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Karl Liebknecht: Autodeterminazione delle nazioni e autodifesa (1918)

Karl Liebnknecht è stato una delle figure più popolari del movimento operaio internazionale del Novecento, prima come oppositore della guerra e poi come martire. Figlio di Wilhelm, amico e compagno di lotta di Marx e Engels, rimase sempre fedele ai principi antimilitaristi e internazionalisti del socialismo. Nel 1907 fu condannato a 18 mesi di carcere per alto tradimento per il suo opuscolo intitolato Militarismo e antimilitarismo. Nel dicembre 1914 Karl Liebknecht fu l’unico deputato della socialdemocrazia tedesca a votare contro i “crediti di guerra”. Nel 1913 in un profetico intervento in parlamento aveva enunciato i pericoli che correva l’Europa: “Nell’interesse del mantenimento della pace, nell’interesse della promozione degli sforzi che debbono impedire che per una simile folle politica di prestigio l’Europa sia trascinata in una guerra, è necessario ancora una volta additare a tutto il mondo quelle cricche capitalistiche il cui interesse ed il cui nutrimento sono la discordia tra i popoli, i conflitti tra i popoli, la guerra; è necessario gridare ai popoli: la patria è in pericolo! Ma non è in pericolo per via del nemico esterno, ma per via di quel minaccioso nemico interno, soprattutto per via dell’industria internazionale degli armamenti”. Fondò con Rosa Luxemburg la Lega di Spartaco. Come Rosa finì in prigione. Fu arrestato dopo aver gridato “Abbasso la guerra! Abbasso il governo!” in un comizio illegale della Lega di Spartaco il 1 maggio 1916 a Berlino. Il 28 giugno 1916 55.000 metalmeccanici di Berlino scioperarono per protestare contro la sua condanna a due anni e mezzo di prigione. Fu il primo sciopero di protesta di massa della Germania durante la Prima Guerra Mondiale. Schierato dalla parte dei bolscevichi nel 1918 fu tra i fondatori del Partito Comunista Tedesco. Fu assassinato il 19 gennaio 1919 dai paramilitari proto-nazisti agli ordini del governo socialdemocratico. Questo articolo fu pubblicato sul giornale newyorkese The Class Struggle nel 1918. 

“Ma, dal momento che non siamo stati in grado di prevenire la guerra, dal momento che è arrivata nonostante noi, e il nostro Paese sta affrontando l’invasione, lasceremo il nostro Paese indifeso? Lo consegneremo nelle mani del nemico? Il socialismo non rivendica forse il diritto delle nazioni a determinare il proprio destino? Non significa forse che ogni popolo è giustificato, anzi, in dovere di proteggere le proprie libertà, la propria indipendenza? Quando la casa va a fuoco, non dovremmo innanzitutto cercare di spegnere le fiamme prima di fermarci ad accertare l’incendiario?”.

Questi argomenti sono stati ripetuti, sempre in difesa dell’atteggiamento della socialdemocrazia, in Germania e in Francia. E anche nei Paesi neutrali hanno avuto un ruolo importante nelle discussioni.

Ma c’è una cosa che il pompiere sulla casa in fiamme ha dimenticato: che nella bocca di un socialista la frase “difendere la patria” non può significare giocare il ruolo di carne da cannone sotto il comando di una borghesia imperialista.

Un’invasione è davvero l’orrore di tutti gli orrori, davanti al quale tutti i conflitti di classe all’interno del paese devono placarsi come se fossero incantati da qualche stregoneria soprannaturale? La storia della società capitalista moderna non ha forse dimostrato che, agli occhi della società capitalista, l’invasione straniera non è affatto il terrore assoluto come viene generalmente dipinta; al contrario, è una misura a cui la borghesia ha spesso e volentieri fatto ricorso come arma efficace contro il nemico interno? I Borboni e gli aristocratici francesi non hanno forse invitato l’invasione straniera contro i giacobiti? La controrivoluzione austriaca del 1849 non ha forse invocato l’invasione francese contro Roma, quella russa contro Budapest? Il “Partito della legge e dell’ordine” in Francia, nel 1850, non minacciò forse apertamente un’invasione di cosacchi per far scendere a patti l’Assemblea nazionale?

