Mario Tronti è uno degli intellettuali che più ha influenzato la mia vita. L’ho letto e studiato ininterrottamente da quando avevo quindici anni. Ho scritto un piccolo omaggio ripreso dagli amici di Kulturjam. Vi propongo un’intervista che Antonio Peduzzi fece a Mario Tronti che uscì sul quotidiano il manifesto il 27 dicembre 1996.Â
Due riformismi tra “Operai e capitale”
Dal cuore delle lotte di fabbrica rileggevamo il Marx dei Gundrisse, laboratorio di scienza operaia
“OPERAI e capitale”, Einaudi 1966: trent’anni fa. Recentemente sono diventati pubblici i verbali delle riunioni in cui, nella casa editrice, si discuteva della pubblicazione del libro. E dunque risulta che Norberto Bobbio era contrario, mentre da parte sua Italo Calvino si diceva “contrario non al libro, ma alla sua pubblicazione”. A tre decenni di distanza da quella riunione del cui contenuto non conosceva nulla, Mario Tronti ha commentato, scherzosamente, le parole di Calvino: “Uno un libro lo scrive per tenerselo, non per pubblicarlo”.
Per dar conto del clima di quell’epoca, cioè di una fase assai precisa dell’operaismo italiano, abbiamo intervistato Mario Tronti. Anche perché la pubblicazione di Operai e capitale coincide con la chiusura di Classe operaia. Sulla definizione di quella fase, sulle prospettive teoriche e politiche che allora venivano pensate e agite, Tronti è attualmente impegnato. Sta infatti lavorando sulla pubblicazione di materiali rimasti ancora inediti di Classe operaia, che dovrebbe essere accompagnata da una sua analisi di quella fase dell’operaismo italiano.
Nelle pagine di “Operai e capitale” c’era scritto che l’incontro tra il riformismo del movimento operaio e il riformismo capitalistico avrebbe dato il via a un nuovo ciclo di lotte, e che questo sarebbe avvenuto a condizione che l’incontro fosse stato d’iniziativa operaia. Ora, quest’incontro, in un certo modo, c’è stato. Mi pare che quel passo fosse del 1964. C’è stato veramente, l’incontro tra i due riformismi?
MT. Mi ricordo di un articolo intitolato “I due riformismi”, che non apparve né su Quaderni rossi né su Classe operaia, ma su un altro giornale di cui non ricordo nemmeno il nome. Potrebbe essere, forse, Classe e partito.
C’era, c’era
MT. L’incontro tra due riformismi, allora, era all’ordine del giorno: c’era il grande boom capitalistico, o neocapitalistico come si diceva allora, e poi l’iniziativa politica di governo: il centrosinistra, quello dei primi anni ’60. Quello iniziale, che parte dal 1962, dal grande discorso di Moro al congresso di Napoli della Dc, che impostò praticamente l’idea di un riformismo del capitale: in modo lucido, come sapeva fare lui. Poi ebbe avvio con i governi, Fanfani prima, Moro poi, e fu una stagione brevissima, dal 1962 al 1964. Anzi, ancora prima del 1964 la cosa sembrava fallita: il primo centrosinistra ebbe una vita che fu uno sprazzo dal punto di vista politico, perché poi si ritirò subito entro confini già previsti, prestabiliti, governi di medio calibro. Lo sanno bene i protagonisti di allora, anche alcuni socialisti, da Giolitti a Ruffolo, che erano i protagonisti di questo incontro tra i due riformismi. Ricordo ad esempio che su un corsivo di Classe operaia scrivevo: quando si incontreranno Moro e Lombardi – non Nenni, ma Lombardi, l’anima riformista seria del Psi – allora si aprirà una nuova stagione. Si trattava di guardare a quella stagione con grande favore, perché allora c’era una tesi – che non so se sia ancora valida, ho molti dubbi che lo sia – che sosteneva la crescita esponenziale delle lotte quando il terreno politico avanzava. Se fossimo riusciti cioé ad avere un terreno politico più moderno, più avanzato rispetto ai vecchi equilibri – i governi di centrosinistra – si sarebbe sviluppato un ciclo di lotte più forte… Oggi avrei qualche problema a riproporre questo automatismo. Mi sembra una delle cose che si sono perse per strada. Anche perché c’è una separatezza tra i due luoghi, il politico e il sociale. Non perché abbiano conquistato ognuno una ricca autonomia, ma perché sono a livelli inferiori di sviluppo.
