Jean Jaures raccontava nella sua monumentale “Storia socialista della Rivoluzione Francese” che la bandiera rossa divenne il simbolo del proletariato durante le giornate del 9 e 10 agosto 1792 quando, costituita la Comune rivoluzionaria a cui poi si sarebbero ispirati i comunardi del 1871, i sanculotti assalirono Le Tuleries e posero fine alla monarchia: “La marcia degli avvenimenti era stata così rapida e il colpo dato il 10 agosto così fulmineo che quella giornata apparve ai contemporanei una nuova rivoluzione”. Come ricorda Jean Jaures fu la Comune della Parigi rivoluzionaria a imporre la deposizione del re, la Repubblica e il suffragio universale. Furono le classi lavoratrici che sventolavano la bandiera rossa a conquistare per la prima volta la democrazia. La “borghesia rivoluzionaria” nel 1791 aveva previsto un suffragio censitario che successivamente si reimporrà . I parigini tornarono a votare col suffragio universale maschile solo insorgendo con la Comune del 1871. Soltanto dopo la Prima guerra Mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 la borghesia si rassegnò ad accettare il suffragio universale (maschile). Ringrazio la rivista socialista inglese Tribune per avermi ricordato questa pagina di storia dimenticata scritta da un socialista/comunista che fu assassinato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale per il suo impegno pacifista:
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Gli ingranaggi rivoluzionari finalmente si misero in moto. Fu dato l’allarme, suonata la campana e nella tranquilla notte del 9-10 agosto la gente dei sobborghi, impugnando i fucili, agganciando i cannoni, si preparò al combattimento all’alba.
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Questi uomini non erano animati da interessi ristretti e immediati. Gli operai, i proletari che entravano in combattimento a fianco della parte più audace della borghesia rivoluzionaria, non formulavano alcuna rivendicazione economica. Anche quando avevano combattuto contro gli accaparratori e i monopolisti che avevano aumentato il prezzo dello zucchero e di altri beni, gli operai di Parigi dicevano: ‘Non sono bonbon che chiediamo. Non vogliamo lasciare la Rivoluzione nelle mani di una nuova casta egoista e oppressiva».
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Era soprattutto la piena libertà politica, la piena democrazia che essi pretendevano. Questa avrebbe fornito certamente garanzie per i loro interessi, il loro salario e la loro stessa esistenza.
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Mentre il #14luglio e il 5 e 6 ottobre era contro il dispotismo regio che si battevano gli operai uniti e la borghesia, quel 10 agosto combattevano sia contro la regalità che contro quella parte della borghesia che si era schierata con essa. Abbattendo il re, si sarebbero allo stesso tempo vendicati sui moderatisti borghesi che, sul Champ de Mars nel luglio 1791, avevano sparato sul popolo per difendere la regalità .
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E la bandiera rossa, che era la bandiera della legge marziale, il simbolo sanguinario della repressione borghese, fu presa dai rivoluzionari del 10 agosto. Era più di un simbolo di vendetta. Non era la bandiera delle rappresaglie: era la splendida bandiera di un nuovo potere consapevole del suo diritto, ed è per questo che da allora, ogni volta che il proletariato avrebbe dovuto affermare la sua forza e le sue speranze, sarebbe stata la bandiera rossa che avrebbe dispiegato. A Lione sotto Luigi Filippo gli operai, schiacciati dalla fame, sventolano la bandiera nera, bandiera della povertà e della disperazione. Ma dopo il febbraio 1848, quando i proletari vollero illustrare la nuova rivoluzione con un loro simbolo, chiesero al governo provvisorio di adottare la bandiera rossa.
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La notte del 9 agosto, intorno alla mezzanotte, il suono della campana, il battito dei tamburi, avvertì i legislatori sparsi per Parigi che si stava preparando un grande movimento. Si recarono frettolosamente all’Assemblea e a mezzanotte si aprì la seduta. Fu una sessione di attesa. L’Assemblea era risoluta a tenere d’occhio gli eventi, ma non a intervenire direttamente nella lotta tra il popolo e il re.
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Verso l’alba, nel momento in cui da tutti i sobborghi, da Saint-Antoine e Saint-Marcel, i federali e gli operai formarono le colonne e marciarono sulle Tuileries, l’assemblea delle sezioni si sostituì alla Comune legale e si organizzò in una comune rivoluzionaria. Questa fu una mossa audace e forse decisiva, perché attraverso di essa i combattenti avevano dietro di sé il sostegno di una forza pubblica organizzata. E la Comune rivoluzionaria diffuse il dubbio e la confusione nelle file del nemico.
