Visto che in Europa ci troviamo di nuovo ad avere a che fare con la crescita delle estreme destre e con la guerra giova rileggere la storia degli anni ’30. Nel 1935 Dimitrov e Togliatti riuscirono a modificare la linea dell’Internazionale comunista. Lo raccontava Renato Zangheri in questo articolo uscito su L’Unità il 18 giugno 1982. Segnalo che dal carcere Gramsci e Terracini avevano anticipato quella indicazione strategica.
La collaborazione e l’intesa fra Dimitrov e Togliatti furono particolarmente strette all’epoca del VII congresso, nello spirito della svolta che venne allora impressa agli indirizzi dell’Internazionale. A Togliatti venne affidato, com’è noto, il rapporto su «La preparazione di una nuova guerra mondiale da parte degli imperialisti e i compiti dell’I.C.». Egli intervenne attivamente nella preparazione del congresso e poi nell’attuazione delle sue direttive. Così Dimitrov trattò dei problemi della pace, nel suo rapporto generale e dopo. Per l’Internazionale comunista quei tempi furono soprattutto di analisi dei pericoli di guerra, di allarme per le minacce portate specialmente dal governo nazista all’Urss, di mobilitazione dei partiti comunisti in una lotta che doveva trovare obiettivi e alleati nuovi, estendendosi oltre i confini abbastanza ristretti entro cui si erano mossi fino a pochi mesi prima i partiti comunisti.
Dimitrov afferma nel suo rapporto al congresso che dalla crisi del capitalismo la borghesia dominante cerca sempre più di salvarsi affidandosi al fascismo, «al fine di ottenere più dure misure per derubare i lavoratori, preparare una guerra imperialistica rapace, aggredire l’Unione Sovietica, soggiogare e spartire la Cina e, in tal modo, prevenire la rivoluzione». Dovunque, a Roma, a Varsavia, a Berlino, nella varietà delle sue forme, il fascismo si presenta come il più feroce nemico dei lavoratori, esso è «lo sciovinismo sfrenato e la guerra di conquista». Per sconfiggerlo, sostiene Dimitrov, è necessario costruire non solo dal basso il fronte unico della classe operaia e sulla sua base dar vita ad un largo fronte popolare antifascista.
Sono posizioni conosciute, per il coraggioso superamento di precedenti «ristrettezze settarie» ed anche per il difetto di tendere a fondare la proposta unitaria, indubbiamente innovatrice, su una sostanziale assimilazione dei caratteri dei partiti comunisti, piuttosto che sulla ricerca di punti inediti e duraturi d’incontro con l’Internazionale socialista e con i partiti socialisti. È significativa da questo punto di vista l’insistenza con cui Dimitrov e Togliatti parlano di una continuità con le tesi del VI congresso e di rettifiche semplicemente tattiche, anche se sembra evidente il tentativo loro di far passare i cambiamenti riducendone l’apparenza di novità, a causa delle resistenze presenti nelle file dell’Internazionale e nello stesso congresso, e sebbene Togliatti avesse insistito nella fase di preparazione sulla necessità dell’autocritica, sugli elementi di mutamento.
Era “effettivamente accaduto” che in Francia, in Spagna ed anche altrove, seppure con minore successo, i partiti comunisti avevano cominciato a muoversi in modo nuovo, e Dimitrov non aveva mancato di rilevarlo nel suo rapporto. Si pervenne così all’affermazione che «compito principale e più immediato» era di «stabilire la unità d’azione fra tutte le parti della classe operaia nella lotta contro il fascismo», liquidando «la cieca, letterale adesione a formule e a decisioni ormai vecchie concernenti la socialdemocrazia», cioè l’adesione alla formula del socialfascismo. E si stabilì che compito dei comunisti era «salvare il mondo dalla barbarie fascista e dagli orrori della guerra imperialista».
