Il conflitto arabo-israeliano (fino a Arafat non si era affermata la “questione palestinese”) ha diviso per decenni la sinistra. Lo testimonia il numero che la principale rivista marxista e terzomondista statunitense Montly Review dedicò al commento della guerra del 1967. Quel numero dell’ottobre 1967 apriva con due editoriali dei due padri fondatori e una breve intro che ho tradotto e vi propongo.
IL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO
Questo mese, come in due occasioni precedenti nella storia di MONTHLY REVIEW (novembre 1952 e ottobre 1961), pubblichiamo due editoriali firmati sullo stesso argomento. Naturalmente abbiamo cercato di raggiungere un accordo su un’unica dichiarazione e talvolta ci siamo andati vicini, ma le differenze su questioni di rilievo alla fine si sono rivelate insormontabili. Naturalmente non ci sono differenze rispetto ai principi di base.
Avevamo previsto di pubblicare in questo numero anche articoli di partigiani della parte israeliana e di quella araba nel conflitto. A causa di una malattia uno degli autori non ha potuto rispettare la scadenza. Speriamo di poter pubblicare questi articoli in un numero successivo. – I redattori
ISRAELE E L’IMPERIALISMO
di Paul M. Sweezy
Due anni fa, tra India e Pakistan, due dei Paesi più popolosi del mondo, si è svolta una guerra durata molte settimane. Non abbiamo pubblicato nulla sull’argomento su MONTHLY REVIEW, né dal punto di vista editoriale né in altro modo, e nessun lettore si è lamentato dell’omissione.
Lo scorso giugno si è verificata una guerra di pochi giorni tra Israele e i suoi vicini arabi, paesi con una popolazione complessiva di gran lunga inferiore a quella del solo Pakistan. Per ragioni editoriali impellenti, il fatto che il numero di luglio-agosto era stato programmato con largo anticipo, e l’urgenza di analizzare le rivolte dei neri nel numero di settembre, non abbiamo finora pubblicato nulla sul conflitto arabo-israeliano. Molti lettori si sono già lamentati, e noi cogliamo questa prima occasione per trattare l’argomento. Nei prossimi numeri speriamo di includere materiale che possa aiutare i lettori di MR a comprendere le complicate questioni coinvolte nella lotta.
Perché questa differenza di trattamento tra la guerra pakistano-indiana da un lato e quella arabo-israeliana dall’altro? Stiamo semplicemente seguendo la consueta pratica della stampa occidentale che, per ragioni comprensibili (se non giustificabili), abitualmente minimizza gli sviluppi asiatici e mette in risalto le notizie dal Medio Oriente, soprattutto quelle che coinvolgono Israele? La risposta è sicuramente no. Il criterio di importanza che cerchiamo di applicare nel decidere cosa deve e cosa non deve entrare nella MR deriva da quella che concepiamo come la lotta decisiva della nostra epoca storica, quella tra le metropoli industrializzate del capitalismo mondiale da un lato e quelle sottosviluppate e la periferia sfruttata dall’altro.
Secondo questo criterio non ci sembrava, e non ci sembra tuttora, che la guerra pakistano-indiana fosse di grande significato. Entrambi i paesi sono stati clienti sfruttati dell’imperialismo occidentale, e il loro conflitto sul Kashmir, per quanto importante possa sembrare a loro, ha poco a che fare con le prospettive di liberazione dalla dominazione imperialista loro e di qualsiasi altro paese, tranne forse nel senso che li indebolisce entrambi e quindi aumenta la loro dipendenza dall’“assistenza” degli Stati Uniti.
