In memoria di un gigante dimenticato .
Nel 40° anniversario della morte di Umberto Terracini, lo scorso 6 dicembre, non vi sono state celebrazioni ufficiali, neanche un comunicato di qualche alta carica dello stato. Una delle figure più importanti della storia italiana del Novecento, una padre della Repubblica è stato ricordato solo da #RaiStoria che ha riproposto questa intervista di Emanuele Rocco:
Fu tra i fondatori con Gramsci dell’Ordine Nuovo e poi del PCdI, uno dei padri fondatori della #Repubblica e della Costituzione che reca la sua firma.
La sua biografia è quella di un rivoluzionario di professione – così si autodefinì per il titolo di un’intervista del 1976 sulla sua vita realizzata in collaborazione con il suo vecchio compagno Alfonso Leonetti.
Così scrisse al direttore della rivista:
«In quanto al titolo da lei propostomi [che era Ricordi e riflessioni di un dirigente comunista] le confesserò che non mi entusiasma e d’altra parte potrebbe dar luogo a qualche contestazione. E ciò sia per quanto si riferisce al dirigente, come per quanto si riferisce al comunista. Vi sono infatti dei comunisti militanti che non mi riconoscono più questo titolo, come sono poi moltissimi i quali non mi hanno mai rilasciato né mi rilasceranno mai il diploma di dirigente. E se dicessimo Ricordi e riflessioni di un rivoluzionario professionale? Questa è la formula introdotta nel vocabolario socialista a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre e fatta propria anche dai Comunisti Italiani nell’epoca più fulgente della loro lunga storia».
Vorrei ricordare che il futuro presidente dell’Assemblea Costituente che approvò l’articolo 11 del ripudio della guerra entrò nel movimento socialista proprio attraverso l’impegno contro la guerra. Era entrato nella federazione giovanile del partito socialista nel 1911 a 16 anni partecipando alle manifestazioni contro la guerra di Libia. Nel 1914 viene eletto segretario dell’organizzazione giovanile socialista dopo aver presentato ordini del giorno contro la guerra. Nel 1916 fu arrestato e finì in galera per la prima volta per un comizio pacifista nel settembre 1916.
Poi fu spedito al fronte.
Dopo la guerra fu tra i fondatori con Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Camilla Ravera, Angelo Tasca a Torino della rivista L’Ordine Nuovo e uno degli animatori del movimento dei consigli che culminò nell’occupazione delle fabbriche.
Nel 1921 è tra i fondatori a Livorno del Partito Comunista d’Italia sezione dell’Internazionale comunista, eletto nel comitato centrale e unico ordinovista.
Nel maggio del 1921 si reca per la prima volta nella Repubblica dei soviet per partecipare al III Congresso dell’Internazionale Comunista dove finirà per prendersi una lezione di critica dell’estremismo malattia infantile del comunismo da Lenin in persona e poi da Trotzky. I giovani dirigenti del PCd’I erano contrari alla nuova linea del “fronte unico” proposta dai bolscevichi, ma nel clima allora distante da quello staliniano il dissenso non ostacolò la sua nomina nell’esecutivo e nel 1922 nel presidium dell’Internazionale.
Nelle sue testimonianze Terracini ricostruirà gli incontri avuti con i capi bolscevichi. Nel 1967 nel numero speciale di Rinascita dedicato al cinquantenario della Rivoluzione d’Ottobre ricorderà quelli che venivano chiamati la piatorka, “i cinque” dell’Internazionale, che aveva conosciuto: Lenin, Trotzky, Zinoviev, Radek, Bukarin, nell’articolo intitolato Così li ho conosciuti rendendo omaggio alle vittime di Stalin:
“Che oggi, a cinquant’anni di distanza, di quattro i nomi si siano come dissolti nel nulla (…) ciò non può evidentemente dire che essi non siano esistiti, che non vissero, che non agirono, che non lottarono, che non riempirono di sé quel tempo della nostra vita di rivoluzionari, concorrendo a foggiarla così come essa fu allora e come è ancora oggi: senza tentennamenti in quanto ai principi, ma sempre volta alla ricerca e alla scelta – che è il compito più arduo – circa le vie e i mezzi della loro attuazione. (…) La piatorka: una luce senza eclissi, più alta che mai nel cielo tempestoso dell’umana storia progressiva. E quattro meteore spente”. L’articolo era illustrato da un autografo di Karl Radek del 1921 “Quando verrà l’Ottobre italiano?” che ben fotografava le speranze che animarono quel tempo e un suo ritratto che Bukarin aveva disegnato durante una riunione dell’Esecutivo dell’Internazionale.
