sottovalutazione del ruolo della legge nel nuovo stato rivoluzionario e una visione normativa della dittatura come strumento di trasformazione sociale; questi elementi non derivavano dalle circostanze, ma aiutavano piuttosto a dare forma alla risposta bolscevica. L’ideologia e il fanatismo hanno avuto un ruolo nel Terrore rosso “ un’opera come Terrorismo e comunismo di Trotsky (1920) 70 ne fu  la sistematizzazione teorica più coerente – proprio come avevano svolto un ruolo nel Terrore giacobino ( severamente criticato da Marx).71 Quando Lenin presentò la sospensione della legge come un modo per superare la “democrazia borghese” e Trotsky identificò la dittatura proletaria con il lavoro forzato e il controllo statale dei sindacati, la violenza aveva perso il suo carattere oggettivamente imposto e spontaneo e divenne un sistema di governo giustificato nel nome della Raison d’Etat.72 Il freddo terrore dello stalinismo, dispiegato attraverso la deportazione dei kulaki e le epurazioni politiche degli anni ’30, non cambia il fatto che le basi del totalitarismo sovietico furono gettate dalla dittatura di Lenin e Trotsky durante la guerra civile. Il risultato delle loro politiche fu probabilmente sotto molti aspetti l’opposto delle loro intenzioni (come Lenin riconobbe nel suo testamento), ma ciò non cambia l’impatto oggettivo delle loro azioni. Victor Serge, una strana combinazione di bolscevico e libertario che partecipò alla Rivoluzione di Ottobre, fu tra i primi a tracciare questo bilancio, nei primi anni ‘30.73 Se non riconosciamo queste evidenti dinamiche, la nostra critica alle reinterpretazioni revisioniste del ventesimo secolo di studiosi anticomunisti come Nolte o Furet apparirà  debole e poco credibile, per non dire altro.

E’ tempo di riassumere le diverse forme del nuovo paradigma anticomunista. Per Nolte, è la chiave per interpretare il secolo scorso, completamente sussunto sotto il segno della guerra civile (prima europea, poi internazionale). Nonostante i suoi limiti e i suoi obiettivi apologetici, la sua visione non è poco interessante, in quanto pone il conflitto tra fascismo e comunismo al centro del secolo. L’anticomunismo di Furet è più in linea con lo Zeitgeist dominante. Dopo aver postulato un’equazione filosoficamente e storicamente discutibile tra capitalismo e democrazia, tende a ridurre sia il fascismo che il comunismo a una tragica parentesi sulla strada inevitabile del liberalismo. “Il vero segreto della complicità tra bolscevismo e fascismo”, scrisse in Il passato di un’illusione, “resta però l’esistenza d’un avversario comune, la democrazia, che le due dottrine rivali riducono o esorcizzano con l’idea che è un avversario agonizzante, sebbene costituisca il loro stesso humus”. 74 Courtois, il meno interessante dei nostri tre studiosi, non va oltre la vecchia assimilazione del comunismo al nazismo, due regimi totalitari basati sullo stesso progetto di sterminio di una classe nemica (la borghesia) o di una razza nemica (gli ebrei). Propone quindi una democrazia liberale liberata dall’eredità  dell’antifascismo “ uno dei suoi elementi costitutivi nell’Europa continentale “ e direttamente basata sull’anticomunismo. Il risentimento nazionale-conservatore (Nolte), lo spirito di vendetta di un crociato in ritardo della guerra fredda (Courtois), un’apologia del liberalismo e un addio storico alla rivoluzione di un intellettuale che ha accettato il capitalismo come l’orizzonte invalicabile del nostro tempo (Furet): queste sono le tre varianti del nuovo paradigma storico anticomunista.

Nessuno di questi tre approcci può cogliere la differenza fondamentale che separa il comunismo dal fascismo, nonostante i loro esiti criminali e le affinità formali dei loro sistemi di governo. Lâ’eredità stalinista, costituita da una montagna di macerie e morti, non ha cancellato le origini del comunismo nella tradizione dell’Illuminismo e nell’umanesimo razionalista del XVIII secolo. Il marxismo discendeva da questa tradizione culturale e fu una delle sue correnti principali fino alla prima guerra mondiale e alla rivoluzione russa. Questa relazione spiega il fatto che molti critici (e vittime) dello stalinismo lo hanno combattuto in nome del marxismo, delle idee comuniste, dei principi democratici e dei valori umanisti. Al contrario, il fascismo e il nazismo, nonostante il loro scientismo razzista e il loro culto della tecnologia moderna, furono esiti estremi del Contro-Illuminismo. “L’anno 1789 sarà espulso dalla storia”, dichiarò Josef Goebbels nel 1933, quando il nazismo salì al potere in Germania. A differenza del comunismo, il fascismo non desiderava distruggere la società capitalista ma opponeva la figura del leader e il principio d’autorità alla democrazia e alla sovranità popolare, l’ordine e la gerarchia alla libertà e al diritto, la razza e la nazione all’individualità e all’umanità. La razionalità strumentale al centro della violenza del mondo moderno “ guerre totali e bombe atomiche, campi di concentramento e uccisioni industriali“ non cambia questa differenza fondamentale. Qualsiasi teoria del totalitarismo che si mostra indifferente a questa differenza è condannata a non comprendere nulla della storia del secolo scorso.

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