Il conflitto arabo-israeliano è molto diverso. Il mondo arabo nel suo complesso è il campo operativo per eccellenza dell’imperialismo petrolifero occidentale, la forma più redditizia e probabilmente la più spietata dell’imperialismo capitalista. Nel 1965, secondo i dati ufficiali del governo degli Stati Uniti, il reddito derivante dagli investimenti esteri delle compagnie petrolifere statunitensi ammontava a 1.789 milioni di dollari. Di questi, non meno di 813 milioni di dollari (circa il 45% del totale) provenivano dal Medio Oriente prevalentemente arabo. Israele d’altro canto non è mai stato una fonte di grandi profitti per i capitalisti occidentali, e il rafforzamento della sua economia essenzialmente artificiale è stato fin dall’inizio davvero molto costoso. Non è facile (e forse impossibile) ottenere cifre esatte, ma in generale sembra probabile che negli ultimi anni Israele abbia ricevuto non meno di 250 milioni di dollari all’anno in sovvenzioni e prestiti dalle potenze occidentali, aiuti di base dagli Stati Uniti e i contributi degli ebrei (per lo più ricchi) all’Agenzia ebraica. Ciò equivale a circa 125 dollari all’anno pro capite per la popolazione israeliana, che è più del reddito pro capite totale di molti paesi arabi. Questo afflusso di ricchezza dall’estero, oltre a un livello tecnologico molto più elevato, spiega perché il tenore di vita israeliano è molte volte superiore a quello dei suoi vicini.
Cosa spiega questa generosità dell’imperialismo occidentale, e soprattutto degli Stati Uniti, verso Israele? Sono state suggerite molte risposte – sensi di colpa per il passato di antisemitismo dell’Occidente, l’importanza del voto ebraico negli Stati Uniti, i legami storici religiosi ed etnici con la Terra Santa e il popolo di Israele, ecc. – e senza dubbio tutte contengono un elemento di verità. Ma una cosa mi sembra chiarissima: a meno che Israele non seguisse politiche e non svolgesse in Medio Oriente un ruolo che le potenze imperialiste consideravano nel proprio interesse, il flusso di prestiti, sovvenzioni e doni a favore di Israele si esaurirebbe rapidamente e l’economia israeliana si troverebbe ad affrontare una crisi e un probabile collasso. Si noti che questo non vuol dire o implicare che Israele sia un mero burattino dell’imperialismo, per non parlare di qualsiasi potere imperialista. Ci sono molte cose nella storia del paese che sarebbero inspiegabili se così fosse. Ciò che significa è che, nel complesso e nel lungo periodo, Israele e le potenze imperialiste vedono i loro interessi essenzialmente paralleli e spesso identici.
La spiegazione di ciò, credo, è semplicemente che l’imperialismo e Israele, ciascuno per le proprie ragioni, sono impegnati a mantenere un mondo arabo debole e diviso. In entrambi i casi, la base di questo impegno è chiara. Una nazione araba forte e unita – una prospettiva realistica in termini di lingua, religione e contesto storico generale – prima o poi, e probabilmente prima, nazionalizzerebbe i giacimenti petroliferi e utilizzerebbe le entrate derivanti dalla vendita del petrolio come base per un un vero programma di sviluppo economico piuttosto che come fonte da cui sostenere oligarchie corrotte e pagare favolosi profitti a gigantesche società straniere. Un simile sviluppo sarebbe tanto vantaggioso per le masse arabe quanto disastroso per il cartello petrolifero internazionale.
L’interesse di Israele è diverso ma non per questo meno impellente. Israele non trae alcun beneficio significativo dallo sfruttamento economico dei paesi arabi, ma la sua stessa esistenza come stato colonizzatore si basa sull’esproprio delle terre agli arabi palestinesi e, in linea con il suo carattere esclusivo sionista, pratica una discriminazione sistematica e di principio contro tutti arabi. L’ostilità araba verso Israele è dello stesso tipo e naturale dell’ostilità dei neri verso gli stati coloni bianchi in Africa. Ne consegue inevitabilmente che una nazione araba forte e unita rappresenterebbe per Israele una minaccia di proporzioni infinitamente maggiori di qualsiasi altra che abbia mai dovuto affrontare. Se questa minaccia riguarderà, come sembrano credere Israele e i suoi simpatizzanti all’estero, l’esistenza stessa del paese e del suo popolo, o se riguarderà solo il carattere discriminatorio dello Stato israeliano non è cruciale per la definizione della politica israeliana.
