Ho tradotto un articolo della filosofa belga Chantal Mouffe, uscito sul blog della New Left Review, sulle recenti elezioni francesi e le strategie di Jean Luc Melenchon e La France Insoumise. Chantal Mouffe – teorica del populismo di sinistra con il suo compagno Ernesto Laclau, scomparso nel 2014 – è stata definita da Le Monde “la filosofa che ispira Melenchon” e la madrina di Podemos.Â
Il forte risultato di Jean-Luc Mélenchon al primo turno delle elezioni presidenziali francesi di quest’anno ha mostrato che il populismo di sinistra non è una breve ‘parentesi’ seguita da un ritorno a una forma più tradizionale di politica di classe. Naturalmente, il momento populista “caldo” a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio in Europa occidentale è ora passato e molti dei suoi portabandiera – Syriza, Podemos, Corbyn’s Labour – hanno subito battute d’arresto. Ma ciò non significa che il populismo di sinistra sia diventato obsoleto. Sarebbe sbagliato respingere una strategia politica solo perché alcuni dei suoi aderenti non hanno raggiunto i loro obiettivi al primo tentativo. La politica, come ci ricorda Max Weber, “consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà â€.
A dire il vero, Mélenchon è stato sconfitto alle elezioni presidenziali del 10 aprile, ma ha migliorato il risultato del 2017, conquistando il 21,95% contro il 23,15% di Marine Le Pen, e non andando al ballottaggio per soli 420.000 voti. Se il Parti communiste français non avesse insistito nella candidatura di un proprio candidato, Mélenchon avrebbe potuto ben colmare questo ristretto divario. Si potrebbe ovviamente sostenere che Mélenchon abbia ottenuto questa quota di voti perché ha rinunciato alla sua precedente strategia populista a favore di quella classica dell’unità della sinistra. In questa prospettiva, la creazione della Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale (NUPES), l’alleanza elettorale che ha riunito La France Insoumise (LFI) di Mélenchon, i Socialisti (PS), i Verdi (EELV) e i Comunisti (PCF), potrebbe essere vista come la prova che non persegue più una rottura populista.
Per valutare la fondatezza di questa affermazione, è necessario chiarire il significato di ‘populismo di sinistra’. Potremmo iniziare con l’approccio formale sviluppato da Ernesto Laclau in La ragione populista (2005). Il populismo, scrive, è una strategia per costruire una frontiera politica che divida la società in due campi, “noi” e “loro”, e chiede la mobilitazione dei “perdenti” contro i “potenti”. Il contenuto ideologico e istituzionale di questa lotta è assai contingente. Dipende da come si stabilisce la frontiera, nonché dalle strutture socio-economiche e dai contesti storico-geografici in cui è inscritta. Non c’è una semplice opposizione tra un ‘popolo’ retto e uno strato corrotto di ‘élite’, concepite come entità empiriche preesistenti. Piuttosto, questo binario può essere costruito in una varietà di modi, che è ciò che genera la miriade di distinzioni tra populismo di sinistra e di destra.
La costituzione del perdente, il “popolo”, si basa sull’instaurazione di una “catena di equivalenza” che articola una varietà di lotte contro il dominio, lo sfruttamento e la discriminazione. Questa articolazione è assicurata da un “significatore egemonico†– per esempio, un leader carismatico o un movimento collettivo attorno al quale possono cristallizzarsi affetti comuni. Poiché gli agenti sociali hanno molteplici posizioni soggettive, un “noi” o una “volontà collettiva” può sorgere solo attraverso una tale catena di equivalenza, che consente all’unità di emergere dalla differenza. Non si tratta di omogeneizzare diverse istanze politiche, ma di renderle ‘equivalenti’ grazie alla loro opposizione a un avversario comune e all’iscrizione congiunta in un progetto collettivo. Inoltre, una strategia populista di sinistra non richiede una rottura radicale con le istituzioni politiche della democrazia liberale pluralista e la fondazione di un ordine politico totalmente nuovo. Si impegna con le istituzioni politiche esistenti per trasformarle profondamente attraverso procedure democratiche. È una strategia di ‘riformismo radicale’ che si discosta sia dalle strategie della sinistra rivoluzionaria sia dallo sterile riformismo dei social liberali.