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In questo modo essa preservò la libertà di azione popolare. E mostrò anche chiaramente dall’inizio di questo grande giorno quale fosse il suo vero carattere. Questa non era una convocazione del re. Si trattava piuttosto di un cambio di potere, e il popolo si insediò come sovrano all’Hôtel de Ville per scacciare dalle Tuileries la sovranità del tradimento.
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Come avrebbe accolto l’assemblea legislativa questo nuovo potere, espressione rivoluzionaria della volontà popolare? Fu informata degli eventi all’Hôtel de Ville intorno alle sette del mattino da una deputazione protestante dell’ex municipio. Ma cosa si doveva fare? Diversi deputati proposero di abrogare il nuovo potere in quanto illegale. Ma la lotta intorno al castello era già iniziata e la proposta fallì. Il nuovo potere agì e appoggiò decisamente gli sforzi del popolo.
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La resistenza delle Tuileries fu subito disorganizzata. La corte aveva perso ogni punto di appoggio legale; la Guardia Nazionale non dava più la minima assistenza alle Guardie Svizzere o ai nobili. Il re se ne rese pienamente conto verso le sei, quando lasciò brevemente il castello per rivedere le posizioni al Carrousel e alle Tuileries. Gli artiglieri della Guardia Nazionale lo accolsero o con un cupo silenzio o al grido di “Viva la Nazione!”
Luigi XVI ebbe la pungente, fatale sensazione di essere solo contro il popolo. Tornò al castello in uno stato di disperazione. A poco a poco arrivavano gli assalitori e cominciavano, anche se dapprima con scarso entusiasmo, ad attaccare il castello attraverso il Carrousel e le Tuileries. Il re e la regina, semi abbandonati, sarebbero stati in grado di sostenere il rischio di un assedio? L’inquietudine era grande all’Assemblea. Cosa sarebbe accaduto se, nella furia dell’assalto, il re e la regina fossero stati massacrati? La Francia, che già il 20 giugno era stata spinta a sostenere il re minacciato, non si sarebbe sollevata contro coloro che lo avessero ucciso, anche contro coloro che, con la loro inerzia, fossero stati complici dell’omicidio? Diversi deputati chiesero che l’Assemblea convocasse il re. Ma fare questo significava non solo proteggere la vita del re; in qualche modo copriva anche il suo potere con la protezione nazionale. Forse significava anche rivolgere le forze rivoluzionarie contro l’Assemblea stessa, che ora sembrava solidale con il re.
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L’Assemblea lo capì e non si arrese. Fu formulata una proposta meno chiara e che esponeva meno l’Assemblea. Non avrebbe richiesto l’arrivo del re, ma gli avrebbe fatto sapere che era riunito e che, se lo desiderava, poteva andarci. Ma anche questo significava legare la responsabilità dell’Assemblea a quella del re. Esitò di nuovo, nonostante la visibile commozione di Cambon, che gridava che l’inazione dell’Assemblea sarebbe stata pericolosa almeno quanto l’azione, e che era necessario «salvare la gloria del popolo», cioè preservare la vita del re. Poiché l’Assemblea continuava a esitare e rimaneva immobile, stagnante nella tempesta, il re decise di lasciare le Tuileries e di recarsi all’Assemblea.
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Per il vialetto centrale del giardino, e poi per il vialetto delle Tuileries già disseminato di foglie morte dopo un’estate arida e calda, la famiglia reale arrivò a fatica, passando tra una folla metà incerta metà ostile a raggiungere la porta dell’Assemblea. Luigi XVI non sarebbe mai più tornato nella casa dei re.
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Era un re che veniva all’Assemblea, uno dei poteri della costituzione venuto a unirsi con l’altro? Oppure era un fuorilegge che cercava asilo all’altare della legge, che il suo tradimento aveva tentato invano di rovesciare? Per l’Assemblea era un re, o almeno l’ombra del re, e ventiquattro deputati, quelli più vicini alla porta, lo precedevano nel crescente tumulto e confusione.
Quando il re entrò e, come da protocollo, preso posto accanto al presidente, disse all’Assemblea: «Sono venuto oggi qui per evitare un grande delitto e sentirò sempre me stesso e la mia famiglia al sicuro in mezzo ai rappresentanti della nazione». Il fantasma della monarchia continuò così a vivere.
