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Gramsci sull’URSS e altro nei Quaderni del carcere (appunti)

È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l’ordine politico e legale è un’espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange:

  1. tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato;
  2. tra gli elementi progressivi che la legge comprime;
  3. tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare.

La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita della legalità le forze della reazione spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico.

STATOLATRIA

Quaderno 8 (XXVIII)
§ (130)

Atteggiamento di ogni diverso gruppo sociale verso il proprio Stato. L’analisi non sarebbe esatta se non si tenesse conto delle due forme in cui lo Stato si presenta nel linguaggio e nella cultura delle epoche determinate, cioè come società civile e come società politica, come «autogoverno» e come «governo dei funzionari» o società politica, che nel linguaggio comune è la forma di vita statale a cui si dà il nome di Stato e che volgarmente è intesa come tutto lo Stato.

L’affermazione che lo Stato si identifica con gli individui (con gli individui di un gruppo sociale), come elemento di cultura attiva (cioè come movimento per creare una nuova civiltà, un nuovo tipo di uomo e di cittadino) deve servire a determinare la volontà di costruire nell’involucro della Società politica una complessa e bene articolata società civile, in cui il singolo individuo si governi da sé senza che perciò questo suo autogoverno entri in conflitto con la società politica, anzi diventandone la normale continuazione, il complemento organico. Per alcuni gruppi sociali, che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente (come nella società medioevale e nei governi assoluti era reso possibile dall’esistenza giuridica degli Stati o ordini privilegiati), un periodo di statolatria è necessario e anzi opportuno: questa «statolatria» non è altro che la forma normale di «vita statale», di iniziazione, almeno, alla vita statale autonoma e alla creazione di una «società civile» che non fu possibile storicamente creare prima dell’ascesa alla vita statale indipendente. Tuttavia questa tale «statolatria» non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente, diventare fanatismo teorico, ed essere concepita come «perpetua»: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi, e produca nuove forme di vita statale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia «statale» anche se non dovuta al «governo dei funzionari» (far diventare «spontanea» la vita statale).

L’iniziativa individuale

Elementi per impostare la quistione: identità-distinzione tra società civile e società politica, e quindi identificazione organica tra individui (di un determinato gruppo) e Stato, per cui «ogni individuo è funzionario» non in quanto è impiegato stipendiato dallo Stato e sottoposto al controllo «gerarchico» della burocrazia statale, ma in quanto «operando spontaneamente» la sua operosità si identifica coi fini dello Stato (cioè del gruppo sociale determinato o società civile). L’iniziativa individuale non è perciò un’ipotesi di «buona volontà» ma un presupposto necessario. Ma «iniziativa individuale» si intende nel campo economico e precisamente si intende nel senso preciso di iniziativa a carattere «utilitario» immediato e strettamente personale, con l’appropriazione del profitto che l’iniziativa stessa determina in un determinato sistema di rapporti giuridici. Ma non è questa l’unica forma di iniziativa «economica» storicamente manifestatasi (catalogo delle grandi iniziative individuali che sono finite in disastro negli ultimi decenni: Kreiger, Stinnes; in Italia: fratelli Perrone; forse a questo proposito utili i libri del Lewinsohn): si hanno esempi di tali iniziative non «immediatamente interessate», cioè «interessate» nel senso più elevato, dell’interesse statale o del gruppo che costituisce la società civile. Un esempio mirabile è la stessa «alta burocrazia» italiana, i cui componenti, se volessero impiegare ai fini di una attività economica per l’appropriazione personale, le qualità di organizzatori e di specialisti di cui sono dotati, avrebbero la possibilità di crearsi una posizione finanziaria ben altrimenti elevata di quella che fa lo Stato imprenditore: né si può dire che l’idea della pensione li tenga fedeli all’impiego di Stato, come avviene per il più basso strato burocratico.

PARTITO TOTALITARIO

Quaderno 13 (XXX)
§ (21)

(…) Si è detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell’epoca moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato. È da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario appunto perché assolve a tale funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso e con l’aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna e non governa» è la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela della concezione dell’unità statale, del consenso dei governati all’azione statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo partito.

