Nell’ultimo periodo della sua vita la scrittrice Natalia Ginzburg, morta il 7 ottobre 1991, si schierò con il “fronte del no” al cambio di nome del PCI proposto da Occhetto con la svolta della Bolognina. Vi ripropongo un articolo molto bello pubblicato su L’Unità del 1991.
Così Natalia Ginzburg, indipendente di sinistra, difendeva quella che Ingrao definiva la “tradizione” dei comunisti italiani.
Il nome
il Pci, che in vita sua non si è mai macchiato di nessuna colpa, dovrebbe ribadire in questo momento la fedeltà al suo simbolo
NATALIA GINZBURG
Amici del fronte del si, io sono del fronte del no, lo sono stata fin dal primo momento e non credo di poter cambiare idea. Non sono iscritta al partito comunista e il mio no é dunque semplicemente il no di un compagno di strada.
Mi spaventa l’idea che il partito comunista possa essere rifondato, cioè, se capisco bene dissolto e liquefatto nella sua essenza. Questo mi spaventa perché potrebbe così assumere una fisionomia completamente diversa, perdere magari il peggio ma anche il meglio che aveva, mescolarsi con forze politiche per molti di noi inaccettabili, rinunciare alla propria identità e vestirne un’altra nella quale molti di noi non si riconoscerebbero affatto. E infine mi addolora e mi ferisce l’idea che voglia prendere un altro nome. Per quanto mi riguarda, dentro di me continuerò a chiamarlo partito comunista, e a vederlo indissolubilmente legato al vecchio simbolo della falce e del martello. Dicono che il nome non è importante. A me invece sembra importantissimo.
Sono affezionata a questo nome, al significato, al suono che ha preso per me nel corso degli anni. Mi dicono che a questo nome attribuisco tanta importanza perché sono vecchia, sentimentale, emotiva, conservatrice, e incapace di festeggiare le novità. Dicono che quelli che, come me, manifestano un simile attaccamento a un nome, a un simbolo, è come rimanessero abbracciati stretti a un vecchio fantoccetto di pezza, cullato nell’infanzia. Può darsi. Però i rapporti che uno ha con una parola, con un nome, o infine con un partito, sono sempre molto particolari, nati chissà quando e chissà dove, e non si dovrebbero deprezzare, né giudicare in maniera beffarda o riduttiva. Una persona non è forse libera di essere fedele a una parola, a un nome, a un partito, nel modo che vuole? Non é forse questa una delle prime libertà che è necessario rispettare e difendere, senza stabilire in partenza che è il segno d’un vizio vecchio, puerile, malaticcio, cattivo? Per me, il partito comunista è il partito di Gramsci, di Togliatti, di Terracini e di Berlinguer. Porta impresse queste immagini nelle sue sillabe. Sono immagini che ho molto amato, nel corso della mia vita, in maniera e in misura diversa ma tutte le ho molto amate, e non riesco a pensare la parola «comunismo» distaccata da loro. Né certo riesco ad associarla ad altre immagini diverse e odiose. Dicono che non bisogna rattrappirsi nel passato e che bisogna voltargli le spalle e dirigersi verso il nuovo. II mondo è cambiato, dicono. Se fossero vivi oggi, Berlinguer e Terracini, sarebbero d’accordo cosi. Direbbero anche loro che il partito comunista oggi deve essere rifondato. Mescolarsi e unirsi a schieramenti nuovi. Prendere una fisionomia totalmente nuova. Ma sono discorsi inutili perché con i «se» non si fa la storia. E il fatto che il mondo sia cambiato, non mi sembra possa alterare in nulla né le voci di ieri, né il nostro modo di tornare a loro nella memoria. Mi sembra che nell’andare verso il nuovo sia necessario portarsi dietro, del passato, quanto aveva di meglio, custodirlo e salvarlo dalla rovina. L’attenzione a salvarlo dalla dimenticanza, dalle false interpretazioni e dalla rovina, dovrebbe essere altrettanto forte quanto il desiderio di procedere avanti. Gli uomini sono fatti, come è noto, di idee vecchie e di idee nuove, le idee nuove nascono adagio, maturano adagio, nutrendosi di memorie e bevendo vita dai vecchi