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E.P. THOMPSON SULLO STALINISMO (1978)

Un brano del grande storico della classe operaia E.P. Thompson da The poverty of theory, 1978.
Non so chi abbia fatto rivivere per primo “l’umanesimo socialista” come motto dell’opposizione comunista libertaria nel 1956, sebbene certamente The New Reasoner lo abbia portato in alcune parti del mondo di lingua inglese. Ma sorse simultaneamente in cento luoghi e su diecimila labbra. Fu espresso da poeti in Polonia, Russia, Ungheria, Cecoslovacchia; dai delegati di fabbrica a Budapest; da militanti comunisti all’ottavo plenum del Partito Polacco; da un premier comunista (Imre Nagy), assassinato per le sue pene. Era sulla bocca delle donne e degli uomini usciti dal carcere e dei parenti e amici di quelli che non sono mai usciti.
Dopo il 4 novembre 1956, quando le forze sovietiche irruppero a Budapest, fu avviata un’azione disciplinare generale attraverso il movimento comunista internazionale: reimporre i controlli disciplinari di Stato o di Partito, ristabilire l’ortodossia ideologica – in effetti, ricostruire , in condizioni mutate, lo stalinismo senza Stalin. Questo avvenne, in circostanze diverse e paesi diversi, con un ritmo diverso e in forme diverse; in un luogo, una palpabile azione di polizia (Nagy fucilato, Tibor Dery incarcerato, militanti antistalinisti dei Consigli Operai di Budapest l’una o l’altra cosa); in un altro luogo, l’espulsione dei ‘revisionisti’, la chiusura dei giornali dissidenti, il ripristino delle più rigide norme staliniste del centralismo democratico. Accanto a questo, naturalmente, c’era un’azione di polizia ideologica. Il ‘nemico principale’ era considerato, non il trotskismo (che era una tendenza subordinata all’ interno dell’opposizione), ma il ‘revisionismo’, i ‘rinnegati’, gli ‘elementi piccolo borghesi’, e il loro virus ideologico era identificato come ‘moralismo’ e come – ‘umanesimo socialista.’
(…) Il nemico principale era l’umanesimo socialista.