Dopo la partenza della famiglia reale, la folla che assaliva le Tuileries era cresciuta. Arrivarono i federati, la gente dei sobborghi con baionette, picche e cannoni, ingrossando la folla. Era impossibile evitare una sanguinosa collisione? L’Assemblea rivolse frettolosamente un proclama al popolo, ma chi avrebbe provveduto alla sua affermazione? L’ex comune era stato sciolto ed era impotente. Thuriot propone apertamente all’Assemblea di riconoscere il nuovo municipio, la Comune rivoluzionaria: «Chiedo che tutti i commissari che andranno in città siano autorizzati a conferire con tutti coloro nelle cui mani risiede, legalmente o illegalmente, qualsiasi forma di autorità e che hanno almeno apparente fiducia del pubblico.’
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L’Assemblea adottò la mozione di Thuriot e fu così attraverso la Comune che il primo frammento della rivoluzione repubblicana entrò nella costituzione ancora monarchica del 1791.
Pochi minuti dopo l’Assemblea decise di concedere alla Comune rivoluzionaria la scelta almeno provvisoria di un nuovo comandante della Guardia nazionale. Intanto, in una Tuileries priva del re, sembrava fosse data la parola d’ordine del disarmo. Dalle finestre gli svizzeri gridavano parole di amicizia alla gente. La porta che dava sullo scalone d’onore si aprì e la gente dei sobborghi e i federati vi si precipitarono allegramente. Ma all’improvviso, da ogni gradino della scala, una terribile fucilata rispondeva alla Rivoluzione fiduciosa. Si trattava di una trappola e un inganno abominevoli? O fu che nell’anarchia di un piccolo esercito improvvisamente abbandonato dal suo re e ordini contraddittori ci fu un terribile malinteso?
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Un orribile grido di dolore, morte e rabbia si levò dalle persone mentre venivano respinte. Puntavano i cannoni contro i muri, i fucili contro le finestre da cui gracchiavano i moschetti degli svizzeri. Gli edifici costruiti contro le mura del palazzo furono dati alle fiamme e si udiva il rumore del cannone, profondo, rabbioso e cupo; il rumore acuto e irritato della fucilata, il crepitio delle fiamme alleggerite dal giorno che sorge; un clamore, un tumulto di distruzione e di combattimento riempiva il cortile del Carrousel ed echeggiava nell’Assemblea. Verso le nove si udì un grido di panico alla porta della sala riunioni: «Sono arrivati ​​gli svizzeri. La stanza è stata forzata».
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L’Assemblea spaventata credeva che i soldati mercenari della monarchia avrebbero messo le mani su di loro; che la monarchia traditrice, dopo aver vinto il popolo, stava per colpire i rappresentanti del popolo e che non le restava altro che morire e lasciare così alle nuove generazioni il ricordo eroico di una protesta immortale a favore della libertà .
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Ai primi colpi di cannone tutti i cittadini nelle tribune si alzarono: ‘Viva l’Assemblea Nazionale! Viva la Nazione! Viva la libertà e l’uguaglianza!’ L’Assemblea decise subito che tutti i deputati sarebbero rimasti al loro posto e avrebbero atteso il loro destino, per salvare la Patria o morire per essa.
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“Ecco gli svizzeri,” gridarono di nuovo i cittadini sulle tribune, anche loro sublimi nel loro coraggio e confusi dalle voci incerte. ‘Non vi abbandoneremo; moriremo con voi!’
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I timori dei patrioti non durarono a lungo. Gli svizzeri di cui si parlava erano già stati sconfitti. Si ritirarono dal castello costretti dal popolo attraverso i giardini delle Tuileries; caddero sotto le palle, le picche e le baionette dei vincitori.
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Durante questo dramma, qual fu lo stato d’animo del re? Questo è un mistero impenetrabile. Sperò per breve tempo che il castello si difendesse e che la Rivoluzione fosse sconfitta? Osservava la seduta dell’Assemblea dal palco dello stenografo. Le grida che annunciavano l’arrivo degli svizzeri echeggiavano senza dubbio gioiose nel suo cuore. È anche possibile che quando udì i cannoni, udì il crepitio della raffica, si pentì di non essere rimasto tra i suoi soldati a ispirarli con la sua presenza. Choudieu, che lo osservò da vicino, affermò che finché il combattimento continuò il suo volto rimase impassibile e che mostrò emozione solo quando egli venne a conoscenza della sconfitta dei suoi ultimi difensori. Troppo tardi ordinò agli svizzeri di cessare il fuoco. Il popolo vittorioso invase le Tuileries, le occupò dalla cantina al tetto, e uomini coperti di polvere o con facce insanguinate entrarono nell’assemblea portando documenti, monete d’oro o gioielli della regina e gridarono: “Viva la Nazione!”
