Abbie Hoffman scrisse negli anni ’80 che “non è importante sapere dove è finita la generazione di Woodstock ma dove sarà la Woodstock delle nuove generazioni”.
Ho sempre pensato che il miglior omaggio a Kurt Cobain sia stata la battaglia di Seattle del 1999 quando si aprì un nuovo ciclo di lotte planetarie anticapitaliste per un altro mondo possibile (ciclo che almeno in Europa si è chiuso da un pezzo). Il segnale inviato dagli zapatisti nel 1994 raggiungeva gli USA e tutto il mondo aprendo la stagione del movimento altermondialista. A Seattle si ritrovarono i vecchi attivisti dei sixties e le nuove generazioni, i punk anarchici, le femministe, gli ambientalisti, gli operai e i portuali dell’antico sindacato comunista della costa occidentale che cominciarono a cantare l’Internazionale in mezzo ai lacrimogeni. Proprio la capitale del grunge fu l’epicentro della rivolta contro la globalizzazione neoliberista.
Kurt Cobain è stato uno degli artisti che più hanno evocato e anticipato quella rivolta contro il dominio delle multinazionali. Smells like teen spirit l’aveva quasi invocata con il suo spirito anarchico che anticipava una sensibilità allora prevalente in una nuova generazione di attiviste/i. Come scrisse Barbara Epstein: “Molti tra i giovani attivisti radicali di oggi, soprattutto quelli al centro dei movimenti anti-globalizzazione e anti-corporativi, si definiscono anarchici. Ma la prospettiva intellettuale/filosofica che domina in questi ambienti potrebbe essere meglio descritta come sensibilità anarchica piuttosto che come anarchismo in sé. (…) È una forma di politica che ruota attorno all’esposizione della verità piuttosto che alla strategia” (Anarchism and the Anti-Globalization Movement, Montly Review 2001).
L’acid communism di un altro depresso morto suicida come Mark Fisher sarebbe arrivato molto dopo con la riscoperta della tradizione socialista dopo Occupy con la campagna di Bernie Sanders e il movimento dal basso che portò Jeremy Corbyn alla guida del Labour.
Durante i giorni della battaglia di Seattle suonarono insieme riuniti nel NO WTO COMBO l’ex Nirvana Krist Novoselic e il più politicizzato dei punk californiani Jello Biafra dei Dead Kennedys.
Quell’esplosione di rivolta nelle strade sarebbe piaciuta a Kurt che amava gli MC5 di Kick out of the jams e Patti Smith che gli ha reso omaggio anni dopo con una bellissima cover di Smells like teen spirit.
Uno strummeriano come Bobby Gillespie dei Primal Scream ha segnalato le radici di classe della rabbia di Kurt:
“Kurt Cobain aveva la rabbia della classe lavoratrice. Era arrabbiato perché band come i Pavement non lo facevano. Tra molte di quelle band alternative americane, forse era l’unico a essere un ragazzo della classe lavoratrice. Quella rabbia la puoi sentire anche in Iggy Pop e negli Stooges: erano della classe operaia, lo stesso con gli MC5. Lo stesso con i Sex Pistols; per me questo è punk rock. Il punk rock è una cosa della classe lavoratrice, proprio come lo sono il blues e il country. Quel senso di lotta e quella poesia amareggiata possono provenire solo da persone svantaggiate o che sono state oppresse in qualche modo. Qualunque altra cosa può essere grandiosa, può essere art-rock, può essere bellissima e possiamo amarla, ma non credo che avrà la stessa grinta e determinazione.”
In Cobain la rabbia working class è vissuta attraverso la lente della continuità delle controculture alternative.
“A questo punto ho una richiesta per i nostri fan. Se qualcuno di voi odia in qualche modo gli omosessuali, le persone di colore diverso o le donne, fateci questo favore: lasciateci in pace, cazzo! Non venite ai nostri concerti e non comprate i nostri dischi.”
“Mi piace incolpare la generazione dei genitori per essere giunti così vicini al cambiamento sociale arrendendosi dopo i pochi sforzi di successo da parte dei media e del governo per mutilare il movimento usando i vari Manson e gli altri rappresentanti della cultura hippie come esempi di propaganda su come non fossero altro che malattie anti-patriottiche, comuniste, sataniche, inumane, e a loro volta i baby boomer sono diventati i più perfetti, conformisti, yuppie ipocriti che una generazione abbia mai prodotto.”
“Il punk è libertà musicale. È dire, fare e suonare quello che vuoi. Nei termini di Webster, ‘nirvana’ significa libertà dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno, e questo è abbastanza vicino alla mia definizione di Punk Rock.”