Col partito totalitario queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà con vari modi di dare l’impressione che la funzione «di forza imparziale» è attiva ed efficace.

Politica totalitaria

Quaderno 6 (VIII) § (136)

Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o più prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo.

Avviene sempre che le singole persone appartengano a più di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto:

  1. a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei;
  2. a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore.

Ciò avviene:

  1. quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva;
  2. quando il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.

Luigi Einaudi, nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1931, recensisce un volume francese Les sociétés de la nation. Étude sur les éléments constitutifs de la nation française, di Etienne Martin – Saint-Léon (vol. di pp. 415, Ed. Spes, 17, rue Soufflot, Parigi 1930, frs. 45) dove una parte di queste organizzazioni sono studiate, ma solo quelle che esistono formalmente (Per es., i lettori di un giornale formano o no una organizzazione?, ecc.). In ogni modo, se l’argomento fosse trattato, vedere il libro e anche la recensione dell’Einaudi.

partiti di masse

Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale « indiretto», cioè si presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento libertario: anche la cosidetta azione diretta («terroristica») è concepita come «propaganda» con l’esempio: da ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e si può parlare di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?) La stessa «setta degli economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno. Si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione [(come tale)] dall’azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell’ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo più recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»). La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate.

CENTRALISMO BUROCRATICO

Quaderno 13 (XXX)
§ (36)

  1. Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di una necessità o di una degenerazione in confronto del’autogoverno (self-government) come pretendono i liberisti «puri»? È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare). L’unità del lavoro manuale e intellettuale e un legame più stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si interessino dell’esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.
  2. Connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima» è la discussione sui cosidetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» (che d’altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I). Saranno da ricercare ed esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione» politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e culturali Chiesa cattolica), sindacali economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.

Polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita dell’alta cultura e di alcune forze politiche internazionali: era poi reale questo predominio o in che cosa realmente consisteva? Si può dire:

  1. che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva una tale supremazia, che pertanto era un mero fenomeno di influsso culturale astratto e di prestigio molto labile;
  2. che tale influsso culturale non toccava per nulla l’attività effettuale, che viceversa era disgregata, localistica, senza indirizzo d’insieme.

Non si può parlare perciò di nessun centralismo, né organico né democratico né d’altro genere o misto. L’influsso era sentito e subito da scarsi gruppi intellettuali, senza legame con le masse popolari e appunto questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia un tale stato di cose è degno d’esame perché giova a spiegare il processo che ha condotto a formulare le teorie del centralismo organico, che sono state appunto una critica unilaterale e da intellettuali di quel disordine e di quella dispersione di forze.

Occorre intanto distinguere nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici, e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di una singola individualità, come quella del papa infallibile per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale programma come fatto politico consapevole. Il nome più esatto sarebbe quello di centralismo burocratico. L’«organicità» non può essere che del centralismo democratico il quale è un «centralismo» in movimento, per così dire, cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi regolare delle esperienze: esso è «organico» perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente cosi come avviene in più ristretta scala nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberismo economico). Nei partiti che rappresentano gruppi socialmente subalterni l’elemento di stabilità è necessario per assicurare l’egemonia non a gruppi privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e oscillanti. In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell’unità italiana). II formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società delle Nazioni).

Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione, ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.

Quaderno 3 (XX)
§ (40)

Le osservazioni sparsamente fatte sulla diversa portata storica della Riforma protestante e del Rinascimento italiano, della Rivoluzione francese e del Risorgimento (la Riforma sta al Rinascimento come la Rivoluzione francese al Risorgimento) possono essere raccolte in un saggio unico con un titolo che potrebbe essere anche «Riforma e Rinascimento» e che potrebbe prendere lo spunto dalle pubblicazioni avvenute dal 20 al 25 intorno appunto a questo argomento: «della necessità che in Italia abbia luogo una riforma intellettuale e morale» legata alla critica del Risorgimento come «conquista regia» e non movimento popolare per opera di Gobetti, Missiroli e Dorso. (Ricordare l’articolo di Ansaldo nel «Lavoro» di Genova contro Dorso e contro me). Perché in questo periodo si pose questo problema? Esso scaturiva dagli avvenimenti… (Episodio comico: articoli di Mazzali in «Conscientia» di Gangale in cui si ricorreva ad Engels). Precedente storico nel saggio di Masaryk sulla Russia (nel 1925 tradotto in italiano dal Lo Gatto): il Masaryk poneva la debolezza politica del popolo russo nel fatto che in Russia non c’era stata la Riforma religiosa.