Toccò, ripeto, al compagno Togliatti sviluppare questo tema, nel quadro dell’impostazione generale data da Dimitrov. Il rapporto di Togliatti è altrettanto denso di analisi concrete della situazione e di riferimenti alla dottrina, che gli aprono la via ad una serie di affermazioni sicuramente rinnovatrici. I pericoli di guerra, anzitutto, sono esaminati con attenzione. La crisi ha accentuato le disuguaglianze dello sviluppo capitalistico. Le restrizioni dei mercati interni spingono ad una lotta sempre più acuta per i mercati esteri. La concentrazione monopolistica accentua l’aggressività della borghesia. «In ogni paese, gli elementi più reazionari della borghesia si orientano verso la guerra. La guerra è considerata da questi elementi come il mezzo migliore e, a un certo momento, come l’unico mezzo per uscire dalle difficoltà create dalla crisi».
Si pone a questo punto la domanda decisiva. È possibile impedire la guerra? Dalla società capitalistica non può che venire la guerra. Ma la «lotta per la pace non è una lotta disperata». Appoggiandosi sulla forza dell’Unione Sovietica essa «ha tutte le possibilità di successo». Questa affermazione nuova, sconosciuta, riceve qua e là nel rapporto di Togliatti qualche temperamento: «Difendere la pace — dirà Togliatti — per quanto sia possibile». E più avanti:
«Fino a quando la nostra lotta per la pace potrà continuare e continuerà, noi non possiamo prevederlo, nessuno può
prevederlo. Forse un anno, forse di più, forse qualche mese ». L’incertezza coesiste con la fiducia.
È necessario, sostiene Togliatti, «dare alla nostra lotta per la pace il più largo respiro e un carattere veramente popolare» e annovera nel fronte dello lotta per la pace non soltanto l’avanguardia della classe operaia, ma le masse dei lavoratori socialdemocratici, dei pacifisti, dei cattolici, delle donne, della gioventù, delle minoranze nazionali minacciate, «persino quei governi che in questo momento sono interessati al mantenimento della pace».
NON c’è però niente nella sostanza di queste posizioni che non fosse già nel rapporto introduttivo, se non una maggiore nettezza, come molto chiara è l’opinione di Dimitrov sulla possibilità e necessità di creare «un ampio fronte antimilitarista» che comprenda i «popoli di tutti i paesi».
Non escludo che esitazioni siano presenti in questa o quella formulazione, ma mi sembra inequivocabile il senso di novità dell’affermazione di una possibilità di evitare la guerra contenuta nei rapporti di Dimitrov e di Togliatti. È una novità radicale, seppure non ancora fondata su una argomentazione teorica ampia.
D’altra parte le esitazioni e gli interrogativi sulla effettiva possibilità di evitare il conflitto, se vi furono, trovavano non dico giustificazione ma spiegazione nell’estremo pericolo della situazione internazionale in quell’anno 1935. La guerra era imminente, in alcune parti del mondo già iniziata. Lo stato della mobilitazione delle forze della pace era ancora arretrato, nonostante i risultati positivi raggiunti in alcuni paesi, come la Francia e l’Inghilterra. Il settarismo nel movimento operaio, aveva detto Dimitrov, non era più una malattia infantile, ma spesso un vizio profondamente radicato. L’Internazionale, probabilmente, era giunta tardi, dopo un lungo periodo di chiusura e di reale sottovalutazione del pericolo. E anche da rilevare che all’apertura dell’impostazione non seguì probabilmente una corrispondente ampiezza di collegamento con gli altri partiti operai, con le masse cattoliche. L’eco delle repressioni condotte sotto la direzione di Stalin dovette inoltre danneggiare la ricerca di contatti e di intese con parti notevoli dell’opinione pubblica mondiale, mentre nella stessa Internazionale si instaurava un clima non democratico.
TUTTO questo non tolse alle conclusioni del VII congresso, come ha scritto G. Amendola, una loro «efficacia liberatrice». La stessa corrispondenza della politica di pace e della difesa dell’Urss, affermata al VII congresso, e che si è voluta presentare e condannare come manifestazione di «stalinismo», derivava dalla situazione mondiale che vedeva l’Urss accerchiata e minacciata dal fascismo. Se non fu evitata la guerra, prese però slancio dal VII congresso, il giudizio è ancora di Amendola, una nuova politica dei partiti comunisti, che ebbe una importanza primaria per la vittoria della coalizione mondiale antifascista.