“Il punk rock dovrebbe significare libertà, simpatia e accettazione di tutto ciò che ti piace. Suona quello che vuoi. Sbagliato quanto vuoi. Purché sia ??buono e abbia passione”.
“L’apatia della mia generazione, ne sono disgustato. Sono disgustato anche dalla mia stessa apatia, perché sono senza spina dorsale e non sempre mi oppongo al razzismo, al sessismo e a tutti quegli altri -ismi di cui la controcultura si lamenta da anni.”
“Sono decisamente un femminista. Sono disgustato dal modo in cui le donne vengono ancora trattate. Siamo nel 1993 e alcune persone pensano ancora che siamo negli anni ’50. Dobbiamo fare ulteriori progressi. Ci vogliono più musiciste donne, più artiste, più scrittrici. Tutto è dominato da fottuti maschi e ne sono stufo!”
“Il problema con i gruppi che si occupano di stupro è che cercano di educare le donne su come difendersi. Ciò che veramente bisogna fare è insegnare agli uomini a non stuprare. Vai alla fonte e inizia da lì.”
“Pace, amore e empatia”.
Queste sono parole di Kurt Cobain.
Allen Ginsberg le avrebbe considerate parte di quell’atteggiamento diffuso attraverso i decenni dalla beat generation che definiva “antifascismo cosmico“. Lo testimonia la devozione per William Burroughs a cui Kurt scrisse: “Come ammiratore e studioso del tuo lavoro, sarei deliziato dalla possibilità di lavorare direttamente con te”. Nel bellissimo concerto unplugged Kurt suona un pezzo del bluesman Leadbelly, il compagno di Woody Guthrie, che aveva scoperto attraverso Burroughs che lo aveva definito “il primo punk rocker della storia”.
Dalla prima volta che ho letto una recensione su Rockerilla e ho ascoltato i Nirvana ho sentito che questi quasi coetanei erano dentro la continuità di una (contro)cultura planetaria di cui mi sono sempre sentito parte con tanti amici e compagni con cui per anni ho condiviso uno spirito comunitario che passava attraverso la musica, la politica, la cultura, la socialità. Coetanei come Kurt Cobain erano dei nostri e non erano di plastica. Eravamo cresciuti con tanti dischi e libri in comune.
C’era qualcosa di inquietante nelle canzoni cariche della sofferenza che avrebbe ucciso Kurt come tanti altri che famosi non lo sono mai diventati.
Kurt Cobain amava Neil Young e avrebbe voluto invecchiare come il vecchio rocker. Una citazione da My My Hey Hey chiude la lettera di addio di Kurt – “Meglio bruciare in fretta che morire lentamente”. Quelle parole Neil Young le aveva dedicate a Johnny Rotten dei Sex Pistols.
Quel pezzo era anche la colonna sonora del film di Dennis Hopper del 1980 ‘Out of the blue’ sulla fine del sogno hippie. La generazione di Woodstock e Easy Rider incontrava il no future del punk.
Come ha scritto Bifo il no future annunciato dai Sex Pistols sarebbe stato la maledizione dei decenni successivi. Il clima in cui siamo cresciuti dalla fine degli anni ’70 quando si cominciò a parlare in Italia di riflusso e negli anni ’80. Con cronologia diverse un sentimento di spleen (come la rivista underground pescarese che fondammo nel 1985) è stato un’atmosfera comune tra la gioventù alternativa nei paesi occidentali. I Joy Division – che piacevano a Kurt – ne hanno forse dato l’espressione più alta. La diffusione dell’eroina ne fu pessima e mortifera espressione.
Kurt amava i Sex Pistols. Considerava Never Mind the bollocks “la migliore produzione di qualsiasi disco rock che abbia mai sentito. Tutto il clamore che i Sex Pistols hanno avuto è stato totalmente meritato: hanno meritato tutto ciò che hanno ottenuto. Rotten era quello con cui mi identificavo”. I Sex Pistols con il loro no future avevano preconizzato il There Is No Alternative di Margareth Thatcher.
Mark Fisher su Kurt Cobain in Realismo capitalista: “Nella sua terribile stanchezza e rabbia senza oggetto, Cobain sembrava aver dato voce stanca allo sconforto della generazione venuta dopo la storia, di cui ogni mossa era anticipata, tracciata, comprata e venduta prima ancora che accadesse. Cobain sapeva di essere solo un altro pezzo di spettacolo, che niente funziona meglio su MTV di una protesta contro MTV; sapeva che ogni sua mossa era un cliché scritto in anticipo, sapeva che anche realizzarlo era un cliché. L’impasse che paralizzò Cobain è proprio quello descritto da Fredric Jameson: come la cultura postmoderna in generale, Cobain si ritrovò in “un mondo in cui l’innovazione stilistica non è più possibile, dove tutto ciò che resta da fare è imitare stili morti nel museo immaginario”.