E l’esercito bonapartista non fu forse liberato e l’appoggio dell’esercito prussiano contro la Comune di Parigi fu assicurato dal famoso contratto tra Jules Favre, Thiers e Co. e Bismark? Questa evidenza storica ha portato Karl Marx, 45 anni fa, a smascherare le “guerre nazionali” della moderna società capitalista come miserabili frodi. Nel suo famoso discorso al Consiglio Generale dell’Internazionale sulla caduta della Comune di Parigi, disse:

“Il fatto che, dopo la più grande guerra dei tempi moderni, gli eserciti belligeranti, il vincitore e il vinto, si uniscano per massacrare reciprocamente il proletariato – questo incredibile evento dimostra, non come Bismark vorrebbe farci credere, il rovesciamento finale del nuovo potere sociale – ma la completa disintegrazione della vecchia società borghese. La più alta realizzazione eroica di cui il vecchio ordine è capace è la guerra nazionale. E questa si è rivelata una frode perpetrata dal governo con l’unico scopo di allontanare le lotte di classe, una frode che viene smascherata non appena la lotta di classe esplode in una guerra civile. Il dominio di classe non può più nascondersi dietro un’uniforme nazionale. I governi nazionali sono uniti contro il proletariato”.

Nella storia del capitalismo, invasione e lotta di classe non sono opposte, come vorrebbe la leggenda ufficiale, ma l’una è il mezzo e l’espressione dell’altra. Come l’invasione è la vera e provata arma nelle mani del capitale contro la lotta di classe, così d’altra parte il perseguimento senza paura della lotta di classe si è sempre dimostrato il mezzo più efficace per prevenire le invasioni straniere. Alle soglie dei tempi moderni ci sono gli esempi delle città italiane, Firenze e Milano, con il loro secolo di aspra lotta contro gli Hohenstaufen. La storia tempestosa di queste città, dilaniate da conflitti interni, dimostra che la forza e la furia delle lotte di classe interne non solo non indeboliscono i poteri difensivi della comunità, ma che al contrario, dai loro fuochi, scaturiscono le uniche fiamme abbastanza forti da resistere a ogni attacco di un nemico straniero.

Ma l’esempio classico dei nostri tempi è la grande Rivoluzione francese. Nel 1793 Parigi, il cuore della Francia, era circondata da nemici. Eppure Parigi e la Francia di allora non soccombettero all’invasione di una tempestosa marea di coalizioni europee; al contrario, saldarono le proprie forze di fronte al crescente pericolo, per un’opposizione più gigantesca. Se la Francia, in quel momento critico, fu in grado di rispondere a ogni nuova coalizione del nemico con un nuovo miracoloso e immutato spirito combattivo, fu solo grazie all’impetuoso allentamento delle forze più profonde della società nella grande lotta delle classi francesi. Oggi, nella prospettiva di un secolo, è chiaramente percepibile che solo questa intensificazione della lotta di classe, che solo la dittatura del popolo francese e il suo impavido radicalismo potevano produrre dal suolo di Francia mezzi e forze sufficienti a difendere e sostenere una società appena nata contro un mondo di nemici, contro gli intrighi di una dinastia, contro le macchinazioni traditrici degli aristocratici, contro i tentativi del clero, contro il tradimento dei loro generali, contro l’opposizione di sessanta dipartimenti e capoluoghi di provincia, contro gli eserciti e le marine unite dell’Europa monarchica.

I secoli hanno dimostrato che non lo stato di assedio, ma l’incessante lotta di classe è la forza che risveglia lo spirito di sacrificio, la forza morale delle masse, che la lotta di classe è la migliore protezione e la migliore difesa contro un nemico straniero.

