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A Planet to Win, un manifesto ecosocialista dagli USA

Nella giornata dello sciopero globale per il clima socializzo la mia Postfazione all’edizione italiana del libro di Kate Aronoff, Alyssa Battistoni, Daniel Aldana Cohen e Thea Riofrancos, A Planet To Win, Perché ci serve un Green New Deal, con prefazione di Naomi Klein, edito da Momo Edizioni e Transform Europe. Buona lettura!

The proletarians have nothing to lose but their chains. They have a world to win

Dagli Stati Uniti arrivano ultimamente manifesti carichi di energia, entusiasmo e radicalità. Li leggo con lo stesso entusiasmo di Pasolini per la New Left degli anni Sessanta. Allora lo scrittore scriveva a Allen Ginsberg: “tu […] sei costretto a inventare di nuovo e completamente – giorno per giorno, parola per parola – il tuo linguaggio rivoluzionario. Tutti gli uomini della tua America sono costretti, per esprimersi, a essere inventori di parole! Noi qui invece (anche quelli che hanno adesso sedici anni) abbiamo già il nostro linguaggio rivoluzionario bell’e pronto”.

Ora accade il contrario. Ci arrivano dagli Usa parole antiche come socialismo mentre da noi regna quella “mancanza della coscienza di classe” che allora Pasolini considerava l’aspetto deteriore dell’America. Se si pensa che nel 1992 il gruppo hip hop Disposable Heroes of Hipoprisy nel suo brano più famoso Television the Drug Of The Nation spiegava che “socialismo significa antiamericano” viene da sperare che anche dalle nostre parti si riesca a ridare forza a una sinistra anticapitalista.

Di questo rovesciamento storico sono testimonianza i libri Il manifesto del femminismo del 99% e A Planet To Win, Perché ci serve un Green New Deal. E non a caso rendono omaggio allo storico Manifesto comunista del 1848. In questo caso è implicito nel titolo che riprende la frase finale del testo Marx e Engels che prima del celeberrimo invito ai proletari di tutti i paesi a unirsi gli ricordavano che avevano “nulla da perdere” e “un mondo da guadagnare”. Al posto di mondo trovate pianeta in questo manifesto ecosocialista che colpisce per chiarezza, concretezza e visione. Non a caso ha in comune con quello femminista anche il riferimento allo slogan più duraturo del movimento Occupy Wall Street: il 99% contro l’1%.

Un Green New Deal radicale

Per salvare il pianeta non ci si può affidare ai miliardari e alle loro soluzioni tecnologiche. È l’1% che sta mandando in rovina il pianeta. Il capitale ha trasformato i problemi ambientali in un big business e greenwashing ma c’è bisogno di “una politica climatica per il 99%”. Come insegnava Marx la classe si forma quando le persone scoprono di avere situazioni e interessi in comune e un avversario con cui prendersela. Individuare i propri nemici in alto significa anche evitare i conflitti orizzontali – come quello ambiente-lavoro. “Dividere il 99% contro sé stesso è lo stratagemma preferito e più riuscito del capitalismo”. La classe si forma durante la lotta, spiegava lo storico E.P.Thompson, e questo manifesto propone un vasto programma per mobilitare e unificare i settori sociali contro le élite dominanti e i super-ricchi con uno schema populista di sinistra.