Terracini – allora «intransigente rivoluzionario» – raccontò di aver criticato Zinoviev per l’essersi circondato nell’Internazionale di un’equipè di provenienza non strettamente bolscevica (tra loro c’era Victor Serge). Il compagno di Lenin gli rispose sarcastico: “eccovi ora al rifiuto di ogni collaborazione individuale con quanti non giurino sugli statuti dell’Internazionale! Ma certo: nel mio apparato di lavoro ho con me degli anarchici e persino dei socialrivoluzionari e dei menscevichi, tutti ‘ ex ‘, naturalmente; e me ne rallegro, e ve li conserverò. Non soltanto perché mi sono utili, ma perché dal loro lavoro, che in definitiva dirigo io e condiziono io, essi sono portati a confrontare idee e concezioni, modi e sistemi di pensiero, e, alla fine, si riconoscono in noi. Ma credete davvero che una rivoluzione vittoriosa non abbia altro strumento da adoperare, sempre e ancora, che la ghigliottina a vapore? Le teste, compagno Terracini, possono anche essere tagliate; ma bisogna cercare anzitutto di mutarle e rieducarle. E se ci si riesce, è tanto di guadagnato per la rivoluzione”.
Terracini rimase sulle posizioni schematiche e settarie bordighiane che espresse anche nell’articolo con cui commentò la marcia su Roma e la nascita del governo Mussolini sul giornale del Comintern «Correspondance Internationale» minimizzando l’accaduto: «Si tratta di una crisi ministeriale un po’ movimentata. Nessun’altra definizione convien meglio agli avvenimenti che si sono svolti in Italia dal 27 ottobre al 1° novembre. Colpo di Stato? Rivoluzione? Noi respingiamo l’uso di tali termini per quelle circostanze. Possano i proletari italiani capire finalmente che le classi conservatrici, che si son servite del terrore bianco, e lo Stato democratico, che si pone al loro servizio, sono alla stessa stregua i loro mortali nemici».
Trotskij, in un saggio fondamentale che ormai esiliato scrisse negli anni ’30 contro la tesi staliniana del socialfascismo, ricordava che all’inizio degli anni ’20, agli occhi di quasi tutti i comunisti italiani con cui aveva parlato, il fascismo appariva semplicemente come un’altra forma di “reazione capitalistica”, non peggiore e non diversa per natura da altre che si erano manifestate periodicamente a partire dall’ultima parte dell’Ottocento. “I tratti particolari del fascismo determinati dalla mobilitazione della piccola borghesia contro il proletariato”, scriveva Trotsky, “il Partito Comunista Italiano non li discerneva. Secondo informazioni di compagni italiani, eccettuato Gramsci, il Partito Comunista non ammetteva neppure la possibilità della presa del potere da parte dei fascisti”. (” E ora?”, in Trotzkij, Scritti 1929-1936, Mondadori pag.380).
Dal minuto 44.22 la sua testimonianza
In una lettera a un compagno del 1924 Gramsci – più vicino alla posizione dell’Internazionale Comunista per il “fronte unico” – scriveva che “Umberto credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amedeo…”.
Terracini si schiera comunque con Gramsci, dopo gli anni del settarismo, nella svolta che porta alle tesi del congresso di Lione: “All’esame delle situazioni dei movimenti di massa si ricorre quindi solo per il controllo della linea dedotta in base a preoccupazioni formalistiche e settarie: viene perciò sempre a mancare, nella determinazione della politica del partito, l’elemento particolare; la unità e completezza di visione che è propria del nostro metodo di indagine politica (dialettica) è spezzata; l’attività del partito e le sue parole d’ordine perdono efficacia e valore rimanendo attività e parole di semplice propaganda. E’ inevitabile, come conseguenza di queste posizioni, la passività politica del partito. (…) La lotta ideologica contro l’estremismo di sinistra deve essere condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone di influenza. L’estremismo di sinistra fu la ideologia ufficiale del partito italiano nel primo periodo della sua esistenza. Esso è sostenuto da compagni che furono tra i fondatori del partito e dettero un grandissimo contributo alla sua costruzione dopo Livorno. Vi sono quindi motivi per spiegare come questa concezione sia stata a lungo radicata nella maggioranza dei compagni anche senza che fosse da essi valutata criticamente in modo completo, ma piuttosto come conseguenza di uno stato d’animo diffuso. (…) Non bisogna credere che il partito possa dirigere la classe operaia per una imposizione autoritaria esterna; questo non è vero né per il periodo che precede né per il periodo che segue la conquista del potere. (…) Solo come conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che esse lo riconoscano come il “loro” partito (conquista della maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni ‘patriottismo’ di partito. (…) Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta è la parte “positiva” della tattica del fronte unico ed è in Italia, nelle circostanze attuali, compito fondamentale del partito. I comunisti devono considerare la unità della classe lavoratrice come un risultato concreto, reale, da ottenere, per impedire al capitalismo l’attuazione del suo piano di disgregare in modo permanente il proletariato e di rendere impossibile ogni lotta rivoluzionaria. Essi devono saper lavorare in tutti i modi per raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell’unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione.”
