Nel 1999 l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro fece una dichiarazione alquanto discutibile sui risultati delle elezioni del 18 aprile 1948 vinte dalla DC contro il Fronte Popolare che riuniva comunisti e socialisti, i due principali partiti della Resistenza e dell’antifascismo militante. Scalfaro dichiarò che “aveva vinto la libertà “. Quel 18 aprile in realtà segnò la sconfitta dello spirito della Resistenza e un arretramento rispetto alle speranze di rinnovamento che avevano animato il paese dopo la Liberazione dal fascismo. Cominciava un periodo segnato dalla repressione di Scelba, dal ritorno al dispotismo padronale nelle fabbriche con la fine dei Consigli di Gestione e il dilagare dei licenziamenti politici e i reparti confino alla Fiat, un clima di restaurazione clericofascista e il riciclaggio dei fascisti negli apparati dello stato. I partiti di sinistra non proponevano nel 1948 l’adesione al Patto di Varsavia ma una linea di neutralismo – che tra l’altro fu perseguita da paesi della Scandinavia – e un programma di riforme che avesse come obiettivo l’attuazione della Costituzione. Si uscì da quegli anni duri solo con la rivolta del luglio ’60 e la ripresa delle lotte operaie che spostarono a sinistra il paese e gli stessi equilibri politici. Sull’Unità il critico AGGEO SAVIOLI ricordò cosa significò la vittoria DC in termini di “libertà ” per il cinema italiano. Un modo per ironizzare sull’affermazione un po’ troppo unilaterale di Scalfaro. Buona lettura!
Dunque, la vittoria della Dc e dei suoi alleati, nelle elezioni del 18aprile 1948, avrebbe garantito la libertà di tutti, frenando i cavalli cosacchi ansiosi di abbeverarsi alle fontane di Piazza San Pietro (non stiamo inventando nulla, anche di questa pasta, appigliandosi magari alla maldestra profezia di un Venerabile Uomo, fu la propaganda anticomunista e antisocialista di quel periodo). Ma, certo, per le nostre arti dello spettacolo, cinema e teatro, si trattò di lottare fino allo stremo contro l’ondata di oscurantismo e di cieca repressione scatenatasi con particolare virulenza nei primissimi Anni Cinquanta. Dei casi, a volte grotteschi e risibili, comunque drammatici, che si verificarono allora, sono stati riempiti interi libri (citiamo, almeno, «La censura nel cinema italiano» di Mino Argentieri, Editori Riuniti, e «La censura teatrale in Italia» di Carlo Di Stefano, Cappelli editore). Qualche esempio appena vorremmo citare, perché specialmente clamoroso ed emblematico.
Abbiamo sott’occhio la riproduzione della copertina del capolavoro teatrale di Niccolò Machiavelli, «La Mandragola», e di traverso, stampigliata in lettere maiuscole (due volte, a scanso di equivoci), la scritta «Non approvato».
La data, come da timbro, è quella del 21 aprile 1951. Responsabile del nefando divieto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dell’epoca, e competente per la materia, Giulio Andreotti. Identico «no» riceverà , il 18 gennaio1952, «La Governante», creazione, stavolta, di un apprezzato autore contemporaneo, Vitaliano Brancati.
C’è bisogno di sottolineare l’importanza di Machiavelli, e della «Mandragola», nella storia della cultura, e della politica, del nostro Paese, ma non soltanto di esso? Si deve ricordare che fu la lettura di tale gran commedia uno dei motivi determinanti della vocazione teatrale del giovane Carlo Goldoni?
Piuttosto, rammentiamo che, finalmente autorizzata dopo la sconfitta della legge-truffa (giugno 1953), e rappresentata nella stagione successiva dalla Cooperativa Spettatori Italiani (registi Marcello Pagliero e Luciano Lucignani), l’opera machiavelliana costò alla Compagnia il taglio della sovvenzione ministeriale, e il conseguente scioglimento.
Quanto alla «Governante», dovettero passare diversi lustri prima che essa potesse affacciarsi alla ribalta (la censura sul teatro sarebbe stata abolita solo nel1962). Brancati, morto immaturamente nel 1954, non l’avrebbe mai vista. Al tempo del divieto, pubblicò il testo e vi premise un appassionato «pamphlet». Ma Bompiani, il suo editore, si defilò (lo sostituì, degnamente, Laterza), e Alberto Moravia, avanzando imbarazzate scuse, rifiutò d’introdurre il volume.
Questa la libertà di cui godevano intellettuali e artisti italiani, anche i migliori, sotto il regime democristiano.
E il cinema? Nemmeno Totò sfuggì alle forbici di Andreotti (ma altri sottosegretari, e poi ministri, si avvicendarono al suo posto, con non dissimile zelo, e tra di essi, guarda guarda, l’attuale Capo dello Stato). «Totò e Carolina» di Mario Monicelli, ultimato nel 1953, apparve sugli schermi solo nel 1955, tagliato per centinaia di metri di pellicola, e con la colonna sonora manipolata.
Intonavano «Di qua di là dal Piave» in luogo di un inno proletario, i lavoratori in gita su camion sovrastati da bandiere rosse (ma, essendo il film in bianco e nero, il colore non si vedeva). E la servetta (una deliziosa Anna Maria Ferrero), scortata dal buon poliziotto Totò, apostrofava un anziano compagno, riluttante a darle un sospetto aiuto, con l’espressione «Bel socialista sei!», anziché «Bel comunista». Questione di sfumature?
Domenica 3 gennaio 1999
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