Occupy ha creato i presupposti per la campagna di Sanders e anche per la crescita dei Democratic Socialists of America tra i quali ci sono attiviste/i, giornaliste e ricercatrici che hanno scritto questo libro pubblicato nel 2019 per sostenere il Green New Deal lanciato da Alexandria Ocasio-Cortez e poi diventato il piano del candidato presidenziale Sanders che è stato giudicato da molti scienziati l’unico all’altezza della crisi. Le tre autrici e l’autore del manifesto definiscono radicale il Green New Deal per distinguerlo da quello “falso” dei cauti moderati che pensano che basti indirizzare gli investimenti capitalistici con un mix di stimoli, sovvenzioni e carbon tax. Questo era l’intento di Thomas Friedman, il giornalista centrista che sul “New York Times” fu il primo a proporre nel 2007 la parola d’ordine del Green New Deal poi fatta propria da Obama che però il libro descrive come inefficace e subalterno al mondo degli affari. Gli ecosocialisti si sono presi Roosevelt, il Green New Deal e hanno smascherato Obama. L’impostazione di questo libro è opposta a quella originaria di Friedman che dichiarava: “Più il mercato fa da solo, più è sostenibile” e “il verde è geostrategico, geoeconomico, patriottico, capitalistico”. La radicalità è condizione per rendere il Green New Deal “popolare”, un programma “per le masse popolari e multirazziali, contrapposte a una ristretta élite”.

Sembrano citare la lezione del giovane Marx:

La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice.

Hanno imparato dal movimento francese dei gilet gialli che non è possibile attuare un’agenda sul clima attraverso carbon-tax che ricadono su una classe lavoratrice già in difficoltà mentre si tagliano le tasse ai ricchi. Sono a favore della decrescita, ma contro l’austerità neoliberista e anche l’autosacrificio. “Chi mai marcerebbe in nome di un modello di austerità, per quanto verde?”.

Puntano su un piano per il lavoro non affidato alle imprese ma direttamente allo stato che piacerebbe a Luciano Gallino e Kalecki. Per avere la forza di imporre alle imprese delle regole che danneggiano i loro interessi devi poter contare su una base di massa che fa pressione. E questo è possibile se le misure ambientali diventano occasione di scelte nell’interesse della maggioranza della popolazione.

Il recupero del New Deal

Le autrici e l’autore di A planet to win sembra che abbiano raccolto i “consigli immodesti” che ai tempi di Occupy uno degli intellettuali più originali della sinistra radicale statunitense, Mike Davis, scrisse per la nuova generazione diattiviste/i:

“Una delle lezioni più semplici ma più durature dalle generazioni dissidenti passate è la necessità di parlare in modo semplice. L’urgenza morale del cambiamento acquista il suo massimo splendore quando viene espressa con un linguaggio che tutti possono capire. Non a caso le più grandi voci radicali – Tom Paine, Sojourner Truth, Frederick Douglas, Gene Debs, Upton Sinclair, Martin Luther King, Malcolm X, e Mario Savio – hanno sempre saputo fare appello agli americani con le potenti, familiari parole della loro coscienza tradizionale. Alcuni giovani attivisti potrebbero mettere i loro Bakunin, Lenin, o Slavoj Zizek temporaneamente da parte e rispolverare una copia della piattaforma della campagna del 1944 di Franklin Delano Roosevelt: la Carta dei Diritti economici. Era un vibrante appello alla cittadinanza sociale e una dichiarazione dei diritti inalienabili al lavoro, all’alloggio, all’assistenza sanitaria, e a una vita felice – quanto di più lontano si possa immaginare dalla cedevole timida politica «Vi preghiamo uccidete solo la metà degli ebrei» dell’amministrazione Obama. I nuovi movimenti, come i vecchi, devono a tutti i costi occupare il terreno dei bisogni fondamentali, non del ‘realismo’ politico a breve termine. Nel farlo perché non accettare il dono dell’appoggio di FDR?”

C’è da ragionare su quali siano le “parole familiari” della nostra “coscienza tradizionale” e i nostri Roosevelt da recuperare. Credo che non manchino. Da questo libro si può trarre il consiglio di non fare tabula rasa del Novecento ma piuttosto buon uso delle pagine migliori della nostra storia. Come fa Naomi Klein che cita persino la Comune di Parigi. Le grandi conquiste non sono avvenute come risposta automatica a delle crisi, ma si è trattato sempre di “momenti di rottura nei quali si è liberata immaginazione utopica e la gente ha osato sognare in grande, ad alta voce, in pubblico, collettivamente”. Purtroppo quando è scoppiata la crisi del 2008 l’immaginazione era “atrofizzata”.

