Rudolf Hilferding è noto per il classico “Il capitale finanziario” (1910) che fu un riferimento fondamentale per tutti i marxisti dell’epoca da Kautsky a Rosa Luxemburg, Trotsky, Bucharin e Lenin. Un libro fondamentale – allora acclamato come “il quarto libro del Capitale” – riedito fortunatamente in Italia nel 2011 da Mimesis Edizioni. Sono meno note le polemiche successive con la Terza Internazionale e il socialismo in URSS (segnalo articolo su Jacobin). Vi propongo questo articolo del 1940. Morì nel 1941 prigioniero della Gestapo.
Il concetto di “capitalismo di stato” difficilmente può superare il test di una seria analisi economica. Una volta che lo stato diventa il proprietario esclusivo di tutti i mezzi di produzione, il funzionamento di un’economia capitalista è reso impossibile dalla distruzione del meccanismo che fa circolare la linfa vitale di un tale sistema. Un’economia capitalista è un’economia di mercato. I prezzi, che risultano dalla concorrenza tra proprietari capitalisti (è questa concorrenza che “in ultima istanza” dà origine alla legge del valore), determinano cosa e quanto viene prodotto, quale frazione del profitto viene accumulata, e in quale particolare rami di produzione si verifica questo accumulo. Determinano anche come in un’economia, che deve continuamente superare le crisi, si ristabiliscano rapporti proporzionati tra i vari rami della produzione, sia nel caso della riproduzione semplice che di quella allargata.
Un’economia capitalistica è governata dalle leggi del mercato (analizzato da Marx) e l’autonomia di queste leggi costituisce il sintomo decisivo del sistema di produzione capitalistico. Un’economia statale, invece, elimina proprio l’autonomia delle leggi economiche. Non rappresenta un mercato ma un’economia di consumatori. Non è più il prezzo, ma piuttosto una commissione statale per la pianificazione che ora determina cosa viene prodotto e come. Formalmente prezzi e salari esistono ancora, ma la loro funzione non è più la stessa; non determinano più il processo di produzione che è ora controllato da un potere centrale che fissa prezzi e salari. Prezzi e salari diventano mezzi di distribuzione che determinano la quota che l’individuo riceve sulla somma totale dei prodotti che il potere centrale mette a disposizione della società. Costituiscono ormai una forma tecnica di distribuzione più semplice dell’assegnazione individuale diretta di prodotti non più classificabili come merci. I prezzi sono diventati simboli di distribuzione e non costituiscono più un fattore regolatore dell’economia. Pur mantenendo la forma, è avvenuta una completa trasformazione della funzione.
Sia il “fuoco stimolante della concorrenza” che l’appassionata ricerca del profitto, che forniscono l’incentivo fondamentale della produzione capitalistica, si estinguono. Profitto significa appropriazione individuale di eccedenze di prodotto ed è quindi possibile solo sulla base della proprietà privata. Ma, obietta il signor Worrall, Marx non considerava l’accumulazione come una caratteristica essenziale del capitalismo e l’accumulazione non gioca un ruolo decisivo nell’economia russa? Non è capitalismo di stato?
Il signor Worrall ha trascurato un piccolo dettaglio; vale a dire che Marx si riferisce all’accumulazione di capitale, di una quantità sempre crescente di mezzi di produzione che producono profitto e la cui appropriazione fornisce la forza motrice alla produzione capitalistica. In altre parole, si riferisce all’accumulazione di valore che crea plusvalore; vale a dire, un processo specificamente capitalista di espansione dell’attività economica.
D’altra parte, l’accumulazione dei mezzi di produzione e dei prodotti è così lungi dall’essere una caratteristica specifica del capitalismo da giocare un ruolo decisivo in tutti i sistemi economici, tranne forse nella più primitiva raccolta di cibo. In un’economia di consumo, in un’economia organizzata dallo stato, non c’è accumulazione di valori ma di beni-prodotti di consumo che il potere centrale vuole per soddisfare i bisogni dei consumatori. Il semplice fatto che l’economia statale russa accumuli non la rende un’economia capitalista, perché non è capitale che viene accumulato. L’argomentazione del signor Worrall si basa su una grossolana confusione tra valore e valore d’uso. E crede davvero che un’economia socialista possa fare a meno dell’accumulazione!