Dato questo quadro generale, la strategia di LFI alle ultime elezioni può essere definita “populista di sinistra”? Ha comportato la costruzione di una catena di equivalenze? Consideriamo i diversi aspetti della campagna 2022. Per quanto riguarda la mossa cruciale, il disegno di una frontiera politica che divide il “noi” da “loro”, non c’era ambiguità . Si affermava apertamente il carattere radicalmente divisivo del progetto LFI e si designava chiaramente il suo principale avversario: il sistema neoliberista e il blocco delle forze macroniste ad esso associato. Quanto alla costruzione del “noi”, LFI, presentandosi sotto la bandiera del Parlement de Union Populaire, ha indicato che il suo obiettivo era creare un “popolo” al di là delle tradizionali forze politiche di sinistra. Lo scopo del Parlamento, presieduto da Aurélie Trouvé, doveva collegare il partito con i movimenti sociali esistenti in varie sfere della società . A tal fine, il programma di Mélenchon L’avenir en commun ha affrontato non solo le relazioni socio-economiche di sfruttamento, ma anche gli antagonismi nei campi del genere, della razza e di altre forme di discriminazione. È stato particolarmente forte per quanto riguarda le questioni ecologiche, sostenendo un programma di decarbonizzazione radicale e un’ambiziosa transizione verde guidata dallo stato. Pur chiedendo la democratizzazione delle istituzioni politiche francesi e l’inaugurazione di una Sesta Repubblica, il programma di LFI non ha abbandonato il quadro istituzionale repubblicano. A questo livello, le rappresentazioni tradizionali di LFI come “estrema sinistra” erano del tutto false.
Se a queste considerazioni aggiungiamo il fatto che le campagne di Mélenchon sono sempre state caratterizzate da una forte enfasi sul ruolo degli affetti e dall’importanza di mobilitarli per creare una volontà collettiva, possiamo affermare con sicurezza che la strategia che LFI ha messo in campo alle elezioni francesi era un’iterazione del populismo di sinistra. Inoltre, l’ipotesi che la NUPES sia semplicemente una coalizione socialdemocratica, in cui ogni partecipante conserva il proprio programma specifico, può essere facilmente confutata. La NUPES ha infatti presentato una piattaforma elettorale organizzata sotto l’egemonia di LFI, che ha saputo trovare un accordo sui principali pilastri della sua agenda: il salario minimo, l’età pensionabile, la pianificazione ambientale e l’imposta sul patrimonio. Il PS e l’EELV sono stati persino costretti ad accettare la possibilità di disobbedire ai trattati europei che potrebbero aver ostacolato la realizzazione di tali misure. Un’alleanza stabilita in questo modo non segnala un cambiamento fondamentale di obiettivo. Indica piuttosto un tentativo di rafforzare le possibilità di ottenere una maggioranza elettorale garantendo che il voto progressista non fosse diviso.
Ahimè, non ha funzionato. Ma è stato comunque grazie all’esistenza della NUPES e all’energia dei suoi attivisti che a Macron è stata negata la maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale. La NUPES è diventata il secondo gruppo più numeroso, con 151 seggi contro i 245 dell’Ensemble. LFI ha raccolto voti dai disincantati sostenitori di Macron nelle aree urbane, nonché dalle comunità di immigrati e nei territori d’oltremare, aumentando la sua rappresentanza da 17 a 75 deputati; un risultato eccellente, anche se eclissato da una svolta inaspettata per Le Pen, il cui Rassemblement National ha ottenuto 89 seggi, facendo breccia nelle ex roccaforti comuniste. L’esito delle elezioni ha acceso un dibattito all’interno di LFI su “coloro che mancano” dal blocco di sinistra. Come ha riconosciuto il responsabile della campagna di Mélenchon, Manuel Bompard, i risultati avrebbero potuto trasmettere la falsa impressione che LFI avesse adottato la strategia di Terra Nova: un think tank vicino al Partito Socialista, che nel 2011 consigliava di concentrare le energie della sinistra sulla conquista delle minoranze colte, giovani ed etniche abbandonando la classi lavoratrici bianche al Front National. Esaminando i risultati, il deputato dell’LFI Francois Ruffin ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che, sebbene il partito avesse ottenuto guadagni tra i giovani, le classi medie e i settori della classe operaia delle periferie, non fosse riuscito a fare alcun progresso nella France périphérique: piccoli centri, comuni rurali ed ex cinture industriali in declino, la ‘Francia dei Gilets Jaunes’.