Terracini viene arrestato nel 1926, processato dal Tribunale Speciale, insieme ad Antonio Gramsci e altre/i compagne/i del gruppo dirigente comunista, condannato a 22 anni e 9 mesi di carcere, verrà liberato dai partigiani nel ’43 e entra nella Resistenza.
Così lo ricordava lo storico del PCI Paolo Spriano:
“Fu lui, nel “processone” del 1928, a ergersi da imputato ad accusatore, dinanzi al Tribunale Speciale, ad usare tutto il sarcasmo rivoluzionario di cui era capace contro un regime tirannico trionfante che pure mostrava di avere paura di quella piccola “falange d’acciaio” di comunisti fuorilegge e perseguitati. Anche per questo Umberto Terracini ebbe la condanna più dura, a ventidue anni, due più di Gramsci, di Scoccimarro e di Roveda.” (articolo completo)
CON GRAMSCI CONTRO LA SVOLTA SETTARIA DEL COMINTERN
Terracini, come Gramsci, entrò in conflitto col partito durante la prigionia per le sue posizioni di critica della “svolta” settaria che corrispose alla tesi staliniana del “socialfascismo” e del cosiddetto “terzo periodo“. Quello che era stato il giovane estremista che aveva contrapposto alla linea di Lenin del fronte unico quella della lotta “classe contro classe” era diventato di fatto, insieme a Gramsci, un antesignano della linea dei fronti popolari antifascisti.
La “svolta” interrompe il percorso avviato al congresso di Lione. Così la riassunse nella sua autobiografia Alfonso Leonetti, uno dei «tre» espulsi dal partito (gli altri due erano Tresso e Ravazzoli):
La prospettiva di uno sbocco rivoluzionario delle lotte della classe operaia europea, in particolare quella tedesca e italiana, era tutt’altro che imminente; eppure l’Internazionale, ormai saldamente nelle mani di Stalin, la rilanciò nel suo VI congresso tenutosi a Mosca tra il luglio e il settembre del 1928. Aveva così inizio una brusca virata a sinistra che finirà per investire, uno dopo l’altro, tutti i partiti comunisti, anche quelli, come l’italiano, che all’inizio erano riluttanti nell’accettarla, per non dire contrari. (…) di lì a qualche mese, il VI congresso dell’Internazionale si chiudeva sancendo definitivamente la prospettiva di uno sbocco rivoluzionario a tempi brevi. Non solo, ma di fronte
alla crisi economica che nell’estate del 1929, partendo dalla grande recessione americana, si era estesa a tutti i paesi capitalisti d’Europa, la «svolta» a sinistra si rafforzò ulteriormente e la direzione dell’Internazionale, al X Plenum (3-19 luglio 1929) stabilì, anzi decretò che il capitalismo era entrato in una fase mortale; che quella che si stava vivendo era l’«ultima crisi» (così confondendo crisi generale e crisi congiunturale); che le «masse si stavano radicalizzando» e che perciò si era di fronte a un «nuovo slancio rivoluzionario»; e che in tutti i paesi l’alternativa non era ormai che questa: «dittatura borghese o dittatura proletaria»: e tutto ciò non sul piano storico, ma nell’immediato. In conseguenza di tali analisi e prospettive — per le quali appunto si sarebbe dovuto aprire un periodo contrassegnato da
‘violente tensioni e che avrebbe portato «inevitabilmente a una nuova fase di guerra tra gli stati imperialisti, di guerre contro l’Unione Sovietica, di guerre nazionali di liberazione contro l’imperialismo, di interventi dell’imperialismo, di lotte di classe gigantesche» — e anche in conseguenza dell’altra tesi del Comintern per la quale la socialdemocrazia sarebbe divenuta «la dirigente ideologica e politica della prossima guerra», si faceva obbligo ai partiti comunisti di accentuare tutte le proprie caratteristiche rivoluzionarie e, in particolare, di intensificare la lotta contro la socialdemocrazia, l’alleata del fascismo e quindi il nemico principale (alla conferenza di Basilea avevamo invece precisato che la rivoluzione proletaria è sì una lotta contro il fascismo ed il capitalismo, e che è anzi una lotta «per strappare le masse ai partiti piccolo-borghesi e controrivoluzionari»; ma che questa verità doveva essere completata nel senso che «un partito comunista non conquisterà il potere se non avrà conquistato gli alleati della classe operaia»).