Io non la penso esattamente come Jameson e Fisher perché nella totalità capitalistica ci sono sempre crepe, linee di fuga, resistenze, contraddizioni. Da questo punto di vista ho una tendenza a essere inguaribilmente ottimista come Toni Negri anche se sovente “l’impatto con la realtà” risulta troppo duro, come cantava il mio amico punk Ivan Donatelli scomparso troppo presto per conoscere i Nirvana.
Fortunatamente non tutti sono depressi e ci furono tante altre fonti di ispirazione che aprivano a nuove linee di resistenza, ritmo e consapevolezza. Come i Clash. Kurt Cobain non sopportava Sandinista con quel remix terzomondista e funk di punk, reggae, hip hop (il suo disco dei Clash preferito era Combat rock). Se Joe Strummer propose di esibirsi e registrare insieme a President Allen Ginsberg, l’esponente più gioioso, estroverso e militante della beat generation, Kurt Cobain cercò Burroughs, l’autore più oscuro e inquietante tra i beats che aveva profetizzati nel Pasto Nudo che si sarebbe evitato nella “società del controllo” l’eccessivo uso di torture e manganelli per dominare la gente, sarebbe bastata la “demoralizzazione totale”. Quella che ha ucciso Kurt.
Gus Van Sant, regista che il vecchio hippie Ken Kesey considerava “un guerriero” della stessa specie di Ginsberg, Leary, Jerry Garcia ha dedicato un film a Kurt che conosceva personalmente e a cui aveva chiesto di suonare a sostegno di una lotta della comunità lgbtqi contro una proposta di legge omofoba in Oregon. Kurt accettò e suonò con i Nirvana: “La Misura 9 va contro le tradizioni americane di rispetto reciproco e libertà, e i Nirvana vogliono fare la loro parte per porre fine al bigottismo e alla grettezza ovunque”
Nelle interviste Gas Van Sant lo racconta come un tipo normale che incontrava nei giri che frequentava. Kurt non voleva certo diventare una rockstar. Molti hanno scritto che sia andato in crisi perché il successo dei Nirvana ne aveva fatto merce per gli odiati yuppies consumisti in carriera. Può darsi ma certo se soffri di depressione vedi il lato negativo delle cose che accadono.
«È una cosa terribile che questo ragazzo non abbia potuto vivere la vita che voleva e godersi più a lungo il suo tempo su questa terra. La colpa è delle persone che aveva intorno, e non parlo solo di sua moglie ma di tutto il mondo che lo circondava. Ha fatto troppi soldi troppo in fretta, valeva troppo per troppe persone e per questo doveva morire. È così che funziona, e non è bello. È tutto quello che ho da dire al riguardo» (Iggy Pop)
Fortunatamente è possibile reagire in maniera meno autodistruttiva. “Gli anni 90 saranno come gli anni ’60 e faranno sembrare gli anni ’80 come i ’50” dice Dennis Hopper nel 1990 nel film Flashback in cui interpreta un eroe del dissenso antiguerra ispirato alla storia di Abbie Hoffman che esce dalla clandestinità per godersi il successo della sua autobiografia e lascia il testimone a un giovane che abbandona l’Fbi per andarsene in moto a ritrovare se stesso come i protagonisti di Easy Rider passando per la libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti sulle note di It’s the end of the world dei Rem. “È la fine del mondo come lo conosci e mi sento bene”.
La stessa profezia 60-90 la fecero Franco Berardi (in un momento di raro ottimismo) Franco Bolelli e Matteo Guarnaccia con la rivista neopsichedelica Ario fortemente impregnata della spirito di Tom Robbins che divenne scrittore dopo aver visto i Doors in concerto a Seattle nel 1967.
Molto bello il discorso che proprio Michel Stipe dei REM ha dedicato a Kurt Cobain e ai Nirvana alla Rock’n’roll Hall of Fame non a caso evocando Allen Ginsberg:
Quando un artista offre un’idea, una prospettiva, aiuta tutti noi a vedere chi siamo. E si sveglia e ci spinge avanti verso il nostro potenziale collettivo e individuale. Ci rende, ciascuno di noi, in grado di vedere chi siamo più chiaramente. È progressione e movimento progressivo. È il futuro che ci fissa nel presente e ci dice: “Dai, andiamo avanti. Eccoci qui. Ora.”