È vero che il socialismo dà a ogni popolo il diritto all’indipendenza e alla libertà, al controllo indipendente dei propri destini. Ma è una vera e propria perversione del socialismo considerare l’attuale società capitalista come l’espressione di questa autodeterminazione delle nazioni. Dov’è una nazione in cui il popolo ha avuto il diritto di determinare la forma e le condizioni della sua esistenza nazionale, politica e sociale? In Germania la determinazione del popolo ha trovato espressione concreta nelle richieste formulate dai democratici rivoluzionari tedeschi del 1848, i primi combattenti del proletariato tedesco, Marx, Engels, Lassalle, Bebel e Liebknecht, hanno proclamato e lottato per una Repubblica tedesca unita. Per questo ideale le forze rivoluzionarie di Berlino e Vienna, in quei tragici giorni di marzo, versarono il loro sangue sulle barricate. Per realizzare questo programma Marx ed Engels chiesero che la Prussia prendesse le armi contro lo zarismo. La richiesta principale del programma nazionale era la liquidazione di quel cumulo di decadenza organizzata, la monarchia asburgica, e di altre due dozzine di monarchie nane all’interno della stessa Germania. Il rovesciamento della rivoluzione tedesca, il tradimento della borghesia tedesca dei suoi stessi ideali democratici, ha portato al regime di Bismark e alla sua creatura, l’attuale Grande Prussia, venticinque patrie sotto un unico timone, l’Impero tedesco. La Germania moderna è costruita sulla tomba della Rivoluzione di marzo, sul relitto del diritto di autodeterminazione del popolo tedesco. L’attuale guerra, che sostiene la Turchia e la monarchia asburgica e rafforza l’autocrazia militare tedesca, è una seconda sepoltura dei rivoluzionari di marzo e del programma nazionale del popolo tedesco. È un diabolico scherzo della storia che i socialdemocratici, eredi dei patrioti tedeschi del 1848, vadano in questa guerra con la bandiera dell'”autodeterminazione delle nazioni” in mano. Ma forse la terza Repubblica francese, con i suoi possedimenti coloniali in forma e i suoi orrori coloniali in due continenti, è l’espressione dell’autodeterminazione della nazione francese. O la nazione britannica, con la sua India, con il suo dominio sudafricano di un milione di bianchi su una popolazione di cinque milioni di persone di colore. O forse la Turchia, o l’Impero dello Zar.

I politici capitalisti, ai cui occhi i governanti del popolo e le classi dominanti sono la nazione, possono onestamente parlare di “diritto di autodeterminazione nazionale” in relazione a tali imperi coloniali. Per il socialista non è libera nessuna nazione la cui esistenza nazionale si basa sull’asservimento di un altro popolo, perché per lui anche i popoli coloniali sono popoli e, in quanto tali, parti dello Stato nazionale. Il socialismo internazionale riconosce il diritto di nazioni libere e indipendenti, con uguali diritti. Ma solo il socialismo può portare all’autodeterminazione dei loro popoli. Questo slogan del socialismo, come tutti gli altri, non è un’apologia delle condizioni esistenti, ma una guida, uno stimolo per la politica rivoluzionaria, ricreativa e attiva del proletariato. Finché esisteranno gli Stati capitalisti, cioè finché le politiche imperialistiche mondiali determineranno e regoleranno la vita interna ed esterna di una nazione, non ci potrà essere “autodeterminazione nazionale” né in guerra né in pace.

Nell’attuale contesto imperialistico non ci possono essere guerre di autodifesa nazionale. Ogni politica socialista che dipenda da questo ambiente storico determinante, che voglia fissare le proprie politiche nel vortice mondiale dal punto di vista di una singola nazione, è costruita su fondamenta di sabbia.

In una discussione sulle cause generali della guerra e sul suo significato, la questione del “colpevole” è completamente fuori tema. La Germania non ha certo il diritto di parlare di guerra di difesa, ma Francia e Inghilterra non hanno molte altre giustificazioni. Anche loro stanno proteggendo, non la loro esistenza politica nazionale, ma mondiale, i loro vecchi possedimenti imperialistici dagli attacchi dell’emergente tedesco. Senza dubbio le incursioni dell’imperialismo tedesco e austriaco in Oriente hanno dato il via alla conflagrazione, ma l’imperialismo francese, divorando il Marocco, e i tentativi inglesi di violentare la Mesopotamia, e tutte le altre misure calcolate per assicurarsi il dominio della forza in India, la politica russa sul Baltico, puntando su Costantinopoli, tutti questi fattori hanno unito e ammassato, marca per marca, la legna che ha alimentato la conflagrazione. Se gli armamenti capitalistici hanno giocato un ruolo importante come molla di quel marchio, lo scenario della catastrofe è stato una competizione di armamenti in tutte le nazioni. 

Se con la politica di Bismark del 1870 la Germania pose la prima pietra per gli armamenti competitivi europei, questa politica fu portata avanti da quella del secondo Impero e dalle politiche militari coloniali del terzo Impero, con la sua espansione in Asia orientale e in Africa.

