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Andy Higginbottom: L’eredità rivoluzionaria di Walter Rodney

Walter Rodney, come CLR James, l’ho conosciuto negli anni ’80 ascoltando Linton Kwesi Johnson che gli dedicò un brano. Purtroppo in Italia non è mai stato tradotta l’opera di questo storico e militante rivoluzionario assassinato nel 1980 in Guyana. Eppure il suo “Come l’Europa sottosviluppò l’Africa” rimane attualissimo. Ho tradotto la recensione di uno studioso britannico del colonialismo come Andy Higginbottom della riedizione di How Europe Underdeveloped Africa nel 2018 con prefazione di Angela Davis.

Su Machina consiglio questo ritratto di Walter Rodney di Andrea Ughetto che si domanda come mai in Italia non abbia avuto diffusione per decenni la sua opera. Una risposta certo parziale credo risieda nell’operaismo italiano che prediligeva le tesi contenuta in ‘Sviluppo e sottosviluppo: un’analisi marxista’ di Geoffrey Kay che infatti fu tradotto nella collana Materiali marxisti di Feltrinelli, curata da Toni Negri e altri compagni tra cui credo Ferruccio Gambino. Un riferimento in tal senso si trova nell’articolo Imperialismo e antimperialismo in Africa del panafricanista Joseph Campbell pubblicato su Montly Review nel 2015. A mio parere i due punti di vista possono essere integrati e non contrapposti ma non è questa la sede per dilungarsi. Buona lettura!

Questo libro è un capolavoro. Walter Rodney scrisse How Europe Underdeveloped Africa (HEUA) poco più che ventenne mentre insegnava all’Università di Dar es Salaam, in Tanzania. Il libro raccoglie in un’ampia narrazione la storia del continente africano da una prospettiva al tempo stesso panafricana e marxista. Inoltre, è un contributo originale a quella che era conosciuta come la scuola della dipendenza proveniente dall’America Latina. [1]

La riedizione di HEUA di Verso è da accogliere con entusiasmo.

Oltre all’Introduzione all’edizione del 1982, scritta poco dopo l’assassinio di Rodney, la nuova edizione contiene una breve e stimolante Prefazione di Angela Davis, che delinea bene la scena affermando che nessuno dei problemi fondamentali affrontati da Rodney è stato risolto. Uno di questi fili, osserva Davis, è come la condizione delle donne lavoratrici africane, così come degli uomini, sia stata spinta verso il basso dal colonialismo. Davis invita giustamente i lettori a raccogliere e “approfondire l’eredità di Walter Rodney”. Riesiaminiamo ora quell’eredità.

HEUA porta avanti la teoria marxista della dipendenza e del sottosviluppo da una prospettiva panafricana. E’ un segno della gamma e della profondità di HEUA che ci sono almeno tre grandi dibattiti che impone a vari storici, tutti apologeti dell’imperialismo europeo. Il primo dibattito riguarda lo specifico orrore distruttivo della tratta degli schiavi europea. Il secondo dibattito riguarda se l’Europa abbia beneficiato economicamente della “Scramble for Africa” della fine del diciannovesimo secolo e dei regimi coloniali che furono instaurati. Il terzo dibattito riguarda l’intersezione tra razza e classe, la posizione dei lavoratori poveri africani e la natura del loro sfruttamento sotto i regimi coloniali europei. In questa recensione identificherò alcuni dei protagonisti di Rodney e gli argomenti in questi dibattiti a causa del loro permanente significato ideologico.

Come tutta la scrittura di Rodney, la struttura di HEUA è chiara e metodica. Il capitolo 1 è un’affermazione paradigmatica che chiede: “che cos’è lo sviluppo?” e “cos’è¨ il sottosviluppo?” [2] Nel rispondere, Rodney delinea la sua argomentazione principale: che la povertà e il sottosviluppo dell’Africa non sono dovuti ad alcun attributo sociale o biologico intrinseco degli africani, ma derivano da relazioni esterne predatorie sistemiche che sono state a loro volta interiorizzate. Mentre alcuni dei meccanismi specifici sono cambiati, il messaggio centrale del libro è che per secoli l’imperialismo capitalista europeo ha sfruttato l’Africa.

I capitoli 2 e 3 esaminano rispettivamente la storia africana prima e dopo l’arrivo della tratta degli schiavi europea. Qui Rodney contrasta l’ortodossia allora emergente (in particolare dell’establishment accademico inglese) che tendeva a minimizzare la novità, l’estensione e la pura distruttività della schiavitù europea per lo sviluppo dell’Africa.