Riforma e Rinascimento

Quaderno 7 (VII)
§ (43)

Questi modelli di sviluppo culturale forniscono un punto di riferimento critico che mi pare sempre più comprensivo e importante (per il suo valore di suggestione pedagogica) quanto più ci rifletto. È evidente che non si capisce il processo molecolare di affermazione di una nuova civiltà senza aver capito il nesso storico Riforma-Rinascimento. Superficialità del Liefscitz nell’articolo introduttivo alla pubblicazione periodica di bibliografia del Rivière («La Critique Sociale»). Il Liefscitz mi pare non abbia capito gran che del marxismo e la sua concezione si potrebbe chiamare veramente da «burocratico». Luoghi comuni a tutto andare, detti con la mutria di chi è ben soddisfatto di se stesso e creda di essere tanto superiore alla critica che non immagina neanche di non dire continuamente verità strabilianti e originali. Critica (superficiale) fatta dal punto di vista dell’intellettuale (dell’intellettuale mezza calzetta). Il Liefscitz vede nell’uomo politico il più grande intellettuale nel senso letterario che il grande politico. Ma chi è stato più grande intellettuale, Bismarck o Barrès? Chi ha «realizzato» maggiori cambiamenti nel mondo della cultura? Il Liefscitz non capisce nulla di tali quistioni, ma non capisce nulla neanche della quistione che egli malamente imposta: si tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività ed è appunto ciò che rende difficile il problema (ricordare l’articolo della Rosa sullo sviluppo scientifico del marxismo e sulle ragioni del suo arresto); si tratta insomma di avere una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente. Per il Liefscitz il problema è semplicemente un motivo di disfattismo; e non è infatti puro disfattismo trovare che tutto va male e non indicare criticamente una via d’uscita da questo male? Un «intellettuale», come crede di essere il Liefscitz, ha un modo di impostare e risolvere il problema: lavorando concretamente a creare quelle opere scientifiche di cui piange amaramente l’assenza, e non limitarsi a esigere che altri (chi?) lavori. Né il Liefscitz pretenderà che la sua rivista sia già questo lavoro: essa potrebbe essere un’attività utile se fosse scritta con modestia e con migliore autocritica e senso critico in generale. Una rivista è un «terreno» per iniziare a lavorare per la soluzione di un problema di cultura, non è essa stessa una soluzione: e, ancora, deve avere un indirizzo preciso e quindi offrire modo a un lavoro collettivo di un gruppo intellettuale, tutte cose che non si vedono nella rivista del Liefscitz. Recensire i libri è molto più facile che scrivere dei libri, tuttavia è cosa utile: ma un «recensore» per programma può, senza essere un puro disfattista, piangere sconsolatamente sul fatto che gli «altri» non scrivono libri? E se anche gli altri preferiscono scrivere «recensioni»?

Quaderno 14 (I)
§ (68)

Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione del settembre 1927 su alcuni punto essenziali di scienza e di arte politica.
Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la composizione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici (Trockij) e Bessarione (Stalin) come interprete de movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della questione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. concetto di egemonia è quello in cui si annidano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D’altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l’iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro.

Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all’inerzia in due fasi ben distinte:
1. nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato; nell’attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento;
2. la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma).
Le debolezze di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.