I socialisti francesi avevano qualche piccolo fondamento per la loro illusione di “difesa nazionale”, perché né il governo né il popolo francese nutrivano il minimo desiderio di guerra nel luglio del 1914. “Oggi tutti in Francia sono onestamente, giustamente e senza riserve per la pace”, insistette Jaures nell’ultimo discorso della sua vita, alla vigilia della guerra, quando si rivolse a una riunione della Casa del Popolo a Bruxelles. Questo era assolutamente vero e fornisce la spiegazione psicologica dell’indignazione dei socialisti francesi quando questa guerra criminale fu imposta al loro Paese. Ma questo fatto non era sufficiente a determinare la posizione socialista nei confronti della guerra mondiale come evento storico.

L’imperialismo non è la creazione di uno o di un gruppo di Stati. È il prodotto di un particolare stadio di maturazione nello sviluppo mondiale del capitale, una condizione innatamente internazionale, un insieme indivisibile, riconoscibile solo nelle sue relazioni, da cui nessuna nazione può volontariamente ritirarsi. Solo da questo punto di vista è possibile comprendere correttamente la questione della “difesa nazionale” nella guerra attuale.

Supponiamo per un momento, per amor di discussione, allo scopo di indagare su questo fantasma delle “guerre nazionali” che controlla la politica socialdemocratica in questo momento, che in uno degli Stati belligeranti la guerra allo scoppio fosse puramente di difesa nazionale. Il successo militare richiederebbe immediatamente l’occupazione di territori stranieri. Ma l’esistenza di influenti gruppi capitalistici, interessati ad annessioni imperialistiche, risveglierà gli appetiti espansionistici man mano che la guerra prosegue. La tendenza imperialistica che, all’inizio delle ostilità, poteva esistere solo in embrione, crescerà e si espanderà nell’atmosfera di guerra fino a determinare, in breve tempo, il suo carattere, i suoi obiettivi e i suoi risultati. Inoltre, il sistema di alleanze tra Stati militari che ha governato le relazioni politiche di queste nazioni per decenni in passato, rende inevitabile che ciascuna delle parti belligeranti, nel corso della guerra, cerchi di portare i propri alleati in suo aiuto, sempre per motivi di pura autodifesa. Così un Paese dopo l’altro viene trascinato in guerra, inevitabilmente si toccano nuovi circoli imperialistici e se ne creano altri.

Così l’Inghilterra ha attirato il Giappone e, estendendo la guerra all’Asia, ha portato la Cina nel cerchio dei problemi politici e ha influenzato la rivalità esistente tra Giappone e Stati Uniti, tra Messico e Giappone, accumulando così nuovo materiale per futuri conflitti. Così la Germania ha trascinato la Turchia nella guerra, portando la questione di Costantinopoli, dei Balcani e dell’Asia occidentale direttamente in primo piano. Anche chi non ha capito subito che la guerra mondiale, nelle sue cause, era puramente imperialistica, non può non vedere, dopo una visione spassionata dei suoi effetti, che la guerra, nelle condizioni attuali, si sviluppa automaticamente e inevitabilmente in un processo di divisione del mondo. Questo è stato evidente fin dall’inizio. Il vacillante equilibrio di potere tra le due parti belligeranti costringe ciascuna, anche solo per ragioni militari, al fine di rafforzare la propria posizione o di vanificare eventuali attacchi, a tenere sotto controllo le nazioni neutrali con intensi affari di popoli e nazioni, come le offerte tedesco-austriache all’Italia, alla Romania, alla Bulgaria e alla Grecia da un lato e le offerte russo-inglesi dall’altro. Infine, il fatto che tutti gli Stati capitalisti moderni abbiano possedimenti coloniali che, anche se la guerra può essere iniziata come una guerra di difesa nazionale, saranno trascinati nel conflitto da considerazioni puramente militari, il fatto che ogni Paese cercherà di occupare i possedimenti coloniali del suo avversario, o almeno di creare disordini al suo interno, trasforma automaticamente ogni guerra in una conflagrazione mondiale imperialistica.