La storia dell’Africa fino al 15° secolo è stata notevolmente varia e Rodney ne traccia una panoramica e quindi esamina le dinamiche interne di diverse società. Nella sua conclusione di questo capitolo Rodney ritorna al concetto di sviluppo, che vede come normalmente derivante dalla “lenta impercettibile espansione della capacità produttiva sociale che alla fine equivaleva a una differenza qualitativa, con l’arrivo al nuovo stadio talvolta annunciato dalla violenza sociale” (pag. 82). La sua valutazione è che nel XV secolo in generale le società africane erano ancora generalmente caratterizzate dal comunalismo, e solo eccezionalmente erano entrate in un grado di differenziazione di classe simile al feudalesimo in Europa, come in Egitto e in Etiopia.

Di importanza per gli argomenti ideologici a venire, Rodney sottolinea inoltre che mentre esistevano forme di schiavitù nel periodo pre-europeo della tratta degli schiavi, si dovrebbe prestare attenzione poiché lo stesso termine viene applicato a processi abbastanza diversi, analizza il loro carattere come forme specifiche di oppressione sociale qualitativamente diversa da quella che sarebbe venuta. Riassume che “la schiavitù come modo di produzione non era presente in nessuna società africana, sebbene alcuni schiavi si trovassero dove la decomposizione dell’uguaglianza comunitaria era andata più lontano” (p. 82). Qui Rodney sottolinea metodologicamente che la storia dell’Africa deve essere studiata sia in sé che in confronto all’Europa e ad altre parti del mondo.

Sebbene Rodney sia solo occasionalmente esplicito nel suo testo, questo è il primo grande dibattito contro il quale si posiziona la sua interpretazione sintetica.[3] Nel 1969 lo storico JD Fage scriveva che la schiavitù era endemica in Africa prima del XV secolo e inoltre quel commercio era stimolato dai gruppi costieri di africani che cooperavano volentieri con gli europei, e beneficiavano di rapimenti dall’interno dell’Africa.[4] Fage concludeva che la tratta europea degli schiavi “era essenzialmente solo un aspetto di un processo molto ampio di sviluppo economico e politico e di cambiamento sociale nell’Africa occidentale” (1969, p. 404). C’è stata una discussione collegata sul numero di africani catturati. Il consenso accademico, basato sul conteggio degli arrivi nelle Americhe, si attesta intorno agli 11 milioni. Basando la sua argomentazione su questi dati, Fage continua:

… il volume e la distribuzione della tratta degli schiavi per l’esportazione non suggeriscono che la perdita di popolazione e altri effetti dell’esportazione di manodopera verso le Americhe abbiano avuto effetti universalmente dannosi sullo sviluppo dell’Africa occidentale. Piuttosto, si suggerisce, governanti e mercanti dell’Africa occidentale hanno reagito alla domanda con ragionamenti economici e l’hanno usata per rafforzare i flussi di sviluppo economico e politico che erano già presenti prima dell’inizio della tratta degli schiavi nell’Atlantico (1969, p. 404).

Contro questa visione benevola che sanifica la distruzione europea, Rodney scrive in termini risonanti oggi:

In un certo senso, è preferibile ignorare tali sciocchezze e isolare la nostra gioventù dai suoi insulti; ma purtroppo uno degli aspetti dell’attuale sottosviluppo africano è che gli editori capitalisti e gli studiosi borghesi dominano la scena e contribuiscono a plasmare le opinioni in tutto il mondo. E’ per questo motivo che la scrittura del tipo che giustifica la tratta degli schiavi deve essere smascherata come propaganda borghese razzista, che non ha alcun legame con la realtà  o la logica. Non si tratta solo di storia, ma dell’attuale lotta di liberazione in Africa (p. 117).

Il capitolo 4 è il perno centrale del libro. Le sue sezioni precedenti riguardano l’impatto della schiavitù europea e possono essere viste come un capitolo a sé stante. Il punto di vista di Rodney è che la tratta degli schiavi europea é stata sia enormemente vantaggiosa per l’Europa sia un fattore fondamentale nel sottosviluppo africano. Per quanto riguarda l’enorme impulso al capitalismo portato dalla schiavitù e dalla tratta degli schiavi, Rodney si riferisce con approvazione al classico di Eric Williams che ne sostiene l’importanza nell’alimentare la rivoluzione industriale in Inghilterra.[5]  Rodney concorda con un’altra tesi di Williams, secondo cui gli africani furono ridotti in schiavitù “per ragioni economiche, in modo che la loro forza lavoro potesse essere sfruttata” (p. 103).