Perché è chiaro che in entrambi i casi l’attuale classe dirigente sionista si sentirebbe giustamente in pericolo mortale. (Ciò non significa che una minaccia all’esistenza del popolo di Israele e una minaccia al carattere sionista dello Stato israeliano non possano assumere una grande importanza. Non c’è dubbio che le classi inferiori sfruttate israeliane, che costituiscono la maggioranza della popolazione e per la maggior parte di origine asiatica o africana, hanno interesse a rimanere in vita; il loro interesse a mantenere il carattere sionista dello Stato è quantomeno dubbio e più probabilmente inesistente.’)
Se questa analisi è fondata, difficilmente si può evitare la conclusione che Israele e le potenze imperialiste sono di fatto alleati non contro gli arabi in generale (gli imperialisti amano gli arabi che “conoscono il loro posto”) ma contro le forze del mondo arabo che mirano a unificare, rafforzare e sviluppare la nazione araba. E mi sembra elementare che tutti i progressisti, i radicali e gli antimperialisti di tutto il mondo debbano stare con tutto il cuore dalla parte di queste forze: le forze del nazionalismo arabo rivoluzionario.
Che tipo di lotta promette il successo a queste forze?
Esiste una tendenza naturale a ritenere che, poiché l’imperialismo è un fenomeno globale con i suoi centri di potere e di decisione molto lontani dal Medio Oriente e poiché Israele è una realtà concreta introdotta con la forza nel corpo del mondo arabo, la strategia corretta deve essere quella di concentrare la lotta in questa fase contro il partner israeliano nell’alleanza. Lasciamo che tutti gli arabi si uniscano in una lotta comune contro Israele: ogni successo non solo indebolirà Israele ma allenterà la presa dell’imperialismo sul Medio Oriente e sulle sue ricchezze naturali. La resa dei conti finale con l’imperialismo potrà arrivare più tardi.
In pratica questa concezione strategica porta a mitigare la lotta di classe all’interno degli Stati arabi (poiché tutti gli arabi sono chiamati a unirsi contro un nemico comune), ad armare i regimi arabi esistenti nella massima misura possibile e a sostenere una linea politica e propagandistica puramente nazionalistica contro Israele. L’esperienza dimostra che ciò porta anche a periodici scontri armati con Israele e all’inevitabile sconfitta degli eserciti arabi.*
Il risultato di concentrare la lotta contro il partner locale nell’alleanza israelo-imperialista è quindi l’opposto di ciò che si intendeva: mantiene il mondo arabo diviso e debole e rafforza la presa dell’imperialismo. Si può quindi affermare con un alto grado di sicurezza che è proprio questa la strategia che sia Israele che l’imperialismo vogliono che gli arabi, e in particolare gli arabi rivoluzionari, seguano.
Ora ci sono, in seguito alla debacle militare dello scorso giugno,
segnali incoraggianti che i rivoluzionari arabi hanno imparato questa lezione e hanno iniziato il processo di rivalutazione del passato e di mappatura di nuovi percorsi per il futuro. Considerata la deplorevole inadeguatezza della stampa occidentale in questioni di questo tipo e la mia mancanza di accesso alle fonti arabe, non posso fare altro che registrare alcune impressioni basate su resoconti frammentari (soprattutto nella stampa francese) e su conversazioni con individui in un contatto più stretto con gli sviluppi nel mondo arabo.
Al centro di quella che sembra essere una nuova linea rivoluzionaria araba emergente c’è il riconoscimento del definitivo fallimento, e quindi la necessità di abbandonare, il tentativo di sconfiggere Israele per mezzo di una guerra convenzionale condotta da una coalizione di stati arabi esistenti. E un corollario di questo riconoscimento è il passaggio alla guerra popolare come principale forma di lotta del futuro. (A questo proposito va ricordato che la guerra popolare non è un’importazione straniera o una novità recente nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Gli occidentali la conoscono attraverso le imprese di Lawrence d’Arabia nella lotta contro la dominazione turca; gli israeliani hanno dato il loro contributo nella lotta contro il dominio britannico in Palestina dopo la seconda guerra mondiale; la guerriglia giocò un ruolo fondamentale nel cacciare gli inglesi da Suez; gli algerini combatterono un’epopea durata sette anni per
trionfare sul colonialismo francese; e più recentemente la lotta popolare contro il dominio britannico ad Aden e nell’Arabia meridionale sembra essere sull’orlo della vittoria. A chi crede nella guerra popolare non mancano certo l’esperienza storica e l’esempio eroico.)