Alla luce di tutte queste considerazioni, quale sarà l’atteggiamento pratico della socialdemocrazia nell’attuale guerra? Dichiarerà: poiché questa è una guerra imperialista, poiché non godiamo dell’autodeterminazione socialista, la sua esistenza o non esistenza non ha alcuna importanza per noi e la consegneremo al nemico? Il fatalismo passivo non può mai essere il ruolo di un partito rivoluzionario, come la socialdemocrazia. Non deve mettersi a disposizione dello stato di classe esistente, sotto il comando delle classi dominanti, né può stare in silenzio ad aspettare che la tempesta sia passata. Deve adottare una politica di classe attiva, una politica che faccia avanzare le classi dominanti in ogni grande crisi sociale e che spinga la crisi stessa ben oltre la sua portata originaria. Questo è il ruolo che la socialdemocrazia deve svolgere come leader del proletariato in lotta. Invece di coprire questa guerra imperialistica con il manto bugiardo dell’autodifesa nazionale, la socialdemocrazia avrebbe dovuto chiedere seriamente la lotta per l’autodeterminazione nazionale e usarla come leva contro la guerra imperialistica. Sì, i socialisti dovrebbero difendere il loro Paese nelle grandi crisi storiche. E qui sta la grande colpa del gruppo socialdemocratico tedesco del Reichstag. Quando il 4 agosto ha annunciato: “In quest’ora di pericolo, non abbandoneremo la nostra patria”, ha smentito le sue stesse parole nello stesso istante. Perché in realtà ha abbandonato la patria nell’ora del massimo pericolo. Il più alto dovere della socialdemocrazia nei confronti della patria richiedeva che essa smascherasse il vero retroterra di questa guerra imperialistica, che tendesse la rete di menzogne imperialistiche e diplomatiche che coprono gli occhi del popolo. Era suo dovere parlare forte e chiaro, proclamare al popolo tedesco che in questa guerra la vittoria e la sconfitta sarebbero state ugualmente fatali, opporsi all’imbavagliamento della patria con lo stato di assedio, chiedere che fosse solo il popolo a decidere sulla guerra e sulla pace, chiedere una sessione permanente del Parlamento, per il periodo della guerra,assumere un controllo vigile sul governo da parte del parlamento e sul parlamento da parte del popolo, chiedere l’immediata rimozione di tutte le disuguaglianze politiche, poiché solo un popolo libero può governare adeguatamente il proprio Paese, e infine opporsi alla guerra imperialista, basata com’era sulle forze più reazionarie d’Europa, con il programma di Marx, di Engels e di Lassalle.

La grande ora storica della guerra mondiale richiedeva ovviamente una realizzazione politica unanime, un atteggiamento ampio e inclusivo che solo la socialdemocrazia è destinata a dare. Invece è seguito, da parte dei rappresentanti parlamentari della classe operaia, un misero crollo.
La socialdemocrazia non ha adottato una politica sbagliata, ma non ha avuto alcuna politica. Si è completamente cancellata come partito di classe con una propria concezione del mondo, ha consegnato il Paese, senza una parola di protesta, a un destino di guerra imperialistica all’esterno, alla dittatura della spada all’interno. Anzi, di più, ha preso sulle proprie spalle la responsabilità della guerra. La dichiarazione del “gruppo del Reichstag” dice: “Abbiamo votato solo i mezzi per la difesa del nostro Paese. Decliniamo ogni responsabilità per la guerra”. Ma in realtà la verità va esattamente nella direzione opposta. La socialdemocrazia non ha votato i mezzi per la “difesa nazionale”, cioè per la macelleria imperialistica di massa da parte delle forze armate della monarchia militare. L’utilizzo dei crediti di guerra non dipendeva affatto dalla socialdemocrazia. Essa, come minoranza, si opponeva a una maggioranza compatta di tre quarti del Reichstag capitalistico. Il gruppo socialdemocratico ha ottenuto un solo risultato votando a favore dei crediti di guerra.

Ha dato alla guerra l’impronta della difesa democratica della patria, ha appoggiato e sostenuto le finzioni propagandate dal governo sulle reali condizioni e sui problemi della guerra.

