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Israele, Palestina e PCI. Una lettera di Terracini e la risposta di Pajetta (1969)

Sto leggendo la fondamentale biografia di Umberto Terracini dello storico Claudio Rabaglino. Mi sono imbattuto nella citazione, in una nota, di una lettera che il dirigente comunista scrisse a L’Unità e che fu pubblicata con una risposta del direttore Gian Carlo Pajetta il 25 luglio 1969 col titolo “Il nostro giornale e il Medio Oriente“. Ve la ripropongo perchè la questione rimane purtroppo tragicamente attuale. Il dialogo tra questi due leggendari dirigenti comunisti italiani si aggiunge a altri reperti storici che sto pubblicando su questo blog relativi al conflitto israeliano-palestinese e al dibattito che ha attraversato la sinistra internazionale in anni ormai lontani (Herbert Marcuse, Paul Sweezy – Leo HubermanIsaac DeutscherAlbert Einstein). Su Terracini ho scritto un profilo che spero stimoli la lettura della biografia. 

Caro Direttore,

nel leggere il testo del discorso pronunciato dal compagno Berlinguer alla Conferenza di Mosca avevo constatato come egli, cosa d’altronde ovvia, avesse in quella sede ribadito la posizione assunta e sempre mantenuta anche nei documenti ufficiali dal nostro Partito sulla questione del Medio-Oriente. Essa, come è noto, condanna l’iniziativa aggressiva israeliana del giugno 1967, chiede il ritiro delle truppe nei confini anteriori all’ultimo conflitto e dichiara il diritto di tutti gli Stati, compreso quindi Israele, all’esistenza entro confini sicuri e riconosciuti. Berlinguer disse testualmente: «Devono essere reintegrati i diritti dei popoli arabi, fermo restando il diritto all’esistenza di Israele come Stato sovrano, vincolato a un regime di pacifica convivenza e di sicurezza collettiva. In questa prospettiva, che è implicita nella risoluzione dell’ONU del 22-11-67, occorre operare per l’integrale riconoscimento dei diritti del popolo arabo-palestinese, da venti anni privato della sua esistenza nazionale».
Questa posizione del Partito tiene presente dunque il diritto all’autonomia nazionale sia del popolo arabo-palestinese, sia del popolo ebraico, questo ultimo storicamente espresso nella forma specifica dello Stato di Israele. Questo Stato è nato di fatto dall’autodeterminazione di quella parte degli ebrei che, date le condizioni storiche in cui erano venuti a ritrovarsi, si ricostituirono in nazione e di essa ottennero, lottando, il pieno riconoscimento giuridico secondo il Diritto Internazionale. Questi ebrei sono oggi uniti non solo da legami religiosi, ma anche e soprattutto da una comune esperienza secolare che li ha visti sparsi in altre società nazionali, ma non dissolti quanto a cultura, a tradizioni, e per certi versi, anche nei confronti della lingua.
Contestare la validità di questo processo significherebbe andare contro il principio del riconoscimento delle nazionalità e della loro autodeterminazione, come sì vorrebbe ora fare, e noi lo biasimiamo, per il popolo arabo palestinese negando agli ebrei un loro Stato sovrano, nel quale essi possano sviluppare ulteriormente e liberamente la loro cultura, la loro lingua, la loro tradizione, nel quadro di una politica autonoma rispetto alle nazioni circostanti.
Eppure spesso la stampa del Partito, quanto meno l’Unità, si atteggia in questo modo, negando con le più diverse motivazioni la legittimità sul piano del Diritto Internazionale di uno Stato ebraico e  sul piano storico-politico i suoi titoli all’esistenza.