Ma la guerra convenzionale e la guerra popolare non sono semplicemente sostitutive l’una dell’altra. Sono fenomeni totalmente diversi, condotti da diversi tipi di forze combattenti e con implicazioni e conseguenze politiche e socioeconomiche diverse. Forse la differenza più importante è che le forze armate convenzionali possono uscire dalle loro basi e fare la guerra a distanza, mentre i guerriglieri, sia urbani che rurali, possono combattere efficacemente solo sul loro territorio dove godono del sostegno delle masse. L’adozione della strategia della guerra popolare contro Israele implica quindi che solo una piccola parte della popolazione araba possa essere direttamente coinvolta, quella che vive nelle zone occupate da Israele o comunque molto vicine ai confini israeliani. Il resto può essere coinvolto solo indirettamente e, ovviamente, in modo poco efficace. Ciò è vero, però, solo se la lotta contro Israele è concepita alla vecchia maniera, in termini nazionalistici. Non appena si riconoscerà che il vero nemico della rivoluzione araba non è solo, o anche principalmente, Israele, ma l’imperialismo in tacita alleanza con Israele, allora l’intera prospettiva si trasformerà. Diventa allora possibile e necessario prevedere l’estensione della guerra popolare a tutta l’area del dominio imperialista. Tutti i partner dell’alleanza contro la rivoluzione araba verrebbero quindi messi sotto attacco più o meno simultaneo, comprese ovviamente le oligarchie arabe che, come le loro controparti nel resto del Terzo Mondo, sono agenti locali, esecutori e carnefici dell’imperialismo.
Per quanto riguarda Israele, è ovviamente diventato molto più vulnerabile a questo tipo di lotta, conquistando e occupando ampie porzioni aggiuntive di territorio arabo nella guerra di giugno. Nei paesi arabi la guerra popolare può senza dubbio svilupparsi più rapidamente nei regni arretrati e negli sceiccati dove si concentra il petrolio. Se i paesi arabi più progressisti (Egitto, Siria e Algeria) saranno anche teatri di guerre popolari dipenderà probabilmente dall’evoluzione dei loro regimi man mano che la lotta si diffonderà e si intensificherà. Se davvero appoggiassero la rivoluzione nei fatti così come a parole, e si muovessero internamente in direzione di sinistra, potrebbero svolgere un ruolo positivo molto importante nella lotta globale contro l’imperialismo.
L’esperienza nel mondo – specialmente in Vietnam, Congo e Repubblica Dominicana – indica che ovunque la guerra popolare rivoluzionaria mostra segni di successo, ci si può aspettare un intervento imperialista diretto. Israele dovrà quindi decidere se unirsi ai suoi partner imperialisti in rinnovate guerre di intervento contro gli stati arabi. Se lo farà, si schiererà finalmente e definitivamente con l’imperialismo e condividerà lo stesso destino finale.
C’è qualche speranza, tuttavia, che il corso degli eventi in Israele possa essere diverso. La sostituzione delle forme di lotta nazionaliste con forme di lotta rivoluzionarie nel mondo arabo difficilmente può fare a meno di avere un effetto sulla linea politica e di propaganda araba nei confronti di Israele. Di fronte a una lotta sempre più accanita contro l’imperialismo, i rivoluzionari arabi potrebbero benissimo adottare una linea nei confronti di Israele concepita non per unire ma per dividere gli israeliani. Ciò significherebbe abbandonare le minacce (in gran parte vuote) di annientare Israele e fare appello alla solidarietà rivoluzionaria al proletariato israeliano che, come notato sopra, è composto principalmente da ebrei provenienti dall’Asia e dall’Africa che, in termini di lingua e background culturale generale, spesso hanno più in comune con gli arabi che con gli ebrei europei e americani origine che controllano il paese. A partire da ora tali appelli probabilmente otterrebbero poca risposta.