L’estrema distruzione della tratta degli schiavi europea è andata oltre il numero di giovani uomini e donne africani che sono finiti nelle Americhe, perché il processo della loro cattura generò continue guerre tra collaborazionisti e resistenti in tutta l’Africa occidentale e in parti dell’Africa centrale e meridionale. Rodney sostiene anche che l’interesse dei proprietari di schiavi europei fosse alla base della “Tratta degli schiavi dell’Africa orientale” (p. 109). Dimostra che mentre le popolazioni dell’Europa e dell’Asia sono più che raddoppiate tra il 1650 e il 1850, non vi è stato alcun aumento in Africa durante i due secoli in cui il commercio ha raggiunto il suo apice. La popolazione persa è stata dieci volte maggiore degli 11 milioni normalmente citati. Così, a causa della schiavitù, l’espansione dell’Europa ha risucchiato la forza vitale degli africani, il suo successo si è basato sulla distruzione e distorsione dello sviluppo dell’Africa per secoli,

Più avanti nel capitolo 4 Rodney spiega l’interregno della metà del diciannovesimo secolo tra la fine della schiavitù nelle sue colonie da parte della Gran Bretagna (nel 1834) e la “Scramble for Africa” che raggiunse il suo apogeo nella Conferenza di Berlino del 1884/5 che decise come il continente sarebbe stato completamente suddiviso tra le potenze rivali dell’Europa occidentale. Seguendo un approccio simile a quello del capitolo 2, Rodney fornisce nuovamente diversi resoconti dettagliati di diverse regioni, spiegando come si inserissero in un complesso modello di sviluppi politico-militari caratterizzati da stagnazione tecnologica ed economica. Questa recensione non può rendere giustizia alla ricchezza di intuizioni negli studi dettagliati, poiché ci atteniamo ai contorni più ampi dell’argomentazione di Rodney.

“L’avvento dell’imperialismo e del colonialismo” è una sezione chiave che ci porta nel secondo grande dibattito. Rodney si oppone alla «curiosa interpretazione dello Scramble e della partizione africana che praticamente equivale a dire che il colonialismo è nato a causa dei bisogni dell’Africa piuttosto che di quelli dell’Europa» (p. 164). Il racconto di Rodney sul colonialismo è completamente opposto all’ortodossia degli storici dell’establishment britannico “Oxbridge” come DK Fieldhouse che, sostiene, “proclama che il colonialismo non era essenzialmente economico e che i colonizzatori non ci guadagnarono” (p.363). Nel capitolo 5 Rodney spiega i molti modi in cui la colonizzazione dell’Africa ha contribuito allo sviluppo del capitalismo in Europa. Ci sono molti dettagli illustrativi, cita l’esempio del conglomerato anglo-olandese Unilever come “uno dei principali beneficiari dello sfruttamento africano”. I lavori successivi di Fieldhouse possono essere letti come una risposta estesa al paradigma del sottosviluppo di Rodney. Fieldhouse continuò a scrivere:

Sfortunatamente per la cronaca del colonialismo si è spesso rivelato necessario utilizzare metodi inaccettabili per gli umanitari, allora e in seguito, per persuadere gli africani e alcune altre popolazioni indigene a intraprendere un lavoro regolare o a produrre per il mercato (1983, p. 73) [6]

Molto più sfortunato per gli africani e per quegli altri popoli ai quali sono stati imposti ‘metodi inaccettabili’, cioè la violenza sistematica! La persistenza dell’apologia inglese dell’impero come rappresentata da Fieldhouse (se ne possono trovare fin troppi esempi oggi) è una ragione in più per riportare al centro della scena la storia antimperialista africana di Rodney.

Il capitolo 6 di HEUA valuta criticamente i presunti benefici del colonialismo per gli africani. Qui Rodney affronta i grandi miti, che almeno gli europei hanno costruito ferrovie, scuole e simili. Mette in evidenza in un campo dopo l’altro, soprattutto nell’istruzione, come il colonialismo abbia sottosviluppato l’Africa. Rodney sostiene che la promozione dell’individualismo da parte dell’educazione coloniale è stata particolarmente distruttiva. C’erano alcune agevolazioni minori dopo il 1945 quando le potenze coloniali europee entrarono nella fase finale del loro dominio e cercarono di incoraggiare la lealtà tra alcune sezioni delle popolazioni occupate, ma dopo aver soppesato queste affermazioni la valutazione complessiva che “sia stato un atto della più sfacciata frode per far pesare le misere amenità sociali fornite durante l’epoca coloniale rispetto allo sfruttamento, e per arrivare alla conclusione che il bene superava il male» (p. 246).