La rivoluzione “sconfitta” di Sanders

Negli USA la differenza l’hanno fatta le campagne di Bernie Sanders dal 2016 che sono riuscite a far parlare di socialismo persino i media mainstream e a renderlo popolare tra i millenial. «Il progetto di Sanders è stato uno degli eventi politici di sinistra più significativi del ventunesimo secolo», ha scritto Matt Karp su “Jacobin”. Si è prodotta una netta discontinuità rispetto alle culture prevalenti nei movimenti radicali che descriveva David Harvey nel gennaio 2014:

“Quello che rimane della sinistra radicale ora opera in gran parte al di fuori di tutti i canali istituzionali o di opposizione organizzata, nella speranza che azioni a piccola scala e l’attivismo locale alla fine possano sommarsi e dare qualche sorta di macroalternativa soddisfacente. Questa sinistra, che stranamente riecheggia un’etica libertaria e addirittura neoliberista di antistatalismo, è nutrita intellettualmente da pensatori come Michel Foucault e da tutti quelli che hanno rimesso in piedi i frammenti del postmoderno sotto la bandiera di un poststrutturalismo, in gran parte incomprensibile, che predilige le politiche dell’identità ed evita l’analisi di classe. Ovunque sono evidenti prospettive e azioni autonome, anarchiche e localiste. Ma mentre questa sinistra cerca di cambiare il mondo senza prendere il potere, una classe capitalista plutocratica sempre più consolidata resta senza sfidanti nella sua capacità di dominare il mondo senza vincoli”.

Tutta un’altra attitudine in A planet to win che pone apertamente il problema del “potere politico al più alto livello”, non demonizza il ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico e propone concretamente un programma ecosocialista che possa mobilitare sostegno popolare sfidando il trumpismo e i neoliberisti del partito democratico. Per dirla con Nancy Fraser: “Sanders ci ha indicato la strada verso una controegemonia possibile”.

Leggendo il libro emerge in maniera chiara che al centro rimane sempre la costruzione di un movimento per combattere per la giustizia economica, razziale, sociale e ambientale per tutti. Non vengono assolutamente considerate inutili le esperienze locali e comunitarie ma ci si pone il tema di come ottenere cambiamenti su vasta scala indispensabili per fermare il cambiamento climatico e rendere la società più giusta.

A Planet to Win è stato scritto quando era ancora in corso il tentativo di portare per la prima volta un socialista alla Casa Bianca. Cosa rimane dopo la vittoria di Biden? Matt Huber ha scritto un interessante analisi su “Jacobin”: “il Green New Deal è fallito” ma aggiunge “Finora”. È evidente che si è aperta una fase di “guerra di posizione”, per dirla col nostro Gramsci citato nel libro. AOC, Sanders e i DSA continuano a tallonare Biden anche se ha assunto un profiloprogrammatico assai più a sinistra di quello di Obama per ottenere il loro appoggio. AOC non fa sconti e ha dichiarato che il piano di Biden per il clima “non è abbastanza”. DSA stanno facendo campagna per l’approvazione della legge Pro Act sulla protezione del diritto di organizzazione sindacale.

Sanders e Cortez hanno presentato un Green New Deal per l’edilizia sociale e insistono per l’aumento del salario minimo a 15 dollari (per ora hanno ottenuto l’aumento per i dipendenti statali). Questo libro è anche una guida per continuare la lotta. Ogni punto del Green New Deal radicale è al tempo stesso oggetto di iniziativa legislativa, di mobilitazione sociale e costruzione del consenso nella società. Colpisce sia la distanza abissale con la finzione ecologica e le logiche obsolete del governo Draghi ma anche la presa di distanza esplicitata dai discorsi “né a destra né a sinistra siamo avanti” dei Verdi anni Ottanta. Bisogna scegliere “da che parte stare” come nella famosa folk song operaia. Mentre i Verdi in Europa si sono sempre più omologati emerge la distanza non solo con le proposte ecosocialiste e dagli stessi Greens

USA che sono molto a sinistra e antimperialisti, proseguono sulla strada del third party, e che nel 2010 furono il primo partito a presentare un Green New Deal.