Ma cos’è allora (e qui veniamo alla domanda di fondo) quel potere centrale che governa l’economia russa? Trotsky e Worrall rispondono: “Burocrazia”. Ma mentre Trotsky si rifiuta di considerare la burocrazia come una classe (secondo Marx una classe si caratterizza per il posto che occupa nel processo di produzione), Worrall fa una scoperta stupefacente. La burocrazia sovietica nella sua struttura (che purtroppo non analizza) differisce “fondamentalmente” da qualsiasi altra borghesia, ma la sua funzione rimane la stessa: l’accumulazione del capitale. Il fatto che, nonostante le grandi differenze strutturali, la funzione possa rimanere invariata è, ovviamente, un miracolo che non può avvenire in natura ma sembra (secondo Worrall) possibile nella società umana.
In ogni caso, Worrall accetta questo come prova che la Russia è dominata da una classe borghese e quindi dal capitalismo di stato. Si aggrappa ostinatamente alla sua confusione tra capitale e mezzi di produzione e sembra incapace di concepire alcuna forma di accumulazione diversa dall’accumulazione capitalistica. Non riesce a capire che l’accumulazione (cioè l’espansione della produzione) in qualsiasi sistema economico è compito dei gestori della produzione; che anche in un sistema socialista ideale questa accumulazione può derivare solo dal plusprodotto (che solo sotto il capitalismo assume la forma di plusvalore), e che il fatto dell’accumulazione in sé non prova la natura capitalistica di un’economia.
Ma davvero la “burocrazia” “governa” l’economia e di conseguenza le persone? La burocrazia ovunque, e in particolare nell’Unione Sovietica, è composta da un agglomerato degli elementi più vari. Ad esso appartengono non solo i funzionari governativi nel senso stretto del termine (vale a dire dagli impiegati minori fino ai generali e persino allo stesso Stalin) ma anche i direttori di tutti i rami dell’industria e funzionari come, ad esempio, gli impiegati delle poste e delle ferrovie. Come potrebbe questo settore variegato raggiungere una regola unificata? Chi sono i suoi rappresentanti? Come adotta le decisioni? Quali organi ha a sua disposizione?
In realtà, la “burocrazia” non è un ascoltatore indipendente del potere. Secondo la sua struttura e funzione, è solo uno strumento nelle mani dei veri governanti. E’ organizzato come una gerarchia e subordinato al potere dominante. Riceve ma non dà ordini. Qualsiasi funzionario, come dice giustamente Trotsky, “può essere sacrificato dal suo superiore nel sistema gerarchico per diminuire qualsiasi tipo di insoddisfazione”. E questi sono i nuovi padroni della produzione, i sostituti dei capitalisti? Stalin fece esplodere completamente questo mito quando, durante le ultime purghe, ordinò di fucilare, tra gli altri, migliaia di dirigenti industriali.
Non è la burocrazia che comanda, ma colui che dà ordini alla burocrazia, ed è Stalin che dà ordini alla burocrazia russa.
Lenin e Trotsky con un ristretto gruppo di seguaci che non riuscirono mai a prendere decisioni autonome come partito ma rimasero sempre uno strumento nelle mani dei dirigenti (lo stesso accadde più tardi con i partiti fascisti e nazionalsocialisti) presero il potere a un tempo in cui il vecchio apparato statale stava crollando. Hanno modificato l’apparato statale per adattarlo alle loro esigenze di governanti, eliminando la democrazia e instaurando la propria dittatura che nella loro ideologia, ma non in pratica, si identificava con la “dittatura del proletariato”. Così hanno creato il primo stato totalitario, anche prima che il nome fosse inventato. Stalin continuò l’opera, eliminando i suoi rivali attraverso lo strumento dell’apparato statale e instaurando una dittatura personale illimitata.
Questa è la realtà che non dovrebbe essere oscurata interpretando il presunto dominio di una “burocrazia” che di fatto è subordinata al governo nella stessa misura del resto del popolo. Questo è vero anche se alcune modeste briciole della mensa del padrone possono essere distribuite ad essa – senza, ovviamente, una garanzia che altre briciole seguano e al prezzo di un costante pericolo per le loro stesse vite. La loro parte materiale non costituisce una parte importante del prodotto sociale. Tuttavia, l’effetto psicologico di una tale differenziazione può essere piuttosto considerevole.