Il libro di Rodney si distingue perché ci fornisce una storia integrata dell’Africa dal punto di vista del paradigma della dipendenza/sottosviluppo, secondo cui il capitalismo e l’imperialismo sono “un sistema integrale che comporta il trasferimento di fondi e altri benefici dalle colonie alle metropoli” (p. 362). Al di là della nozione di trasferimento, la storia di Rodney è un esempio della teoria marxista della dipendenza, in quanto analizza i rapporti di classe coinvolti, che ci porta alla fonte originaria dei fondi trasferiti, il lavoro africano nelle diverse forme di sfruttamento, dai contadini produttori alla manodopera migrante.

Rodney aveva un grande senso di come i lavoratori poveri dell’Africa soffrissero sotto la schiavitù e il colonialismo. “I capitalisti sotto il colonialismo non pagavano perché un africano mantenesse se stesso e la famiglia”. (p. 265) Una delle virtù di HEUA è che esprime coerentemente un punto di vista di classe, collegando l’oppressione nazionale con le modalità  specifiche di sfruttamento del lavoro. ‘Secondo tutti i parametri, la manodopera era a buon mercato in Africa e la quantità di eccedenza estratta dal lavoratore africano era grande. Il datore di lavoro sotto il colonialismo pagava un salario estremamente basso “ un salario solitamente insufficiente per mantenere fisicamente in vita il lavoratore“ e, quindi, doveva coltivare cibo per sopravvivere (p.172). Forse sotto l’influenza di Paul Baran e Paul Sweezy,[7] Rodney usa il termine ‘surplus’, mentre è chiaro dal contesto che ciò che si intende è ‘plusvalore’, come Marx ha definito il concetto. Prendendo come esempio la filatura del cotone di Marx, Rodney attira l’attenzione sul “lavoro necessario per coltivare il cotone grezzo” e osserva che “da un punto di vista africano, la prima conclusione da trarre è che il contadino che lavorava sul suolo africano veniva sfruttato dall’industriale che utilizzava la materia prima africana in Europa o in America. In secondo luogo, è necessario rendersi conto che il contributo africano della manodopera non qualificata era valutato molto meno del contributo europeo della manodopera qualificata» (p. 266).

Tralasciando per ora che anche il lavoratore africano era qualificato, Rodney sostiene che la sua ricompensa molto inferiore (“valutata molto meno”) non era dovuta al gioco delle forze del libero mercato, ma il risultato della repressiva “dominazione monopolistica” da parte dello stato coloniale. Rodney ci ricorda ripetutamente che, sebbene nello stesso sistema, il volto coloniale del capitalismo era distinto dal suo volto metropolitano, dove almeno “l’ascesa della classe borghese giovava indirettamente alle classi lavoratrici, attraverso la promozione della tecnologia e l’innalzamento del tenore di vita”. Al contrario, «in Africa il colonialismo non ha portato quei benefici, ha semplicemente intensificato il tasso di sfruttamento della manodopera africana e ha continuato a esportare il surplus» (p. 312).