La pratica e la teoria sancite al X Plenum del Comintern portano il nome di «socialfascismo» e tale dottrina venne eretta a strategia ufficiale dell’Internazionale e, di conseguenza, di tutti i partiti comunisti (…). E anche tutta questa catena di fatti e di errori ha ricevuto un nome; sono i fatti e gli errori del cosiddetto «terzo periodo», così chiamato per distinguerlo dal «primo», in cui si ebbe l’«espansione» della Rivoluzione d’ottobre, e dal «secondo», caratterizzato dal riflusso del movimento rivoluzionario e da una relativa «stabilizzazione» del capitalismo. Le conseguenze catastrofiche del «terzo periodo» si fecero sentire anche in Italia, producendo anzitutto contrasti profondi e divisioni dolorose. Dopo l’espulsione di Angelo Tasca, nel 1929, seguirono nel marzo del ’30 quella di Bordiga e, tre mesi dopo, nel giugno, quella dei «tre»: Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli e Alfonso Leonetti, allontanati dalle file del partito sotto l’accusa infamante di «opportunisti» e di «agenti del nemico». (…) In modo del tutto meccanico e artificiale si decretò che anche noi, in Italia, si andava verso una «situazione rivoluzionaria», la quale poneva la necessità di lottare «per un governo operaio» (sinonimo della dittatura proletaria). Fascismo e capitalismo erano da abbattersi e dovevano cadere insieme: l’alternativa era tra fascismo e comunismo. Gli altri partiti antifascisti (socialisti, socialdemocratici, «Giustizia e libertà», ecc.) non erano alleati con cui cercare l’unità d’azione, ma agenti borghesi, il cui scopo era di deviare le masse lavoratrici dalla lotta per la rivoluzione proletaria: ciò che li portava naturalmente a convergere nel fascismo e a divenirne l’ala portante di sinistra.
Come scrisse Paolo Spriano, Terracini
“definiva settaria la svolta in base a due considerazioni essenziali (…): che era stata errata la previsione di un’imminente fase rivoluzionaria e che non si poteva paragonare la socialdemocrazia al fascismo, oppure ritenere che la successione al fascismo non passasse attraverso la fase democratica. (…) Non si capirebbe nulla del Terracini presidente dell’Assemblea Costituente, del Terracini che si pose accanto a Togliatti come fautore della politica di unità nazionale seguita alla famosa svolta di Salerno, se non si vedesse come egli aveva maturato la sua convinzione sulla decisiva funzione dei partiti del movimento operaio italiano nella creazione di un regime di democrazia politica, in quei lunghi, dolorosi anni di solitudine, nel drammatico isolamento fattosi ancor più grave durante la guerra di liberazione.”
Terracini difende i «tre» pur criticando la loro scelta frazionista. Di Leonetti rimarrà amico fino alla fine. Fu proprio Leonetti a riconoscere a Terracini negli anni ’70 il merito di aver ricostruito la vicenda pubblicando il suo carteggio dal carcere:
L’opposizione a tali prospettive e direttive politiche e organizzative era nota fino a ieri come la «storia dei tre», Ravazzoli, Tresso e Leonetti, i membri dell’Ufficio politico che finirono, con altri compagni, fuori del partito, avendo combattuto gli errori del «terzo periodo». Ma oggi, come già ho detto, dopo la pubblicazione del carteggio di Terracini dal carcere, sappiamo che l’opposizione alla svolta non fu solo dei «tre»: essa venne anche da Terracini e soprattutto essa venne da Antonio Gramsci. (…)
Se dunque, storicamente, l’opposizione alla «svolta» del ’30 non può più considerarsi come il fatto dei «tre», ma il fatto di Gramsci e di Terracini, due protagonisti non minori della storia del comunismo italiano, sicché non è più lecito a nessuno, oggi, parlare dei «tre» senza ricordare che Gramsci e Terracini avevano le stesse posizioni in merito ai problemi della rivoluzione italiana, con questo non si vuol naturalmente dire che fra i «tre», Gramsci e Terracini esistesse la medesima concordanza sui problemi russi e internazionali. (da Alfonso Leonetti, Un comunista», Feltrinelli 1977)
Da notare che Leonetti precisa che Terracini e Gramsci non erano legati – come i «tre» – all’Opposizione di sinistra di Trotsky. La loro presa di distanza dalla linea di Stalin è parte di un percorso originale del comunismo italiano e si inserisce in quella che Pietro Ingrao rivendicherà come “la nostra autentica tradizione“.
In una lettera a Togliatti del 1930 il prigioniero Terracini poneva interrogativi rispetto alla linea settaria imposta da Stalin sulla base di un’analisi che si rivelerà del tutto sbagliata del “maturare di una situazione rivoluzionaria immediata”:
“Perchè escludere ogni prospettiva democratica?..La prospettiva del CC deve intendersi nel senso che in Italia non vi è altra alternativa che la dittatura fascista o la rivoluzione?”.