Oggi quei due riformismi, secondo te, si sono incontrati? Se fosse così saremmo veramente a un passaggio epocale
Mi pare che stiamo al di sotto di questo problema. Se si fosse impostato così sarebbe stato più interessante, ma allora avremmo dovuto avere altri protagonisti di governo, gente capace di ripensare la storia politica italiana e la storia sociale recente. E non solo ripensarla, ma riallacciare una continuità , una ripresa di quel progetto politico di ammodernamento; giacché anche allora si parlava di “salto in Europa”, e assai più di quanto non si faccia adesso. Allora il salto in Europa era il tentativo di raggiungere il livello di sviluppo degli altri paesi europei, per chiudere con una storia dell’Italietta che invece, secondo me, ha ripreso fiato e corpo negli anni seguenti. Da metà anni ’70 a tutti gli anni ’80 si è tornati alla vecchia storia italiana, in cui anche quell’esperienza iniziale di centrosinistra non esisteva più, tanto è vero che i protagonisti saranno altri: invece di Moro e Lombardi abbiamo avuto Forlani e Craxi. La vecchia Italietta che torna…
Come spieghi la straordinaria capacità di previsione, nei primi anni ’60, di una frazione della sinistra, l’operaismo italiano, che ha pronosticato l’incontro tra i due riformismi? Perché, da un certo punto di vista, oggi è possibile dire: questi operaisti, trent’anni fa, avevano visto giusto…
Sì, bisognerebbe tornare a ripensare tutto l’operaismo italiano. Bisognerebbe riflettere molto più di quanto non si sia fatto superficialmente poi, liquidandolo con la solita accusa: astrattezza, filosofia della classe operaia, hegelismo, idealizzazione. In realtà quella è stata una delle esperienze più concrete, politicamente più concrete, che ci siano state dal punto di vista intellettuale, perché quelle cose poi si ricavavano dallo studio e anche dalla partecipazione diretta, mettendoci all’interno delle stesse lotte operaie, che allora non erano uno scherzo; eravamo in un ciclo altissimo di lotte operaie. Vissute dal di dentro, cioè dal punto di vista della fabbrica concreta – e soprattutto dalla grande fabbrica, che allora era il motore di tutto lo sviluppo – dai punti alti dello sviluppo e delle lotte. Stavamo dentro queste cose giorno per giorno.
In quelle esperienze nacque anche una rottura teorica con la tradizione
La cosa più interessante di quella esperienza intellettuale è che mentre stavamo lì dentro rileggevamo il Marx della critica dell’economia politica, il Marx dei Grundrisse più che il Marx del Capitale, quel grande laboratorio di scienza operaia, come dicevamo allora con un’espressione che ha sempre fatto rabbrividire molti, ma che a me piace ancora molto. Punto di vista operaio, parziale, su tutta la società – che credo sia un delle forme più acute di visione delle cose sociali. Oggi tutta la cosa andrebbe ripensata. Forse è necessario un lavoro di riproposizione dei materiali di quell’esperienza, proprio per farla leggere in modo diverso.
Non c’è dubbio che le analisi e i testi dell’operaismo abbiano formato molta gente, di più di una generazione. Però la sinistra ha guardato con sospetto l’esperienza operaista e i suoi scritti. L’ha demonizzata. Soprattutto quando ha stabilito genealogie e derivazioni negli anni ’70 e ’80. Parlo di genealogie culturali, di esperienze politiche ed editoriali, di gruppi. Perché quando si parlava di operaismo negli anni ’70 era Potere operaio. Poi ci fu l’Autonomia, la quale nasceva mentre tu eri impegnato sull’autonomia del politico. Per alcuni la parola “operaismo” è associata alla lotta armata