Ma man mano che la lotta si sviluppa e le contraddizioni della società israeliana diventano sempre più profonde e insolubili nell’attuale quadro nazionale e internazionale, la situazione potrebbe cambiare. In ogni caso, sembra la migliore speranza per gli israeliani che capiscono che la strada che il loro paese sta ora percorrendo – essenzialmente la stessa strada percorsa dalle potenze imperialiste con cui Israele è in tacita alleanza – è, a lungo termine, una strada a senso unico verso il disastro.
Riferendo della sua ultima intervista con Mao Tse-tung nel New Republic del 27 febbraio 1965, Edgar Snow scrisse: “Durante la nostra conversazione ha ripetutamente ringraziato gli invasori stranieri per aver accelerato la rivoluzione cinese e per aver concesso simili favori al sud-est asiatico di oggi.” Se la rivoluzione araba viene ora accelerata, come sembra altamente probabile, i rivoluzionari arabi non devono forse un simile voto di ringraziamento agli israeliani? Riusciranno i leader arabi ad emergere con la visione storica per vederlo e il temperamento filosofico per dirlo? Lo si spera, perché il mondo ha disperatamente bisogno di più leader rivoluzionari di questo tipo.
di Leo Huberman
La risposta è “no”.
Ora ponetevi questa domanda: supponiamo che i rivoluzionari arabi siano riusciti a rovesciare i loro monarchi feudali, a instaurare il socialismo e a riconquistare, attraverso l’espropriazione delle compagnie petrolifere, le enormi ricchezze ora sottratte loro; le masse popolari sarebbero in grado di migliorare la loro situazione?
Le masse popolari dei Paesi arabi starebbero meglio?
Ovviamente la risposta è sì.
E i rivoluzionari arabi sono caduti nella trappola.
Hanno concentrato le loro energie sull’abolizione di Israele invece che sull’abolizione dell’imperialismo. È vero che Israele vota spesso con le nazioni imperialiste all’ONU, è stato dalla parte imperialista in Corea del Sud, nella rivoluzione algerina, nell’invasione dell’Egitto del 1956 e attualmente nel Vietnam del Sud, in breve, un lacchè dell’imperialismo. Ma dare la caccia al lacchè e non al padrone significa cadere in un vecchio trucco della classe dominante che avvantaggia solo il padrone. I socialisti arabi dovrebbero puntare i loro occhi sul vero bersaglio: se devono far parte di una “guerra santa”, dovrebbero indirizzarla contro il nemico n. 1, che non è Israele, ma il feudalesimo e l’imperialismo.
I rivoluzionari arabi e quelli israeliani devono unirsi in uno sforzo comune per liberarsi degli sfruttatori di entrambi i campi e introdurre il socialismo sia in Israele che nei Paesi arabi.
Così, quando Nasser ha cacciato gli imperialisti che controllavano il Canale di Suez, quando ha introdotto alcune misure progressiste urgentemente necessarie, ha meritato e ricevuto il sostegno dei socialisti.
Anche Israele lo è. E se non cambierà la sua politica filo-imperialista e anti-araba in una politica in cui i diritti degli arabi saranno ristabiliti e Israele sarà integrato nel Medio Oriente arabo, non sarà possibile raggiungere pace e sicurezza. La “vittoria” appena ottenuta e le altre vittorie che verranno non risolvono il conflitto, ma lo esacerbano. E possono così accelerare il giorno in cui il Paese che doveva essere un rifugio per gli ebrei diseredati diventerà, invece, la loro tomba.
In una recente intervista con K. S. Karol (New Statesman, 22 settembre 1967), Fidel Castro ha dichiarato di “essere stato scioccato, nel periodo precedente la guerra, dalla propaganda araba di un tipo che rivelava la mancanza di principi rivoluzionari”. Aggiunse: “I veri rivoluzionari non minacciano mai un intero paese di essere sterminato …. Abbiamo parlato chiaramente contro la politica di Israele, ma non neghiamo il suo diritto di esistere”.
Sono d’accordo.
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