E aggiungeva che lui e Antonio Gramsci due anni prima in carcere “eravamo giunti a diverse prospettive e cioè ritorno a metodo democratico con distacco della borghesia dal fascismo (…) voglio farvi inorridire dicendovi che non solo la prospettiva democratica, e cioè il ritorno della borghesia al metodo democratico di governo, era pacifica, ma che abbiamo anche parlato della tattica che il partito avrebbe dovuto adottare tra la fine del ‘ministero’ fascista ed il formarsi di un governo parlamentare…come vedete, immersi nel pantano opportunista fino al naso!(…) alla fin fine, proprio facendo la previsione di un ritorno democratico…si dimostra ottimismo e fiducia nell’avvenire rivoluzionario italiano“.
C’è già la visione di quello che sarà la Resistenza.
Ormai anziano Terracini rivendicava la posizione che aveva tenuto e il fatto che fosse stata la stessa di Gramsci:
“su questo capitolo della storia del PCI la Storia ha detto – mi pare – l’ultima parola, e se ancora se ne parla non è per attribuire a chicchessia titoli di merito o di demerito, ma soltanto per trarre anche da quella esperienza qualche insegnamento, ancora una volta alla luce del pensiero di Gramsci quale fortunatamente ci è pervenuto per incontestabili testimonianze. Ed allora credo che si possa oggi con certezza ritenere che la «svolta» non fece avanzare allora né il movimento operaio né la lotta contro il fascismo né il partito, errati come erano i suoi fondamenti: e cioè: la discoperta del carattere mortale dell’incombente crisi del capitalismo; l’affermazione che le masse erano prese, in Italia, in un processo di crescente radicalizzazione verso uno sbocco rivoluzionario; la certezza che fosse in atto la fascistizzazione della socialdemocrazia; ed infine la pretesa che nessun periodo di transizione sarebbe intercorso fra il crollo della dittatura fascista e l’instaurazione della dittatura del proletariato. E se tuttavia anche in quegli anni crebbe in Italia l’autorità politica e morale del partito, ciò venne dalla continuità ininterrotta della sua presenza combattiva nel paese di fronte alla rinuncia di tutti gli altri partiti, per antifascisti che si dichiarassero, a svolgere una qualsiasi attività contro il regime. Non per nulla dinanzi al tribunale speciale comparivano quasi soltanto dei comunisti, dirigenti o militanti di base, per dare coraggiosa testimonianza che l’antifascismo sopravviveva pur sempre alla repressione e alla persecuzione, preparando le condizioni per una riscossa democratica e liberatrice.“
Nel ’37 difende Altiero Spinelli che il partito vuole espellere — ed espelle — per aver condannato la dittatura staliniana, si batte, contro la grande maggioranza dei compagni di confino, a Ponza, per il fronte popolare, anzi, per una alleanza antifascista che, con i comunisti, comprenda socialisti, liberali, cattolici. Nel 1939-40 insiste che la guerra è, sì, interimperialistica ma il nemico numero uno è il nazismo, la cui vittoria va impedita innanzi a tutto perché porterebbe alla « fascistizzazione dell’Europa ». (citazione da Guido Quazza)
Nel 1939-’42 nel collettivo comunista di Ventotene (i comunisti in carcere e al confino studiavano e discutevano) che decise di espellerlo dal partito, difende con la compagna dei tempi dell’Ordine Nuovo Camilla Ravera la fondamentale distinzione tra il nazifascismo quale nemico principale e le democrazie borghesi, e critica apertamente il Patto Molotov – Ribbentrop.
Così Terracini ricorda il suo dissenso rispetto alle posizioni dei compagni al confino:
«Così i compagni accettarono, senza subire alcuna crisi, anche l’annuncio del Patto, del quale anzi cercarono di scoprire in ogni modo una qualche giustificazione. E in ciò si spinsero, teorizzandone la bontà, certo al di là delle stesse intenzioni di Stalin. Dal mero campo dei rapporti fra gli Stati, non mancò chi cercò di portare il discorso nel campo
ideologico, dei princìpi perenni, con quali mostruosità di teorizzazioni si può immaginare» (…) «Ma da parte dei compagni si fece assai di più, ci si spinse a dare motivazioni di tipo ideologico e dottrinale dell’atteggiamento dell’Urss. Si riprese a sostenere una sorta di equidistanza, di indifferenza tra le democrazie occidentali e Hitler, e la Germania nazista. Si accennava anche a qualcosa di peggio, a vedere nelle correnti democratico-borghesi il nemico peggiore, il più insidioso, o l’ultimo» (Intervista sul comunismo difficile, 1978).