Tanto per citarti qualche esempio, il compagno Romano Ledda, sull’Unità del 30 11-68, esprimeva l’idea che proprio la natura ebraica dello Stato di Israele, gli precluderebbe la possibilità di una pacifica coesistenza con i popoli arabi della zona. E il compagno Piero Della Seta, sull’Unità del 6 febbraio 1969, non vedeva altra soluzione della crisi del Medio Oriente all’infuori della creazione in una prospettiva immediata di uno Stato binazionale (ma allora esiste dunque una Nazione ebraica!).
Per il compagno Alberto Jacoviello, poi, (vedi l’Unità del 17 febbraio 1969) gli israeliani non sono in Palestina che degli stranieri, degli occupanti, che egli paragona addirittura agli americani nel Vietnam.
A sua volta il compagno Arminio Savioli (vedi Unità del 24-6-’60) abbraccia in pieno la tesi di Al Fath della soppressione dello Stato ebraico, da sostituirsi con uno Stato palestinese nel cui nome dovrebbe scomparire ogni richiamo a Israele.
Ora tutto ciò, a parte gli errori di fondo, si traduce data la situazione esistente, nella prospettazione quasi auspicata di una soluzione di forza della crisi del Medio Oriente, poiché contro tali obiettivi si schiererebbe ovviamente la quasi totalità degli Israeliani, comprese le sinistre. No, noi non siamo neanche nel Medio Oriente per una guerra permanente tra quei popoli, fino alla loro reciproca distruzione! Noi vogliamo e operiamo invece per una soluzione politica della crisi, e cioè per convincere i contendenti a difendere si, i propri inderogabili diritti, ma riconoscendo insieme quelli ugualmente inderogabili degli altri. E questa è senza dubbio la meditata impostazione data dal Partito alla propria politica nei confronti del Medio-Oriente.
E’ bene attenervisi, guardandosi, per seguire nei suoi ghirigori quotidiani il corso degli avvenimenti, da ogni facile inventiva, la quale d’altronde alla lunga non potrebbe resistere alla prova decisiva della storia.
Molto cordialmente.

Umberto Terracini

Caro Terracini, 
prenda prima di tutto atto della tua piena adesione alla politica del nostro Partito sulla complessa questione del Medio Oriente e sulla posizione dello Stato di Israele, la cui politica abbiamo condannato. prima per l’aggressione, poi per l’ostinato rifiuto di ottemperare alle decisioni dell’ONU e, infine, per l’azione repressiva nei territori occupati.
Siamo quindi d’accordo sull’essenziale e si tratta soltanto di vedere se l’Unità è riuscita a fare quello che si è sempre proposta.
L’Unità vuole seguire gli avvenimenti, descrivere, attraverso i suoi inviati, la situazione, non dimenticando le posizioni del partito. Queste posizioni hanno trovato conferma nelle testimonianze dei suoi redattori — e, se vuoi, anche del suo direttore —, che sono stati più volte nei paesi colpiti dalla guerra e ancora oggi sotto la minaccia israeliana e premuti da pesanti tentativi di interferenze imperialistiche.
Credo che in una situazione come questa dobbiamo evitare tutti, una volta accettata la posizione del partito, di tirare — come si diceva una volta — ognuno la coperta dalla sua parte nella interpretazione degli avvenimenti e dell’azione quotidiani. Vale a dire che non dobbiamo lasciarci trascinare dall’emotività, né da differenze di giudizio su questioni opinabili.