Abbraccio l’uso della parola “artista” piuttosto che “musicista” perché i Nirvana erano artisti in ogni senso della parola. È la vocazione più alta per un artista, nonché il più grande privilegio possibile, catturare un momento, trovare lo spirito del tempo, esporre le nostre lotte, le nostre aspirazioni, i nostri desideri. Abbracciare e definire un periodo di tempo. Questa è la mia definizione di artista.
I Nirvana hanno catturato il fulmine in una bottiglia. E ora, secondo il dizionario – fuori da Internet – nel definire “un fulmine in una bottiglia” come “Catturare qualcosa di potente e sfuggente, e poi essere in grado di trattenerlo e mostrarlo al mondo”.
Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl erano i Nirvana. L’eredità e il potere del loro momento decisivo sono diventati, per noi, indelebili. Come la mia band, i REM, i Nirvana provenivano da un posto molto improbabile. Non un centro culturale come Londra, San Francisco, Los Angeles o anche New York – o Brooklyn – ma da Aberdeen, Washington nel nord-ovest del Pacifico, una città in gran parte operaia appena fuori Seattle.
Krist Novoselic ha detto che i Nirvana provengono dalla scena hardcore americana degli anni ’80: questo era un vero underground. Era il punk rock, dove le numerose band o stili musicali erano eclettici. Eravamo il prodotto di una comunità di giovani in cerca di una connessione lontana dal mainstream. La comunità ha costruito strutture al di fuori della sfera aziendale e governativa, indipendenti e decentralizzate. Media collegati tramite fotocopiatrici, un decennio prima che Internet, come lo conosciamo, nascesse. Questo era un social networking in piena regola.
Dave Grohl ha detto: “Eravamo dei drop-out, guadagnavamo il minimo sindacale, ascoltavamo vinili, emulavamo i nostri eroi – Ian MacKaye, Little Richard – ci facevamo le canne, dormivamo nei furgoni, senza aspettarci che il mondo se ne accorgesse”.
Gli artisti solisti hanno quasi più facilità delle band: le band non sono facili. Ci si ritrova in un gruppo di persone che si sfregano l’un l’altro nel modo sbagliato e nel modo giusto. E poi c’è la chimica, lo Zeitgeist, il colpo di fulmine e una voce collettiva che aiuta a individuare un momento, a capire cosa stiamo vivendo. Si tratta di comunità e di spingersi oltre. I Nirvana hanno attinto a una voce che desiderava essere ascoltata.
Ma con la loro musica, il loro atteggiamento, la loro voce, riconoscendo le macchinazioni politiche di meschini, ma di ampia diffusione, argomenti, movimenti e posizioni politiche che ci avevano frenato culturalmente, i Nirvana hanno fatto esplodere tutto questo con una rabbia e un furore cristallini e nucleari. I Nirvana si scagliavano contro il sistema, portando il completo disprezzo per l’industria musicale e la loro definizione di America delle corporations e del mainstream, per mostrare una furia dolce e bella ma stufa, unita a un’ululante vulnerabilità.
Esponendo liricamente la nostra fragilità, le nostre frustrazioni, le nostre mancanze. Cantando la ritirata e l’accettazione dei trionfi di una comunità di outsider con immense possibilità, ostacolata o ignorata, ma non frenata o trattenuta dalla stupidità e dalla meschinità politica dei tempi. Hanno detto la verità, e molte persone hanno ascoltato.
Hanno raccolto il mantello in quella particolare battaglia, ma erano singolari, forti, melodici e profondamente originali. E quella voce. Quella voce. Kurt, ci manchi. Mi manchi.
I Nirvana hanno definito un momento, un movimento per gli outsider: per i froci, per le ragazze grasse, per i giocattoli rotti, per i nerd timidi, per i ragazzi goth del Tennessee e del Kentucky, per i rocker e gli impacciati, per gli stufi, per i ragazzi troppo intelligenti e i bullizzati. Eravamo una comunità, una generazione – nel caso dei Nirvana, diverse generazioni – nella camera d’eco di quell’urlo collettivo, e Allen Ginsberg ne sarebbe stato molto orgoglioso.
Quel momento e quella voce si sono riverberati nella musica e nel cinema, nella politica, in una visione del mondo, nella poesia, nella moda, nell’arte, nello spiritualismo, all’inizio di Internet e in tanti campi e in tanti modi della nostra vita. Questa non è solo musica pop: è qualcosa di molto più grande.
Si tratta di alcuni artisti che si sono strofinati l’un l’altro nel modo sbagliato, ed esattamente nel modo giusto, al momento giusto: I Nirvana.
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