Nella sua recensione critica di HEUA, lo storico e trotskista sudafricano Martin Leggasick ha commentato che dei “limiti e carenze” dell’opera, il più significativo “è il modo in cui il suo marxismo¨ in punti cruciali superato dal suo nazionalismo africano” e, per rafforzare il punto, ‘anche il titolo ha questa implicazione’ (1976, p. 436).[8] Legassick ha contestato il quadro concettuale più ampio «del paradigma sviluppo-sottosviluppo»; ed era particolarmente preoccupato di negare che i lavoratori africani fossero più sfruttati dei lavoratori europei, i cui “livelli di vita più elevati possono ben essere associati a un tasso tecnico più elevato di sfruttamento è essenziale per qualsiasi comprensione sistematica dell’analisi di Marx” (p. 436). La ragione addotta da Legassick per i lavoratori europei che ottengono una retribuzione più alta è la loro presunta maggiore produttività a causa del lavoro con le macchine, e quindi della produzione di più “plusvalore relativo”. Questa lettura unilaterale del Capitale è il segno distintivo del marxismo eurocentrico e segna il terreno del terzo dibattito intorno all’HEUA, che rimane in corso. Legassick è un esponente tipico della scuola marxista eurocentrica nella sua ulteriore affermazione secondo cui Rodney è eccessivamente preoccupato del trasferimento del surplus dall’Africa all’Europa e non si preoccupa dei rapporti di classe della produzione di quel surplus, il che è palesemente impreciso. Rodney mostra che “i salari pagati ai lavoratori in Europa e Nord America erano molto più alti dei salari pagati ai lavoratori africani in categorie comparabili”(p. 177, corsivo aggiunto). Egli riporta disparità da quattro a anche trenta volte, che «illustrano quanto maggiore fosse il tasso di sfruttamento dei lavoratori africani» (p. 177). Questo terzo dibattito è vitale per considerare la continuità dello sfruttamento internazionale quando l’Africa è uscita dall’occupazione coloniale, verso stati formalmente indipendenti dove continuano ad operare meccanismi di sottosviluppo e brutale sfruttamento della manodopera africana.

Se, come scriveva Rodney nel 1972, il colonialismo in Africa era finito, cosa sarebbe successo dopo? Il poscritto di AM Babu fornisce indicazioni importanti sull’attualità del problema. In HEUA Rodney ha gettato una base storica completa per lo studio del neocolonialismo in Africa, senza che esso stesso fosse ancora quello studio. La stessa vita di Rodney è stata interrotta, fu assassinato nel 1980 perché stava combattendo in prima linea nella lotta contro il capitalismo neocoloniale nel suo paese d’origine, la Guyana. Nondimeno i vari scritti di Rodney sul neocolonialismo sono un ulteriore filone della sua straordinaria eredità e parte della coscienza collettiva con i suoi contemporanei impegnati nella rivoluzione in Africa, che richiede un commento a parte.

HEUA si distingue da solo come un risultato considerevole i cui argomenti e dibattiti fondamentali meritano di essere studiati attentamente da tutti gli interessati alla liberazione africana, e in particolare dalla generazione futura per la quale fornisce un esempio eccezionale di studio rivoluzionario impegnato.

[1] Vorrei ringraziare tutti gli studenti della Kingston University che hanno collaborato con me allo studio di questo testo.

[2] Tra la prima edizione del 1972 di Bogle L’Ouverture e l’edizione della Howard University del 1982, che è seguita da vicino da questa edizione sul verso, il corsivo di alcune parole per enfasi dell’autore è stato perso nel capitolo 1. Questo non sarebbe più che un cavillo, tranne per il fatto che alcuni di questi corsivi perduti ricorrono nei punti chiave dell’argomentazione generale che Rodney sottolinea (vedi nuova edizione p. 16). C’è da sperare che se ci sarà una ristampa da parte di Verso questi corsivi vengano recuperati.

[3] Rodney si riferisce quasi certamente alle opere di D. Mannix e M. Cowley (1963) Black Cargoes, a History of the Atlantic Slave Trade New York: Viking Press successivamente ripubblicato come Penguin Classic (2002); e in particolare JD Fage (1959) Introduction to the History of West Africa Cambridge: Cambridge University Press che Rodney ha criticato nel suo articolo del 1966 “African slavery and other forms of social oppression on the Upper Guinea Coast in the context of Atlantic Slave- commerciò Journal of African History, 7 (3), pp. 431-443. Questo articolo faceva parte della tesi di dottorato di Rodney che fu pubblicata nel 1970 come A History of the Upper Guinea Coast: 1545-1800 New York: Monthly Review Press.

[4] Fage, J.D. (1969) ‘Slavery and the Slave Trade in the Context of West African History  The Journal of African History, 10(3), pp. 393-404

[5] Williams, Eric (1994) Capitalism and Slavery. 2nd edition. Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press. Edizione italiana Capitalismo e  schiavitù, Bari, Editori Laterza 1971

[6] Fieldhouse, D.K. (1983) Colonialism 1870-1945: An Introduction Basingstoke/London: Macmillan

[7] Baran, Paul and Paul Sweezy (1966) Monopoly Capital. New York: Monthly Review Press. “Il Capitale Monopolistico” Paul A. Baran Paul M. Sweezy – Einaudi -1968 Torino.

[8] Legassick, Martin (1976) Perspectives on African Underdevelopment, The Journal of African History, Vol. 17, No. 3, pp. 435-440

 

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