Io che considero naturalmente giusto il riconoscimento del diritto alla esistenza di Israele come Stato sovrano nei confini fissati dalle Nazioni Unite nel 1947 non sono però altrettanto certo, come sembri esserlo tu, di alcuni argomenti che usi per confermare questa posizione. Un dibattito sulla autodeterminazione ci porterebbe lontani, se partissimo dalla considerazione che gli immigrati di religione ebraica (successivamente alla costituzione di Israele) sono superiori di numero agli arabi di Palestina che hanno dovuto lasciare le terre in cui erano nati Così, anche l’unità nei confronti della lingua alla quale ti riferìsci solleva in me molti dubbi se penso a quante sono le lingue originarie, dall’arabo all’yiddish, dall’inglese allo spagnolo, che hanno parlato gli immigrati in tutta la loro vita prima di giungere in Israele e di scoprire che la lingua della Bibbia poteva e doveva essere parlata come lingua viva. Una unità linguistica, quindi, almeno alla sua origine, simile a quello che sarebbe stato il latino parlato da una colonia cristiana, come l’avrebbero potuta pensare ai loro tempi i crociati.
Oggi Israele è una realtà come Stato e non è di questo che credo sia essenziale discutere tra noi. Penso che non si possa però parlare del riconoscimento del diritto alla esistenza di Israele come Stato sovrano senza neppure un accenno al danno gravissimo che non solo agli arabi, ma agli ebrei, non solo a coloro che vi abitano, che vi abitavano e che ne costituiscono le nazioni vicine, ma a tutti gli israeliti di ogni parte del mondo, hanno arrecato la politica del sionismo e l’esasperazione sionista nello strutturare il nuovo Stato. Non siamo — lo abbiamo detto chiaramente — per l’eliminazione dello Stato né tanto meno per la distruzione di Israele. Neanche le asprezze polemiche negli articoli che tu citi, ci pare che possano far concludere che il giornale abbia dimenticato questa posizione di principio.
Oggi siamo di fronte all’affermarsi di uno spirito nazionale palestinese, come a una rivendicazione di antichi diritti e insieme a un fatto nuovo.
E’ un elemento importante di differenziazione, senza rottura dell’unità araba, e una forma di superamento di quel panarabismo contro il quale tanti protestavano fino a ieri sottolineandone aspetti religiosi e xenofobi.
La tragicità della situazione, la gravità e le difficoltà delle prospettive ci spingono ad occuparci quotidianamente di queste questioni.
Che in questo o in quell’articolo si ventilino possibilità o si manifestino opinioni anche diverse mi pare naturale, né meno naturale che traspaiano passione e partecipazione quando si scrive della lotta e dei sacrifici delle forze della resistenza.
Se tu mi chiedessi uno schema o quella che io immagino possa essere la soluzione, sarei il primo a dirti che non lo so e che molto dipenderà dallo svolgersi degli avvenimenti: dalla politica degli arabi, certo, ma anche da quella degli israeliani. 
Gli arabi di Palestina affermano il loro diritto e imparano che per realizzarlo devono avere la forza di lottare e insieme trovare il consenso delle forze antimperialistiche e della pace.
Noi, per quello che vale la nostra azione, dobbiamo intanto operare per evitare l’irreparabile, favorire le soluzioni politiche. Siamo intanto di fronte all’occupazione in seguito a un’azione aggressiva, alla persecuzione degli occupanti. alla ribellione nazionale degli abitanti legittimi di questa terra, alla esasperazione dei profughi da oltre vent’anni: ci schieriamo con la resistenza anche se non ci identifichiamo con ogni aspetto della sua politica.
Non voglio proprio difendere ogni riga o ogni espressione di quello che abbiamo scritto. Vorrei soltanto dirti che di certe espressioni (mi riferisco agli articoli di Jacoviello e di Savioli) noi diamo un’ interpretazione differente da quel la che dai tu, esasperandone, a mio parere, la topica. Del resto Al Fatah ha in questi anni, non solo abbandonato, ma persino condannato quelle forme e quelle espressioni propagandistiche e quegli obiettivi politici che tanto danneggiarono gli arabi nel 1967. Non possiamo confonderne la politica con quella che Chiukeiri, dicendo di interpretare i palestinesi, conduceva nel 1957. Sono d’accordo con te che non dobbiamo volere una guerra fra quei popoli * fino alla loro reciproca distruzione», penso che possiamo farlo davvero soltanto se rifiutiamo, nel giudizio della lotta in corso, una posizione di equidistanza impossibile. Dobbiamo essere dalla parte degli arabi (salvaguardando autonomia di giudizio e spirito critico) in modo che sia chiaro per questi popoli che non c’è un problema di religione o di prosecuzione di vecchio spirito colonialista.
Dobbiamo fare in modo che gli israeliani sappiano che la loro ostinazione finirebbe per isolarli, e che il persistervi potrebbe essere per loro il
danno più grave, forse un danno irreparabile.

Gian Carlo Pajetta

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