È qui che Le Pen ha ricevuto costantemente i suoi migliori punteggi, proprio perché ha offerto un discorso che risuecheggiava le richieste di sicurezza e protezione che si trovano nelle parti della Francia che hanno maggiormente sofferto le conseguenze della globalizzazione guidata dal mercato. Avendo accettato il mantra di There Is No Alternative, le forze del “neoliberismo progressista” non sono state in grado di rispondere a queste richieste, vedendole invece come ostacoli alla modernizzazione. Questo ha posto le basi per il Front National per inquadrarle in termini nazionalisti-xenofobi e presentarsi come la “voce del popolo”. Per recuperare questi settori popolari – che sentono che il partito di Le Pen è l’unico che se ne prende cura – la sinistra deve rendersi conto che molte delle rivendicazioni che oggi si esprimono in un discorso nazionalista hanno un nucleo democratico che potrebbe essere recuperato. Tali richieste non implicano l’adozione di una visione della sovranità basata sul nazionalismo escludente. Disegnando la frontiera di noi/loro in un modo che non opponga i “veri cittadini” ai migranti, queste richieste potrebbero essere affrontate in un modo egualitario che mira a proteggere le persone dal regno distruttivo del capitale.
Purtroppo, c’è una tendenza tra alcuni a sinistra ad adottare un atteggiamento di superiorità nei confronti di coloro che votano per Le Pen. Invece di cercare di comprendere le complesse ragioni del loro attaccamento al suo partito, il loro atteggiamento è di totale rifiuto e condanna morale. Accusano gli elettori di RN di essere intrinsecamente razzisti, sessisti, omofobi e di rappresentare il “ritorno del fascismo”. Sarebbe però del tutto controproducente reagire ai risultati elettorali invocando la creazione di un fronte antifascista. Ciò avrebbe la disastrosa conseguenza di stabilire la frontiera politica in un modo che metta LFI nello stesso campo di Macron e del blocco neoliberista, schierato contro le cosiddette forze del fascismo di Le Pen. Una tale strategia precluderebbe ogni possibilità di recuperare quei settori decisivi della classe operaia. La sfida per LFI è piuttosto costruire un ‘popolo’ che sia espressione di un autentico blocco popolare, capace di formare una maggioranza sociale. Questo richiede il consolidamento e l’ampliamento del sostegno che ha già stabilito, nonché il raggiungimento di coloro che hanno perso la fiducia nell’azione politica e si sono rifugiati nell’astensione. È inoltre imperativo non trascurare i settori popolari “mancanti†o liquidarli come “irraggiungibiliâ€.
Nell’attuale congiuntura dell’emergenza climatica, è anche cruciale per la strategia populista di sinistra affrontare la questione della sopravvivenza e dell’abitabilità del pianeta. La biforcazione ecologica propugnata da LFI potrebbe fungere da principio egemonico necessario per articolare le lotte sociali accanto a quelle ambientali. Tuttavia, per svolgere quel ruolo, il progetto ecologico non può essere concepito semplicemente come un insieme di politiche. Affinché le idee o le politiche abbiano forza, devono mobilitare affetti che si collegano con l’immaginario sociale dominante. Le politiche da sole non hanno la capacità di generare la volontà collettiva necessaria per l’attuazione di una transizione verde. Ecco perché, nel mio prossimo libro, propongo di dare forza affettiva alla biforcazione ecologica immaginandola nei termini di una ‘Rivoluzione Democratica Verde’: cioè come un nuovo fronte di radicalizzazione della democrazia. Attivando l’immaginario democratico, un programma verde potrebbe portare affetti più potenti dei discorsi liberali concorrenti. Avrebbe il ruolo di un ‘mito’ nel senso di Sorel: un’idea il cui potere di anticipare il futuro conferisce un nuovo significato al presente.
Una Rivoluzione Democratica Verde difenderebbe la società e le sue condizioni di esistenza in un modo che autorizza le persone, invece di incoraggiarle a ritirarsi nel nazionalismo difensivo o nell’accettazione passiva di forme algoritmiche di governamentalità . Con i neoliberisti che cercano di sfruttare le crisi socioeconomiche e climatiche per imporre soluzioni tecnologiche autoritarie, una tale visione potrebbe risuonare con un’ampia gamma di richieste democratiche e aumentare l’attrattiva del programma di LFI.
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