IL RIENTRO NEL PARTITO
Nell’agosto 1943 Terracini ritorna in libertà ed è costretto a riparare in un campo profughi in Svizzera. Prova ripetutamente a ristabilire i contatti con i centri dirigenti del PCI senza riuscirvi. Deciso a portare il proprio contributo alla lotta, passa clandestinamente la frontiera e si unisce alle formazioni partigiane che occupano l’Ossola.
Scrive a Togliatti una lettera in cui dichiara di condividere la linea del partito che è ormai quella che gli era valsa la condanna dei compagni di prigionia:
Non è forse superfluo che, concludendo, ti manifesti il mio pieno consenso alla linea politica del partito, nella quale vedo d’altronde espresse molte di quelle valutazioni della situazione italiana e di quei concetti tattici che esposti e sostenuti da me prima del 25 luglio mi valsero dai severissimi custodi della nostra ideologia, ripensata in stravolta e irrigidita figura, la definitiva condanna e squalifica per opportunismo. Ed è necessario che ti assicuri che, sebbene io abbia patito per essi, durante lunghi anni, sofferenze morali di molto superiori a quelle inflittemi dalla prigionia, io saprò lavorare con loro nel partito in piena solidarietà e senza rancore.
Nel dicembre 1944 gli viene comunicata la sua riammissione nel partito e nell’aprile 1945 la segreteria lo invita a raggiungere Roma. Togliatti considera l’espulsione come mai avvenuta e dopo la Liberazione lo propone come presidente dell’Assemblea Costituente, ruolo che svolgerà in maniera impeccabile.
COMUNISTA DEMOCRATICO
Terracini per tutta la vita fu un sostenitore di quella che fu chiamata “via democratica al socialismo” che era in nuce nelle idee di Gramsci e sue degli anni ’30. Così ricordava il suo compagno Antonio:
“porto in me indelebile la raffigurazione di Gramsci avendo avuto la grande ventura di stare e lavorare al suo fianco in grande reciproca dimestichezza per un intero decennio durante il quale penetrai a fondo nell’intimo della sua mente e del suo cuore ch’egli d’altronde apriva senza infingimenti a coloro che aveva eletto a compagni ed amici. Erano, quelli, anni di tempestosa e profonda mutazione dei rapporti – idee e leggi – che per secoli avevano retto la convivenza degli uomini e dei popoli mentre sotto il segno della Rivoluzione d’ottobre folle sterminate si risvegliavano e lottavano in tutto il mondo per dare al loro avvenire la certezza del riscatto cui da sempre avevano agognato. Ma sul come di queste lotte e sui loro obiettivi insorsero asperrime divergenze fra coloro stessi che vi si erano predisposti nella mente e nello spirito, aprendo una problematica nuova che non trovava senz’altro risposta nelle dottrine elaborate in passato e neanche· nella prassi appena sperimentata. E Gramsci, sospinto assieme dal suo senso di solidarietà umana, che lo rendeva partecipe dell’anelito ardente di liberazione di ogni gente asservita e sofferente, e dalla sua avidità di intendere il moto degli eventi per favorirne il corso secondo detta ragione di giustizia e di progresso – respingendo la faciloneria demagogica degli uni e il dogmatismo ammuffito degli altri, fece penetrare come punta di diamante la sua intelligenza nello spessore opaco della realtà partendo dalle certezze dottrinarie già proclamate dagli ingegni eletti ai quali si era nei suoi studi faticati avvicinato e inchinato – Marx, Engels, Labriola, Lenin – svolgendole però oltre le circoscritte frontiere dei loro tempi, non già facendo profezie ma previsioni che sono il banco di prova decisivo del pensare e dell’operare politico.