Quaderno 14 (I)
§ (74)

È certo che l’autocritica è diventata una parola di moda. Si vuole, a parole, far credere che alla critica rappresentata dalla «libera» lotta politica nel regime rappresentativo, si è trovato un equivalente, che, di fatto, se applicato sul serio, è più efficace e produttivo di conseguenze dell’originale. Ma tutto sta lì: che il surrogato sia applicato sul serio, che l’autocritica sia operante e «spietata», perché in ciò è la sua maggiore efficacia: che deve essere spietata. Si è trovato invece che l’autocritica può dar luogo a bellissimi discorsi, a declamazioni senza fine e nulla più: l’autocritica è stata «parlamentarizzata». Poiché non è stato osservato finora che distruggere il parlamentarismo non è così facile come pare. Il parlamentarismo «implicito» [e «tacito»] è molto più pericoloso che non quello esplicito, perché ne ha tutte le deficienze senza averne i valori positivi. Esiste spesso un regime di partito «tacito», cioè un parlamentarismo «tacito» e «implicito» dove meno si crederebbe. È evidente che non si può abolire una «pura» forma, come è il parlamentarismo, senza abolir radicalmente il suo contenuto, l’individualismo, e questo nel suo preciso significato di «appropriazione» individuale» del profitto e di iniziativa economica per il profitto capitalistico individuale. L’autocritica ipocrita è appunto di tali situazioni. Del resto la statistica dà l’indizio dell’effettualità della posizione. A meno che non si voglia sostenere che è sparita la criminalità, ciò che del resto altre statistiche smentiscono e come!

Tutto l’argomento è da rivedere, specialmente quello riguardante il regime dei partiti e il parlamentarismo «implicito», cioè funzionante come le «borse nere» e il «lotto clandestino» dove e quando la borsa ufficiale e il lotto di Stato sono per qualche ragione tenuti chiusi. Teoricamente l’importante è di mostrare che tra il vecchio assolutismo rovesciato dai regimi costituzionali e il nuovo assolutismo c’è differenza essenziale, per cui non si può parlare di un regresso; non solo, ma di dimostrare che tale «parlamentarismo nero» è in funzione di necessità storiche attuali, è «un progresso», nel suo genere; che il ritorno al «parlamentarismo» tradizionale sarebbe un regresso antistorico, poiché anche dove questo «funziona» pubblicamente, il parlamentarismo effettivo è quello «nero». Teoricamente mi pare si possa spiegare il fenomeno nel concetto di «egemonia», con un ritorno al «corporativismo», ma non nel senso «antico regime», nel senso moderno della parola, quando la «corporazione» non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di «funzione sociale» senza restrizione ereditaria o d’altro (vedi sotto).

Quaderno 14 (I)
§ (76)

Trattando l’argomento è da escludere accuratamente ogni [anche solo] apparenza di appoggio alle tendenze «assolutiste» e ciò si può ottenere insistendo sul carattere «transitorio» (nel senso che non fa epoca, non nel senso di «poca durata») del fenomeno. (A questo proposito è da notare come troppo spesso si confonda il «non far epoca» con la scarsa durata «temporale»; si può «durare» a lungo, relativamente, e non «fare epoca»; le forze di vischiosità di certi regimi sono spesso insospettate, specialmente se essi sono «forti» dell’altrui debolezza, anche procurata: a questo proposito sono da ricordare le opinioni di Cesarino Rossi, che certo erano sbagliate «in ultima istanza», ma realmente avevano un contenuto di realismo effettuale).

Il parlamentarismo «nero» pare un argomento da svolgere con certa ampiezza, anche perché porge l’occasione di precisare i concetti politici che costituiscono la concezione «parlamentare». I raffronti con altri paesi, a questo riguardo, sono interessanti: per esempio, la liquidazione di Leone Davidovi non è un episodio della liquidazione «anche» del parlamento «nero» che sussisteva dopo l’abolizione del parlamento «legale»?

Fatto reale e fatto legale. Sistema di forze in equilibrio instabile che nel terreno [parlamentare] trovano il terreno «legale» del loro equilibrio «più economico» e abolizione di questo terreno legale, perché diventa fonte di organizzazione e di risveglio di forze sociali latenti e sonnecchianti; quindi questa abolizione è sintomo (o previsione) di intensificarsi delle lotte e non viceversa. Quando una lotta può comporsi legalmente, essa non è certo pericolosa: diventa tale appunto quando l’equilibrio legale è riconosciuto impossibile. (Ciò che non significa che abolendo il barometro si abolisca il cattivo tempo).

(continua)

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