Sbagliano. Vorrei riuscire a rimetter sui piedi l’operaismo degli anni ’60, che a mio parere è Quaderni rossi più Classe operaia, e lì punto. Dopo c’è un’altra storia: persone, gruppi che riprendono questo tipo di impostazione; ma sono un’altra cosa, un’altra storia. Altra epoca, con protagonisti completamente diversi. A quel punto la nostra esperienza era già chiusa: Classe operaia finisce nel 1966, esattamente quando esce Operai e capitale. E’ vero, lì anticipammo anche il ’68: un ciclo di lotte che, come è scritto tante volte nei testi, sarebbe passato dalla classe operaia al resto della società . Dalla fabbrica alla società non passava soltanto il capitale, passavano anche le lotte. Le lotte operaie diventavano lotte sociali, poi, riprodotte in forma allargata, ridiventando lotte operaie in modo più alto nell’autunno operaio. Ma l’esperienza di quel primo operaismo, che possiamo chiamare classico, era già conclusa nel 1966. Nell’ultimo editoriale di Classe operaia si legge che i gruppi avevano dato tutto ciò che potevano dare, e che si trattava di tornare alla politica in grande, che per noi era e rimane oggi la politica del partito politico. Perciò quando si ripresentano le attività di gruppo – Potere operaio, Lotta continua, e altri gruppi di allora – sono cose cui quel primo operaismo non partecipa. Nessuno di noi partecipò a “Potop” o a “Elleci”. Coniugandosi con il ’68 tutti questi gruppi ebbero più rilievo, più visibilità . Infatti tutti sanno cos’è Lotta continua e Potere operaio, molti di quei leader sono ancora in circolazione. Ma sono storie diverse dalla nostra. Come completamente diversa è la storia dell’Autonomia. Nessuno sa che nacque, comprese le teorie di Toni Negri, in polemica con l’operaismo, teorizzando l’operaio sociale, che era un’altra cosa dall’operaio di fabbrica. E andando a cercare aggregazione tra i disoccupati, nel disagio sociale diffuso. Tutt’altra cosa dall’operaismo, che era una grande idea, mai subalterna, dei ceti sociali; che pensava alla classe operaia come classe egemone; che partiva dai punti alti dello sviluppo. L’Autonomia non ha proprio nulla a che vedere con l’operaismo. Per questo bisognerebbe fare chiarezza. Quando gli altri facevano Potere operaio o Lotta continua noi facevamo Contropiano. Avevamo archiviato l’idea dei gruppi di intervento, che deve essere un’attività provvisoria, di crescita individuale, poi deve finire lì, non ha nessun destino politico.
Dunque tu vedi una cesura, una discontinuità tra l’operaismo e l’esperienza dei “gruppi”? Ritieni che i “gruppi” siano stati impropriamente “operaisti”?
I gruppi sono un’altra cosa rispetto all’operaismo. Per esser precisi: con la fine di Classe operaia finisce un’esperienza pratico teorica: quella della coincidenza di prassi e teoria, pensiero ed esperienza. Con Classe operaia si chiude una stagione che costruisce una prospettiva teorica di lungo periodo. Non è un caso che i personaggi che vengono usualmente ricondotti all’operaismo – io stesso, Asor Rosa, Cacciari – non abbiamo fatto parte dei gruppi che si sono chiamati operaisti. E non deve ingannare, nella nostra esperienza, la presenza di figure che poi hanno scelto la strada dei gruppi. Per farti un esempio: con Contropiano s’era spezzato il nesso tra intervento e ricerca teorica. Non c’era la volontà di far coincidere pensiero ed esperienza, Contropiano era solo una rivista culturale. Dire che l’operaismo chiude il suo ciclo nel 1966 significa dire che finisce questa coincidenza.
Nelle esperienze degli anni seguenti, che continuavano a dirsi contigue con l’operaismo, c’è stata e c’è un’aspra critica e una presa di distanza rispetto all'”autonomia del politico”, prova della loro distanza dall’operaismo
Hai ragione. Non è nemmeno il caso di aprire una polemica, ma anche quella storia andrà ricostruita con il tempo, non c’è urgenza. Perché la fase dell’autonomia del politico, che poi è molto precoce, è una diretta conseguenza dell’esperienza operaista, nasce su quel tronco.
In fondo le critiche rivolte negli anni ’70 all’autonomia del politico somigliano a quelle di Bobbio nella riunione einaudiana, sempre identiche
Sì, quella fu una fase poco compresa anche da molti che avevano fatto l’esperienza operaista, che la considerarono una specie di tradimento. Invece era uno sviluppo del discorso. Oggi siamo in grado di riabbracciare un po’ tutto il percorso, che è uno dei “luoghi” attraverso cui possiamo capire molto di quel che è accaduto nel ‘900 nei sistemi politici, nei sistemi sociali. E’ un’arma di comprensione che non è stata ancora tutta utilizzata. E’ un lavoro che bisognerà fare nei prossimi anni: credo valga la pena di farlo. Anche perché mi sembra che il “fare” venga sempre più limitato ad altre dimensioni.
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