Modesto come era egli, non pensava tuttavia di formulare una nuova originale dottrina al movimento rivoluzionario. Soltanto più tardi, quando il suo legittimo orgoglio intellettuale fu offeso dalla ignoranza presuntuosa di coloro che, dinanzi alla sua ripulsa di certe banali enunciazioni di strategia e di tattica, lo avevano messo al bando dal partito, con un inciso lapidario manifestò la consapevolezza del valore della rielaborazione dottrinaria del marxismo alla quale era giunto durante le more torturanti dell’amarissima sconfitta del movimento proletario italiano e della sua carcerazione crudele. Parlo del motto epigrafico apposto in capo al primo dei 20 “Quaderni del Carcere” fur ewig (per l’eternità) che dovrebbe sempre accompagnare nella memoria degli italiani il lascito scientifico-culturale che hanno da lui ereditato e nel quale, sul fondamento della concezione della storia che è propria del marxismo come dialettico confronto e scontro di classi in ultima istanza fra di loro inconciliabili, la strategia rivoluzionaria non s’incentra sulla dittatura del proletariato, che è in nuce negazione della libertà cui la rivoluzione socialista deve invece mirare e si vota, ma sulla sua egemonia e cioè sul perseguimento di una tale superiorità dello spirito e della mente, in termini civili, culturali e morali, la quale esige dal partito un’azione metodica, lunga e tenace di educazione-formazione di massa delle coscienze e delle menti. Questa riempirà di sé l’epoca rivoluzionaria anche se vi mancheranno quelle esplosioni di violenza distruttiva che una distorta concezione filosofica ed una corruzione filologica del termine hanno a lungo identificato con il fatto rivoluzionario. L’ABC del comunismo appare oggi questo. Ma quando Gramsci, con intelligenza e coraggio, corresse così il testo consacrato dell’alfabeto comunista, la sua concezione suonò blasfema ed egli venne punito seppellendo nel silenzio la sua opera e il suo nome. Dal 1930 al 1945 – bisogna pur dirlo almeno una volta senza perifrasi questa triste verità – la consegna fu infatti di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica. E ciò fino a quando con la svolta democratica il partito essendosi collocato nella proiezione strategica e tattica della sua revisione dottrinaria venne a mancare la possibilità di rilevare nel confronto quanto, e quanto a lungo, colui che è ormai unanimemente collocato alla sorgente stessa del movimento comunista italiano ne fosse stato estraniato e ripudiato.”
Lui che aveva conosciuto personalmente tutti i leader della Rivoluzione d’Ottobre in una direzione del PCI del 1970 propose di dichiarare apertamente che i regimi dell’est europeo non erano affatto socialisti.
Nel 1956 aveva dichiarato dopo il XX congresso e le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin e la denuncia del “culto della personalità”:
“la clamorosa svolta sovietica non impegna soltanto un giudizio sugli errori di Stalin, ma sul sistema che li ha permessi, gli altri dirigenti sovietici che li hanno tollerati” (…) “Dobbiamo dire ai compagni che il non godimento delle libertà democratiche non è una necessità dello sviluppo della società socialista… Bisogna dire che che il socialismo stesso è libertà e che nell’URSS si è verificata una stortura, che non può essere attribuita soltanto a un errore e che deve essere nettamente condannata”.
Alcuni dirigenti – non Togliatti però – lo criticarono perché a proposito di Stalin aveva parlato di “fatti delittuosi” e non solo di errori. Va detto però che condivise la giustificazione dell’intervento sovietico in Ungheria da parte del partito facendo sua la visione della rivolta come golpe reazionario.
Il vecchio Terracini non verrà mai meno all’ispirazione democratica del suo comunismo antidogmatico:
“la democrazia, estranea all’essenza economico-sociale del capitalismo, non le è connaturata. La società borghese la subisce soltanto, come qualcosa che le è estraneo, qualcosa che le viene imposto (…) Se fosse dipeso dalla borghesia capitalistica, la democrazia politica non si sarebbe mai affacciata alla realtà della vita moderna … Quanto di democrazia c’è stato e c’è oggi nel mondo borghese capitalistico … è stato strappato ai ceti dominanti dalle masse popolari lavoratrici con lotte tenaci, quasi sempre cruente”.
Citando sempre Spriano,
“Non si capirebbe neppure la coerenza dell’atteggiamento critico di Terracini nei confronti dello stalinismo, degli arbitrii e dei crimini del potere personale, delle contraddizioni profonde del sistema burocratico sovietico, lungo tutti questi decenni del post-liberazione, se non si cogliesse come tale critica alle degenerazioni staliniane fosse maturata in lui sino dagli anni del carcere. Allora egli misurava la rottura che si era provocata tra l’epoca leniniana e quella successiva e non lesinava la sua avversione per quello che riteneva un processo involutivo, pur non volendo distaccarsi dalla formazione storica in cui militava e che sapeva vitale per una prospettiva socialista.(…) E le sue battaglie in difesa dei diritti civili – che essi fossero colpiti in URSS oppure in Italia e altrove – le sue denunce contro le persecuzioni al dissenso intellettuale, contro le discriminazioni a danno degli ebrei come di altre minoranze nazionali ed etniche, portano lo stesso segno, anche la stessa misura. (…) Terracini era tenacemente attaccato alle regole, alle garanzie della democrazia politica, sia nell’ordinamento dello Stato italiano, sia nella condotta dei partiti della sinistra verso questo Stato, costruito anche da loro. Non per nulla negli ultimi tempi ricordò che bisognava far rivivere non solo la lezione di Gramsci bensì quella di Turati, nel nesso tra democrazia e socialismo.” Si riveda la sua intervista a #Mixer del 1980:
CON I GIOVANI
Terracini fu in prima fila, da parlamentare e da avvocato, in tutte le lotte sociali e civili dell’Italia repubblicana conquistando anche la fiducia dei giovani della sinistra extraparlamentare nata dal 1968. Come scriveva lo storico Guido Quazza: “difesa appassionata dei giovani, specialmente dei giovani della nuova sinistra, colpiti dall’apparato d’uno stato profondamente inquinato da autoritarismo classista quando non da autentico fascismo, sotto le ali protettive del regime democristiano. Terracini condanna l’estremismo di quei giovani, ma ne apprezza altamente l’anticonformismo, e non teme — egli, che potrebbe essere uomo di potere — di precludersi la presenza nel potere con le acute e appassionate arringhe di avvocato, con i duri discorsi politici, con gli inequivoci scritti di giornale e di rivista”.