“Ma quale azione avrebbe dovuto intraprendere il partito per dare peso ed enfasi alla nostra opposizione alla guerra e alle nostre richieste di guerra? Avrebbe dovuto proclamare uno sciopero generale? Avrebbe dovuto invitare i soldati a rifiutare il servizio militare? Così viene generalmente posta la domanda. Rispondere con un semplice sì o un no è ridicolo come decidere che “quando scoppierà la guerra faremo la rivoluzione”. Le rivoluzioni non si “fanno” e i grandi movimenti di popolo non si producono secondo ricette tecniche che risiedono nelle tasche dei leader di partito. Piccoli circoli di cospiratori possono organizzare una rivolta per un certo giorno e una certa ora, possono dare al loro piccolo gruppo di sostenitori il segnale di inizio. I movimenti di massa nelle grandi crisi storiche non possono essere avviati con misure così primitive. Lo sciopero di massa meglio preparato può crollare miseramente nel momento stesso in cui i leader del partito danno il segnale, può crollare completamente prima del primo attacco.Il successo dei grandi movimenti popolari dipende, anzi, il momento e la circostanza stessa del loro inizio sono decisi da una serie di fattori economici, politici e psicologici.Il grado di tensione esistente tra le classi, il grado di intelligenza delle masse e il grado di maturazione del loro spirito di resistenza – tutti questi fattori, incalcolabili, sono premesse che non possono essere create artificialmente da nessun partito. Questa è la differenza tra i grandi sconvolgimenti storici e le piccole dimostrazioni che un partito ben disciplinato può fare in tempo di pace, esibizioni ordinate e ben addestrate, rispondendo obbedientemente al bastone nelle mani dei leader del partito. La grande ora storica stessa crea le forme che porteranno il movimento rivoluzionario al successo, crea e improvvisa nuove armi, arricchisce l’arsenale del popolo con armi sconosciute e inaudite dai partiti e dai suoi leader.

Ciò che la socialdemocrazia, in quanto avanguardia del proletariato cosciente della classe, avrebbe dovuto essere in grado di dare non erano ridicoli precetti e ricette tecniche, ma uno slogan politico, una chiarezza sui problemi politici e sugli interessi del proletariato in tempo di guerra. 

“Le masse avrebbero sostenuto la socialdemocrazia nel suo atteggiamento contro la guerra?”. È una domanda a cui nessuno può rispondere. Ma non è nemmeno importante. I nostri parlamentari hanno forse preteso una garanzia assoluta di vittoria dai generali dell’esercito prussiano prima di votare a favore dei crediti di guerra? Ciò che è vero per gli eserciti militari è altrettanto vero per gli eserciti rivoluzionari. Essi vanno a combattere, ovunque la necessità lo richieda, senza una precedente garanzia di successo. Nel peggiore dei casi, il partito sarebbe stato condannato, nei primi mesi di guerra, all’inefficacia politica. Non avrebbe ottenuto nulla se non salvare l’onore del proletariato; e migliaia e migliaia di proletari che stanno morendo in trincea nell’oscurità mentale, non sarebbero morti nella confusione spirituale, ma con l’unica certezza che ciò che è stato tutto nella loro vita, l’Internazionale, la socialdemocrazia liberatrice, è stato più che il frutto di un sogno.

La voce del nostro partito avrebbe agito come una coperta bagnata sull’intossicazione sciovinista delle masse. Avrebbe preservato il proletariato intelligente dal delirio, avrebbe reso più difficile all’imperialismo avvelenare e narcotizzare le menti del popolo.

E man mano che la guerra andava avanti, man mano che l’orrore del massacro e dello spargimento di sangue senza fine in tutti i paesi cresceva, man mano che il suo zoccolo duro imperialistico diventava sempre più evidente, man mano che lo sfruttamento degli speculatori assetati di sangue diventava sempre più spudorato, ogni elemento vivo, onesto, progressista e umano nelle masse si sarebbe radunato intorno al vessillo della socialdemocrazia. La socialdemocrazia tedesca sarebbe rimasta in piedi, in mezzo a questo folle vortice di crollo e decadenza, come uno scoglio in un mare in tempesta, sarebbe stata il faro di tutta l’Internazionale, guidando e dirigendo i movimenti operai di ogni paese della terra. L’impareggiabile prestigio morale che era nelle mani dei socialisti tedeschi avrebbe reagito in breve tempo sui socialisti di tutte le nazioni. I sentimenti di pace si sarebbero diffusi a macchia d’olio e la richiesta popolare di pace in tutti i Paesi avrebbe accelerato la fine del massacro, diminuendo il numero dei suoi ritorni.

In verità questo era un compito non indegno dei discepoli di Marx, Engels e Lassalle.

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