Da questo fatto derivano importanti conseguenze economiche. E’ l’essenza di uno stato totalitario che assoggetta l’economia ai suoi obiettivi. L’economia è privata delle proprie leggi, diventa un’economia controllata. Una volta effettuato questo controllo, esso trasforma l’economia di mercato in un’economia di consumo. Il carattere e l’entità dei bisogni sono quindi determinati dallo stato. Le economie tedesca e italiana danno prova del fatto che tale controllo, una volta avviato in uno stato totalitario, si diffonde rapidamente e tende a diventare onnicomprensivo come è avvenuto fin dall’inizio in Russia. Nonostante le grandi differenze nei loro punti di partenza, i sistemi economici degli stati totalitari si stanno avvicinando gli uni agli altri. Anche in Germania lo Stato, sforzandosi di mantenere e rafforzare il proprio potere, determina il carattere della produzione e dell’accumulazione. I prezzi perdono la loro funzione regolatrice e diventano meri mezzi di distribuzione. L’economia, e con essa gli esponenti dell’attività economica, sono più o meno sottomessi allo Stato, diventandone subordinati. L’economia perde il primato che aveva sotto la società borghese. Ciò non significa, tuttavia, che gli ambienti economici non abbiano una grande influenza sul potere dominante in Germania così come in Russia. Ma la loro influenza è condizionata, ha dei limiti e non è decisiva rispetto all’essenza della politica. La politica è in realtà determinata da una ristretta cerchia di coloro che sono al potere. Sono i loro interessi, le loro idee su ciò che è necessario per mantenere, sfruttare e rafforzare il proprio potere che determinano la politica che impongono come legge all’economia subordinata. Ecco perché il fattore soggettivo, il carattere “imprevedibile”, “irrazionale” dello sviluppo politico ha acquisito tanta importanza in politica.
I fedeli credono solo nel paradiso e nell’inferno come forze determinanti; il settario marxista solo nel capitalismo e nel socialismo, nelle classi – borghesia e proletariato. Il settario marxista non può afferrare l’idea che l’attuale potere statale, raggiunta l’indipendenza, dispieghi la sua enorme forza secondo le proprie leggi, assoggettando le forze sociali e costringendole a servire i suoi fini per un breve o lungo periodo di tempo.
Pertanto né il sistema russo né quello totalitario in generale sono determinati dal carattere dell’economia.
Al contrario, è l’economia che è determinata dalla politica del potere dominante e soggetta agli scopi e alle finalità di questo potere. Il potere totalitario vive dell’economia, ma non per l’economia e nemmeno per la classe dirigente dell’economia – come è il caso dello Stato borghese, sebbene quest’ultimo (come può dimostrare qualsiasi studioso di politica estera) possa occasionalmente perseguire scopi suoi propri. Un’analogia con lo stato totalitario può essere trovata nell’era del tardo impero romano, nel regime dei pretoriani e dei loro imperatori.
Certo, da un punto di vista socialdemocratico l’economia bolscevica difficilmente può essere chiamata “socialista”, perchè per noi il socialismo è indissolubilmente legato alla democrazia. Secondo la nostra concezione, la socializzazione dei mezzi di produzione implica la liberazione dell’economia dal dominio di una classe e il suo conferimento alla società nel suo insieme, una società democraticamente autogovernata. Non avremmo mai immaginato che la forma politica di quella “economia gestita” che doveva sostituire la produzione capitalistica di libero mercato potesse essere un assolutismo illimitato. La correlazione tra la base economica e la struttura politica ci sembrava molto precisa: cioè che la società socialista avrebbe inaugurato la più alta realizzazione della democrazia. Anche chi tra noi riteneva necessaria o inevitabile per il periodo di transizione l’applicazione più rigorosa del potere centralizzato, considerava questo periodo solo temporaneo e destinato a terminare dopo la soppressione delle classi possidenti. Insieme alla scomparsa delle classi, doveva scomparire anche il dominio di classe, quel dominio di classe che noi consideravamo l’unica forma possibile di dominio politico in generale. “Lo stato sta svanendo …”
Ma la storia, il “migliore di tutti i marxisti”, ci ha insegnato diversamente. Ci ha insegnato che “l’amministrazione delle cose”, nonostante le attese di Engels, può trasformarsi in un’illimitata “amministrazione delle persone”, e quindi portare non solo all’emancipazione dello Stato dall’economia, ma anche alla soggezione dell’economia allo stato.
Una volta assoggettata allo stato, l’economia assicura la continua esistenza di questa forma di governo. Il fatto che un tale risultato scaturisca da una situazione unica determinata principalmente dalla guerra non esclude un’analisi marxista, ma altera in qualche modo la nostra concezione piuttosto semplificata e schematica della correlazione tra economia e Stato e tra economia e politica che si sviluppò in un periodo del tutto diverso. L’emergere dello stato come potere indipendente complica enormemente la caratterizzazione economica di una società in cui la politica (cioè lo stato) gioca un ruolo determinante e decisivo.
Per questo la controversia se il sistema economico dell’Unione Sovietica sia “capitalista” o “socialista” mi sembra piuttosto inutile. Non è né l’uno né l’altro. Rappresenta un’economia statale totalitaria, cioè un sistema al quale le economie di Germania e Italia si stanno avvicinando sempre di più.
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