La lotta per la pace si svolge oggi in condizioni profondamente diverse e sarebbe antistorico trasferire tesi e posizioni del VII congresso ai nostri giorni. Resta l’insegnamento della capacità di rinnovarsi, di tenere conto delle condizioni reali, di spezzare incrostazioni dogmatiche e settarie, di aprire la via dell’incontro dei comunisti con tutte le forze operaie e pacifiste. È un insegnamento permanentemente valido.
Renato Zangheri è stato un dirigente del Partito Comunista Italiano che da sindaco di Bologna dovette gestire la fase di scontro durissimo che contrappose il movimento del 1977 al partito comunista. Di lui si ricordano gli slogan dell’ala creativa, ecc. Era anche un grande storico e questo si tende a dimenticarlo. Quando morì Franco Berardi Bifo che era stato il più noto esponente del movimento bolognese gli dedicò un articolo molto bello e profondo su il manifesto l’8 agosto 2015 che vi ripropongo. L’incomprensione tra la generazione di Zangheri e quella di Bifo aveva uno dei passaggi decisivi proprio in quel 1935 quando si cominciò a delineare quella strategia dei fronti popolari e dell’antifascismo che preparò la Resistenza europea.
Quando si poteva litigare
La morte di Renato Zangheri, intellettuale, storico ed economista che fu anche sindaco della città di Bologna, mi rattrista per ovvie ragioni umane, ma anche perché sono costretto a paragonare l’epoca presente con quella in cui io e tanti altri litigammo con Zangheri.
Litigammo per tutti gli anni Settanta, a Bologna come altrove, ma forse a Bologna più spesso, dato che la città in quegli anni sembrava un teatro nel quale confrontare idee. Con Zangheri, e con altri dirigenti del Partito comunista italiano, era possibile litigare, discutere, accapigliarsi, perché erano portatori di un pensiero. Nell’epoca presente il confronto con i politici di governo è reso impossibile dal fatto che essi non sono portatori di alcun pensiero. La politica è oggi mera applicazione di regole matematiche scritte dal sistema finanziario.
Se penso a colui che fu sindaco di Bologna nella seconda parte degli anni Settanta e si trovò quindi a fronteggiare la rivolta degli studenti e dei giovani proletari, il primo ricordo che mi viene in mente non è un bel ricordo.
Nel marzo del 1977, rivolgendosi alle forze di polizia mandate dal ministro degli interni Francesco Cossiga, Zangheri disse: «Siete in guerra e non si critica chi è in guerra».
Nei giorni precedenti le forze dell’ordine avevano ucciso uno studente di medicina di nome Francesco Lorusso sparandogli alle spalle, avevano occupato la zona universitaria con i mezzi corazzati, avevano arrestato trecento persone e avevano chiuso una radio libera distruggendone i locali.
Non c’era niente da criticare? Forse sì, ma quella era la politica del compromesso storico cui Zangheri si piegò.
Lo scontro tra il movimento autonomo e il Pci raggiunse il suo culmine nel 1977, e vide Zangheri assumere un ruolo centrale nella polemica, forse suo malgrado. In quello scontro si scontravano due visioni del futuro, anche se ne eravamo solo confusamente consapevoli.
Non credo che abbia senso chiedersi: chi aveva ragione nel 1977? Il partito comunista o il movimento autonomo? Non ha senso perché la storia non funziona in quella maniera. Mentre cerchi una soluzione per il problema, il problema è cambiato, e gli attori sono scomparsi e quelli nuovi hanno altro cui pensare.
Eppure il senso generale della polemica di quegli anni oggi si potrebbe riassumere cosi: il movimento autonomo pensava che lo scatenamento delle forze sociali è un fatto positivo, perché innesca una dinamica liberatoria della cultura, della tecnologia, della sperimentazione. Il partito comunista pensava che lo scatenamento è pericoloso e va represso perché la società va governata dalla razionalità della politica.
Credo che il devastante trionfo del neoliberismo, negli anni immediatamente successivi, nasca proprio dal fatto che lo scatenamento era inevitabile e pieno di potenzialità positive, ma fummo incapaci di fare del movimento operaio l’interprete politico consapevole dello scatenamento delle forze sociali desideranti.
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