tronchi. Le idee nuove nascono felicemente quando non gettano via nulla se non delle scorie, quando non dispregiano e amano i vecchi tronchi. A me sembra molto triste che nel momento in cui da ogni parte si dice e si scrive e si grida che il comunismo è fallito, che non esiste più e nel momento in cui da ogni parte, del comunismo si celebrano le esequie e si suonano campane a morto, in un simile momento il partito comunista italiano dichiari il suo proposito di rifondarsi e di cambiare simbolo e nome. II partito comunista italiano, che in vita sua non si è mai macchiato di nessuna colpa, che ha avuto nelle sue file alcune fra le persone migliori che ci sono state in Italia, dovrebbe secondo me più che mai, in questo momento, ribadire la propria fedeltà al proprio simbolo e al proprio nome. Io non sono iscritta al partito comunista, e tuttavia quando leggo o sento dire «comunismo addio», provo un senso di dolore, di lacerazione e di offesa, e ogni volta vorrei dire che quello che è morto, quello a cui viene detto addio, non era il vero comunismo ma era una pianta mostruosa, una proliferazione mostruosa, che non aveva e non ha mai avuto, con il vero comunismo, assolutamente nulla da fare. Non mi è mai successo di associare il vero comunismo né alle carceri di Stalin né agli studenti morti in Cina, né a Ceaucescu, né a Pol Pot. Non mi è mai successo di associarlo né ai campi di concentramento in Russia, né ai carri armati in Ungheria. Penso che alla gente del nostro secolo è toccata questa disgrazia, di vedere come nascevano da un’idea sana e pura delle proliferazioni mostruose. Il vero comunismo, nella sua idea originaria, sana e pura non è mai stato al potere, e resta dunque una configurazione astratta. Ma è impossibile che non esista il modo di renderla reale. E’ impossibile che non possa esistere il vero comunismo, non violento, non repressivo, non sanguinario e non totalitario, come era nell’anima di Gramsci, o di Berlinguer. Impossibile. Il vero comunismo è un partito nato per difendere i diritti di chi sta peggio. Perciò se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Qualcuno mi ha fatto osservare che ci sono altri partiti che vogliono la stessa cosa. Si però a me sembra ed è sembrato sempre che il comunismo in Italia lo volesse con una forza più seria più appassionata degli altri. O che almeno ci fosse sempre, nelle sue file, qualcuno che si muovesse in questa direzione senza una sola ombra di cinismo e senza altri obiettivi di nessuna specie. Anni fa sullo scenario della nostra esistenza, è comparso Gorbaciov. Nessuno se l’aspettava. Nessuno s’aspettava che potesse succedere qualcosa di nuovo in uno scenario cosi pietrificato e cosi tetro, dove non si parlava che di guerre stellari e bombe atomiche. Gorbaciov è comparso dal cuore di una delle Grandi Potenze, da luoghi dove uno mai pensava che potesse alzarsi nulla di nuovo. Egli ha spalancato delle porte che sembravano per sempre chiuse. Ha spazzato via le molte proliferazioni mostruose che riempivano il mondo, le parole «pace» e «disarmo» sono finalmente scese dai cieli vuoti delle astrazioni. E il comunismo, nelle sue mani, ha mostrato di poter diventare diverso. Il vero comunismo, nella propria idea originaria, pura e sana, è apparso come un’impresa quanto mai ardua, ma che tuttavia doveva essere possibile portare avanti. II potere, nella persona di Gorbaciov, ha perduto i consueti connotati orrendi e ha preso delle fattezze limpide e umane. Debole o forte che sia, vittorioso o perdente, Gorbaciov ha trasformato gli aspetti del mondo. Ha restituito al mondo un’idea del futuro, da lungo tempo perduta. Ma il comunismo là si chiama ancora cosi che io sappia. E noi ci chiamavamo comunisti quando c’era Stalin o Breznev e dovremmo smettere di chiamarci comunisti oggi che c’è Gorbaciov? Qualcuno me ne potrebbe spiegare il perché per favore?
l’Unità Sabato 3 febbraio 1990
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