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Questa fu la vittoria della Rivoluzione e della patria. Fu anche la vittoria della Comune rivoluzionaria. Fu quest’ultima che, sostituendosi al comune legale, bruciò i ponti dietro l’avanzata della rivoluzione. Essa doveva vincere o perire.
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La mattina del 10 agosto, e con il castello appena forzato, la Comune si presentò all’Assemblea, non per chiedere la conferma legale di un potere che doveva alla Rivoluzione stessa, ma al contrario per dettare leggi. Nel suo nome Huguenin, accompagnato da Léonard Bourdon, Truchon, Berieux, Vigaud e Cellier, disse quanto segue:
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«Sono i nuovi magistrati del popolo che si presentano davanti a voi. I nuovi pericoli per la Patria provocarono la nostra elezione; le circostanze lo consigliavano e il nostro patriottismo ce ne renderà degni. Il popolo, avendone finalmente avuto abbastanza, negli ultimi quattro anni, dei balocchi delle perfidie e degli intrighi di Corte, sentì che era tempo di fermare l’Impero sull’orlo del baratro. Legislatori: non resta che sostenere il popolo: noi veniamo qui in suo nome per elaborare con voi misure per la sicurezza pubblica.
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«Questo giorno è il trionfo delle virtù civiche. Il popolo che ci ha inviato da voi ci ha incaricato di dichiararti che vi investe nuovamente della sua fiducia. Ma nello stesso tempo ci ha incaricato di dichiararvi che riconosce solo il popolo francese, vostro e nostro sovrano, riunito in primarie assemblee, idoneo a giudicare le misure straordinarie che la necessità e la resistenza all’oppressione gli hanno condotto».L’Assemblea non protestò contro la Comune vittoriosa che pretendeva di trattarla da pari a pari e che la investiva di nuovo in nome del popolo, ma solo perché convocasse il popolo stesso.
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Fu questa Comune rivoluzionaria che l’Assemblea incaricò di trasmettere al popolo i decreti che invitavano alla calma.
In quello stesso giorno emanò senza discussione i decreti decisivi.
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Con il primo invitò il popolo francese a formare una Convenzione nazionale, decidendo che il giorno successivo si sarebbero decisi modalità e tempi della sua convocazione. Allo stesso tempo dichiarava provvisoriamente sospeso dalle sue funzioni il capo del potere esecutivo.
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Con il secondo dichiarò che i ministri in carica non avevano la sua fiducia e decise che i ministri sarebbero stati nominati provvisoriamente dall’Assemblea nazionale e per elezione individuale. Non potevano essere presi da dentro quel corpo.
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Infine, con un terzo gruppo di decreti stabilì che i decreti già emanati che non erano stati sanzionati, e che i decreti da emanare che non potevano essere a causa della sospensione del re, avrebbero comunque portato il nome di leggi e sarebbero stati in vigore in tutto il regno. Era, in sintesi, la fine della monarchia.
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Questa Convenzione, senza che fosse stata ancora chiaramente annunciata, significò l’arrivo della repubblica. Fu soprattutto l’arrivo della democrazia. Niente più censure, niente più privilegi, niente più dannose e borghesi distinzioni tra cittadini attivi e passivi. Su relazione di Jean Debry, deputato dell’Aisne, a nome del Comitato dei Dodici, l’Assemblea votò senza dibattito nella sessione del 10 agosto che tutti i cittadini di 25 anni erano elettori. Il 12 agosto la Convenzione allargò nuovamente la base popolare, abbassando l’età dell’elettorato da 25 a 21 anni. Fu così istituito il suffragio universale.
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L’11 agosto Luigi XVI fu condotto con la sua famiglia al palazzo del Lussemburgo e da lì, pochi giorni dopo, al Tempio. Non era altro che un prigioniero.
Triste constatare chc l’ultima edizione della Storia socialista della Rivoluzione Francese è forse quella degli Editori Riuniti del 1969. Su Jean Jaures ho trovato on line su Jstor un fondamentale saggio di Gian Mario Bravo, Jean Jaurès, il marxismo e il Manifesto comunista, Studi Storici Anno 19, No. 1 (Jan. – Mar., 1978) e un altro di Massimo Terni, Riconsiderazioni su Jaurès e l’interpretazione economica della Rivoluzione francese, su Studi Storici, Anno 20, No. 2 (Apr. – Jun., 1979).Â
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