Su twitter la fondazione Feltrinelli ci informa che ricorre il 21 novembre il centenario della nascita di Luciano Barca. Così ne tratteggia sinteticamente il profilo: “Partigiano, parlamentare, direttore di Unità e Rinascita, braccio destro di Enrico Berlinguer, Luciano Barca ha contribuito a fare la storia del Partito Comunista in Italia nel secondo Novecento”. Sul sito della fondazione si trova una biografia meno sintetica di quella su twitter e soprattutto l’archivio di documenti lasciati dal vecchio dirigente comunista. Io vorrei ricordare Luciano Barca anche come uno dei dirigenti storici che nel 1989-1991 si schierarono per il NO alla “svolta della Bolognina” che portò allo scioglimento del Partito Comunista Italiano e come uno dei promotori della mozione della “Rifondazione Comunista” (dovrei avere da qualche parte le fotocopie della sua relazione al convegno di Arco). Successivamente come Ingrao, Tortorella e altri decise di rimanere nel PDS e continuare lì la battaglia per poi uscirne nel 1998 ai tempi dei governi di centrosinistra e della guerra nella ex-Jugoslavia. Ripropongo un suo articolo dall’Unità del 22 dicembre 1990 in cui esprimeva alcune delle ragioni del dissenso nei confronti delle posizioni di Occhetto e Napolitano. Mi sembra interessante perchè si intravede molto bene che il cambio di nome fin dall’inizio sottintendeva una mutazione genetica che abbiamo visto svilupparsi rapidamente negli anni ’90 fino alla nascita del PD.Â
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La destra, il riformismo e una doppia contraddizione
LUCIANO BARCA
A questa nuova fase dei rapporti tra Pci e Internazionale socialista noi vogliamo portare tutta la peculiarità della nostra storia, non già per dare lezioni né per riceverne, ma per far fruttare, nel confronto dialettico con altre esperienze, un patrimonio che non può essere ignorato. Si tratta di un brano della mozione «Rifondazione comunista»?
Potrebbe benissimo esserlo, ma, in realtà è un brano del rapporto al Comitato centrale del 20 novembre 1989 con il quale Achille Occhetto lanciò la «fase costituente». Spiegare come da questa affermazione si sia potuti giungere, nel documento firmato da Occhetto per il prossimo congresso, alla proclamazione di una totale discontinuità con la cultura del Pci e alla assunzione di un non meglio precisato «nuovo modo di pensare» è veramente difficile, anche perché trattasi di un processo regressivo avvenuto tutto nel chiuso vertice di una componente del partito, senza alcuno scambio culturale e politico con forze esterne di un qualche peso.Â
È tuttavia proprio questa negazione del patrimonio storico del partito, senza alcuno scambio culturale e politico con forze esterne di un qualche peso. É tuttavia proprio questa negazione del patrimonio storico del partito, che ampiamente giustifica il compagno Napolitano quando rifiuta di lasciarsi incasellare «in una più che mai mistificatoria collocazione di destra». E ciò non solo perché da sempre il riformismo è una delle espressioni politiche del movimento operaio, ma perché della cultura, del patrimonio e dell’azione di massa del Pci – e non solo del Psi – il riformismo, sia pure criticamente rivisitato, è stato ed è componente importante. In un processo di rifondazione in Italia e in Occidente della prospettiva del socialismo non si potrà non tenere dunque conto di questa componente e cercare di confrontarsi con essa – così come con l’altra componente storica del Pci, quella operaista – per individuare quali possono e debbono essere i punti di continuità e quali i punti di discontinuità e di decisa innovazione. Sostituire a questo confronto in parte interno e in parte esterno (dato che esso non può non investire il rapporto con il Psi e con altre forze riformiste e riformatrici) l’azzeramento di tutto il patrimonio politico e culturale del Pci, al quale hanno contribuito più generazioni e milioni di donne e di uomini, significa non solo creare confusione e sconforto tra i lavoratori, ma contribuire allo spostamento a destra di tutto il quadro politico italiano. Non a caso Occhetto entra di fatto in contraddizione con la stessa mozione che ha sottoscritto (e ben venga questa contraddizione) quando si batte perché sia fatta finalmente luce sulla storia italiana degli ultimi anni e sul ruolo importante che il Pci ha avuto in difesa della democrazia e della stessa sovranità nazionale. La contraddizione apparirebbe ancor più evidente se un intelligente datario mettesse a raffronto i tasselli finora emersi su «Gladio» e sui servizi stranieri e iniziative politiche assunte da Togliatti, da Longo, da Berlinguer. Si può osservare che la contraddizione è doppia per Giorgio Napolitano dato che egli, pur differenziandosi, a quella mozione ha poi finito per dare il suo appoggio. Ma non interessa qui la polemica personale. Interessa di più, ai fini del destino del partito e del «dopo», la risposta ad altre domande. Napolitano ha qualificato l’identità del nuovo partito, nella recente manifestazione a Roma, con due aggettivi, «costruttivo e combattivo» e con un anatema: l’anatema all’aggettivo «antagonista». Le domande sono due. Pensa veramente Napolitano che l’aggettivo costruttivo» (che abbiamo usato insieme in decine di documenti) serva a definire un’identità o che esso abbisogni di un progetto, di un obiettivo rispetto al quale definire la propria valenza? Quando la Federmeccanica chiede al sindacato un atteggiamento «costruttivo», chiede ciò che chiediamo noi? E quando Bush chiede ai paesi arabi un atteggiamento «costruttivo» sulla crisi del Golfo usa l’aggettivo nello stesso senso di Napolitano? Credo, tra l’altro, che se vogliamo costruire un partito fondato su nuovi rapporti e nuove regole dobbiamo evitare di erigere un muro al di qua del quale starebbero i «costruttivi» e al di là i «distruttivi». La seconda domanda è sull’antagonismo. E’ indubbio che siamo qui all’individuazione di un punto che ci divide, io mi colloco in una posizione antagonista dell’attuale modo di produzione, dell’attuale modello di accumulazione e Napolitano no. Ma deve per questo la corrente riformista demonizzare un aggettivo e un atteggiamento che può unire tutto il partito in tante occasioni (perché si spera che siamo e saremo tutti antagonisti oltre che alla guerra, anche al sistema di potere della Dc, alla contaminazione tra pubblico e privato. alla rendita finanziaria, al consumismo ecc. ecc.) o dobbiamo con più tempo e serenità andare al fondo del problema strutturale cui diamo risposte diverse che vanno in ogni caso tutte rimeditate profondamente?
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