Ecologia USA: dall’esodo al socialismo

Non c’è bisogno di ascoltare le previsioni del tempo / per sapere da che parte soffia il vento

Quando incise nel 1965 Subterranean Homesick Blues Bob Dylan non poteva sapere che il clima sarebbe diventato un tema politico di primaria importanza. Eppure proprio il suo mentore Allen Ginsberg che appare nello storico video del brano è stato con i suoi compagni della beat generation un antesignano della consapevolezza ecologica. Al poeta ecologista Gary Snyder, Japhy Rider nel romanzo i Vagabondi del Dharma di Kerouac del 1957, Ginsberg attribuiva

“La coscienza del fatto che le masse sfruttate non sono soltanto i popoli del terzo mondo, privati del loro lavoro e delle loro risorse dai nordamericani che consumano la metà delle materie prime mondiali con il 6% della popolazione, ma anche l’erba, gli alberi, il suolo, gli uccelli, le balene, i pesci, tutti gli esseri non umani distrutti dalla voracità dell’uomo. Una cosa nuova che si potrebbe inserire nelle categorie di analisi marxiste, i marxisti psichedelici la comprenderanno e in dieci anni ci si renderà conto che è semplice buon senso”.

Nel romanzo di Kerouac il personaggio che incarna Snyder ha “l’immensa visione” di giovani con lo zaino sulle spalle che

“si rifiutano di cedere all’imperativo generale che li porta a consumare e dunque a lavorare per il privilegio di consumare, tutte quelle schifezze che nemmeno volevano davvero tipo frigoriferi, televisori, macchine, o perlomeno macchine nuove ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e un sacco di robaccia varia che nel giro di una settimana trovi comunque nella spazzatura, tutti prigionieri di un sistema per cui lavori, produci, consumi, lavori, produci, consumi”.

Proprio la controcultura degli anni Sessanta costituirà l’humus su cui si sviluppò il moderno movimento ambientalista (la cui data di nascita di solito viene considerata quella del primo Earth Day nel 1970) fino a Greenpeace. Certo gli Stati Uniti hanno dato un forte contributo allo sviluppo dell’ecologismo nel dopoguerra e alla critica del modello industrialista-sviluppista. Basti pensare agli studi di Lewis Mumford, o al bestseller nel 1962 di Rachel Carson Primavera silenziosa. Nel 1967 al congresso Dialettiche della Liberazione di Londra Ginsberg era con Gregory Bateson che già parlava di riscaldamento globale. Dagli USA dagli anni Settanta è arrivata un’ecologia socialista che da Il cerchio da chiudere di Barry Commoner a riviste come Capitalismo Natura Socialismo di James O’Connor ha anticipato i temi dell’attuale generazione di più giovani studiosi/attivisti eco-socialisti. Sul versante libertario l’ecologia sociale di Murray Bookchin che ha fortemente influenzato Ocalan.

Il vecchio Ferlinghetti negli ultimi anni era quasi cieco e non avrà potuto leggere questo libro che gli sarebbe piaciuto perché da tempo andava ripetendo che per fermare la distruzione del pianeta da parte del capitalismo c’è bisogno di qualche forma di pianificazione e socialismo, democratico e libertario, ma socialismo. Sanders viene dagli anni Sessanta ma una nuova generazione – come dimostra questo libro – ha raccolto il testimone di quella che un tempo chiamavamo l’altra America. Facciamo circolare questo libro e discutiamone. C’è molto da imparare e su cui ragionare.


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