(…) L’umanesimo socialista era, soprattutto, la voce di un’opposizione comunista, di una critica totale della pratica e della teoria staliniste (…) Lo stalinismo blocca tutte le uscite dal suo sistema definendo in anticipo ogni possibile uscita come “borghese”. E, ahimè, sotto questo aspetto il trotskismo ha effettivamente rafforzato il sistema intellettuale stalinista, provando le stesse leggende e creando blocchi identici. (…) L’agenda presentata ad ogni generazione è sempre , in buona parte, presentata ad essa dal passato. La “mia” generazione socialista non era “responsabile” del fascismo o dello stalinismo. Li abbiamo trovati già lì quando siamo diventati maggiorenni. Ci siamo occupati del primo e abbiamo trascurato, per troppo tempo, il secondo. Quindi è stato trasmesso, come forse il più grande di tutti i problemi, ai socialisti di oggi.
Dobbiamo distinguere – come con tutti questi fenomeni – tra lo stalinismo come un particolare evento storico / politico / sociologico e l’ideologia, le istituzioni e le pratiche che sono sorte all’interno di quel particolare momento in cui avveniva. Lo stalinismo, nel primo senso, appartiene certamente al passato. Non è stato pianificato in modo astuto, né – come sembrano supporre Althusser e Lock – era il risultato di qualche “deviazione” nella teoria, una momentanea interruzione del rigore teorico di Stalin. Fu il prodotto di una sconcertante azione umana, all’interno di una disperata successione di contingenze, e soggetta alle severe determinazioni della storia sovietica. Questo esame molto difficile deve essere portato avanti di per sé. Ad un certo punto, lo stalinismo può essere visto come una formazione sociale sistematica, con una logica e una legittimazione ideologica consonante: marxismo-leninismo-stalinismo.
Così dalla sua matrice storica è emerso lo stalinismo, in un secondo senso. Lo stalinismo non era solo certi “errori” o pratiche insoddisfacenti, che, dopo una ventina d’anni, persino Althusser è in grado di chiamare “crimini”. Non stiamo solo (per favore ricordate) stiamo parlando di alcuni milioni di persone (e la maggior parte di queste persone “sbagliate”) che vengono uccise o mandate nel gulag.
Stiamo parlando della manipolazione deliberata della legge, dei mezzi di comunicazione, degli organi di polizia e di propaganda di uno stato, per bloccare la conoscenza, diffondere menzogne, calunniare individui; sulle procedure istituzionali che hanno confiscato al popolo sovietico tutti i mezzi di autoattivazione (sia nelle modalità democratiche che nelle forme del controllo operaio), che hanno sostituito il Partito alla classe operaia, i leader (o leader) del Partito al Partito, e gli organi di sicurezza a tutti; sulla confisca e centralizzazione di tutte le espressioni intellettuali e morali, in un’ortodossia ideologica dello stato – cioè, non solo la soppressione delle libertà democratiche e culturali degli “individui’ (…).
Da questa matrice storica, quindi, è emerso lo stalinismo come insieme di istituzioni e pratiche. E insieme a queste è emersa l’apologia, la legittimazione teorica della pratica. Diffondendosi dall’Unione Sovietica, attraverso il Comintern, questo ha permeato l’intero movimento comunista internazionale. Le pratiche e l’ideologia furono replicate e gli agenti di questa replica (le burocrazie interne e fidate dei partiti comunisti nazionali) divennero, per un’analogia molto esatta, il sacerdozio di una Chiesa universale, adepta di apologetica teologica e di omiletica umanistica”, ingannando direttamente e consapevolmente le proprie appartenenze, agili nella casistica, e rafforzando il loro controllo mediante procedure e forme tipicamente staliniste – “centralismo democratico”, soppressione di fazioni e discussioni, il controllo esclusivo degli organi politici, teorici e (per quanto possibile) intellettuali del Partito, la calunnia di critici e oppositori e la manipolazione segreta dei compagni di viaggio e delle organizzazioni di facciata. Non è vero che il comunismo internazionale “non sapeva” dello stalinismo, prima del ventesimo congresso del PCUS (…). Ogni singolo punto negli ultimi due paragrafi è abbondantemente documentato, e non solo nei lavori di studiosi che possono essere convenientemente esclusi dal tribunale come “bourgeios hacks”, ma da autori sovietici e socialisti (Victor Serge, Deutscher, Lewin, Claudin, Medvedev). In parte posso confermarlo per esperienza diretta. (…)
Ma, se posso parlare per la “mia” generazione, per il momento di contestazione totale all’interno dello stalinismo – cioè tra stalinismo e tradizioni e forme comuniste alternative – che fu più evidente nel “1956”, allora devono essere inserite due importanti riserve. Primo, non abbiamo mai, per un momento, detto o supposto che questo fosse tutto ciò che il comunismo internazionale era, o è, o stava facendo in quei decenni. I comunisti non possono mai essere ridotti ad agenti di una cospirazione stalinista; stavano facendo cento altre cose, molte erano importanti e all’interno di un’autentica tradizione socialista alternativa, alcune erano eroiche, e alcune di loro nessun altro l’avrebbe fatto. (…) In secondo luogo, nella nostra contestazione con lo stalinismo non abbiamo mai permesso di far decadere, per un momento, la nostra contestazione con il capitalismo e con l’imperialismo occidentale. Non solo, ma non siamo mai ricaduti nel tentativo disonesto di separare lo stalinismo dalla sua genesi storica in situazioni di emergenza e contingenza, emergenze e contingenze fornite in buona parte dalla furiosa ostilità del capitalismo internazionale all’emergere di qualsiasi società socialista. Non abbiamo mai supposto che lo stalinismo fosse da attribuire nella sua origine a questo o quell”errore ‘teorico, né all’innata volontà malvagia del marxismo, né che l’analisi fosse terminata schioccando le nostre lingue in disapprovazione morale. Abbiamo sempre visto il capitalismo internazionale come un copartecipante nella degenerazione socialista.

 

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