Nel maggio 1972 scrive sul settimanale del PCI Rinascita un articolo sull’assassinio da parte della polizia a Pisa del giovane anarchico Franco Serantini:
«Questa volta, diciamolo, il nostro animo insorge inorridito e la coscienza invoca a gran voce severe pronte sanzioni, non soltanto perche? dinanzi a noi c’e? un altro morto ammazzato dalla polizia […], ma anche per il modo crudelissimo dell’ammazzamento e per la rivelazione ch’esso ci ha fatto del grado estremo di avvilimento a cui il regime ha portato, tra intrighi tenebrosi di complici omerta?, il potere statuale della Repubblica. Perche? a Pisa, a perpetrare l’orribile assassinio di Franco Serantini, lavoratore studente, e a tentare di mandarlo impunito, si sono indubbiamente date voce e mano, non senza un qualche ammiccamento da Roma, tutte le componenti del suo poderoso apparato repressivo: polizia, magistratura e galera. I poliziotti hanno infatti massacrato a mazzate il povero sventurato; i carcerieri, in complicita? con i vari funzionari della prigione, lo hanno abbandonato senza cure nella sua straziante agonia; e infine un giudice ha creduto di gettare sull’atroce dramma la gelida coltre burocratica della sua verbalizzata indifferenza, fingendo di non accorgersi di interrogare un morente, raccogliendone la deposizione solo piu? ad memoriam. […] Infatti, il regolamento carcerario, che e? legge, prescrive che alla consegna di un arrestato alla prigione si compili un verbale nel quale siano riportate le generalita? degli agenti che la eseguono. E quelli che scaricarono al tetro edificio del Don Bosco il corpo illividito e fratturato di Franco Serantini […] sanno per dovere di ufficio da chi l’ebbero in consegna, la? dove a mazzate era stato prostrato al suolo. […] E gli agenti di custodia di Pisa non poterono non vedere le lancinanti stigmate sul corpo […]. Infine il regolamento carcerario dispone che, non oltre il giorno successivo all’entrata nel carcere, l’arrestato sia sottoposto alla visita […]. E al sanitario del carcere pisano, quand’anche Franco Serantini incredibilmente non ne avesse levato lamento angosciato, non poterono sfuggire i segni impressionanti che ne sfigurarono le membra».
Finisce sulla prima pagina di Lotta Continua per essere andato a un’assemblea dopo l’assassinio del giovane Piero Bruno, viene invitato nel 1975 al festival del proletariato giovanile di Licola. Collabora con i radicali di Pannella.
Non era un moderato. Fu pubblicamente contrario negli anni ’70 alla strategia del “compromesso storico” proponendo non il dialogo con tutta la Dc ma un’azione volta a favorire al suo interno e nel mondo cattolico la separazione tra le tendenze popolari e progressiste e i settori espressione del malaffare e della grande borghesia.
“Io non sono un dogmatico, ma ritengo che il momento classista costituisca la bussola infallibile di ogni nostra giusta scelta di lotta. È da questa prospettiva che valuto i partiti, i quali, nella storia moderna, sono operatori insostituibili sulla scena politica nel confronto fra le classi. E allora non è l’asserito carattere interclassista della dc che mi orienta, si bene il carattere classista della sua funzione. (…) ivile e statale. E a chi, ancora una volta, mi obbiettasse che mediante una simile procedura si corre il rischio di fare insorgere gravi dissensi e, quindi, di provocare scontri frontali e rotture a perpendicolo, direi che bisogna finirla con la drammatizzazione di quanto costituisce la normalità della lotta politica. Ciò che importa per stringere alleanze durevoli ai fini di una politica di rinnovamento e davvero creatrice, è la chiarezza delle idee ed è la serietà dell’impegno. E perché ciò si realizzi, ognuno ha il diritto di conoscere non soltanto il proprio pensiero, ma anche, e specialmente, il pensiero ed i propositi degli altri”.
Alla morte di Terracini Rossana Rossanda su il manifesto gli dedicò in prima pagina un bellissimo articolo con un titolo che riassume una vita: un comunista libero.
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