Nothing but a commodity è il titolo della recensione di Fredric Jameson del libro di Georg Lukács, A Defence of History and Class Consciousness: Tailism and the Dialectic, pubblicata su Radical Philosophy n. 110 del nov.dic, 2001. Il libro è stato meritoriamente pubblicato in Italia dalle edizioni Alegre con il titolo Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica. Pubblico questa traduzione come omaggio alla memoria dell’autore de “Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo” scomparso ieri.
Immagino che per i marxisti occidentali (come me) Storia e coscienza di classe abbia significato un’analisi ideologica piuttosto che quelli che Lukács chiamava ‘problemi organizzativi’. In altre parole, questo libro avrà rappresentato una svolta nello studio delle ‘antinomie della coscienza borghese’ (sottotitolo di uno dei suoi capitoli più famosi) piuttosto che quelle argomentazioni organizzate intorno a una coscienza ‘imputata’ al proletariato senza alcuna prova empirica. Da questa prospettiva, quindi, Lukács viene letto come il filosofo di un marxismo prodotto sottraendo il leninismo proprio a quel marxismo-leninismo che ne ha reso possibile la produzione in prima battuta.
Ma non è forse tutto positivo? E l’attuale consenso non è forse basato sulla sensazione che, a prescindere dallo status del marxismo stesso – vivo o morto – è il leninismo a essere storicamente morto per sempre: come testimonia la moltitudine di revival anarchici che si moltiplicano per riempire quel vuoto nell’attuale politica e attivismo radicale?
Per questa lettura, è opportuno che l’adorazione dell’eroe di Lukács Lenin: A Study on the Unity of His Thought sia stato pubblicato separatamente, un anno dopo History and Class Consciousness e un mese dopo la morte di Lenin. È opportuno anche che il volume precedente non includesse alcun numero di altri saggi politici contemporanei, e che ciò che Lukács definì “cruciale” in quel volume – è, come sottolinea John Rees, “Towards a Methodology of the Problem of Organization” – sia relegato alla sua fine, dove pochi lo avranno raggiunto. Ma ora è emerso un altro testo di questo stesso periodo. (La sorprendente resurrezione di un certo numero di testi antichi “perduti” di Lukács dai loro polverosi caveau bancari o, come in questo caso, dagli archivi sovietici, è un’avventura archeologica che aspetta di essere raccontata.) Questo nuovo testo, una risposta ai critici di Storia e coscienza di classe all’interno del partito e redatta nel 1925 o 1926, rafforza la visione finora minoritaria, non solo che l’autore del classico filosofico in questione fosse un leninista, ma che il testo stesso non è pienamente comprensibile se non come contributo al marxismo-leninismo. E così, sentiamo quasi lo stesso Lenin mormorare, capita che per ottant’anni nessun marxista abbia mai capito correttamente Storia e coscienza di classe!
Ma questo non è un mero dettaglio biografico: qualunque sia il destino storico e la sorte del leninismo, si può affermare con sicurezza che ha relegato al passato e all’obsolescenza l’intera tradizione borghese della filosofia politica, la cui rinascita oggi è poco più di un pastiche, a meno che non sia semplicemente uno scherzo. D’altra parte, senza una qualche genuina formulazione filosofica e teorica – qualcosa di un po’ meno pragmatico ed empirico di Che fare? – si è dimostrato difficile costruire quella tradizione alternativa che dovrebbe sostituirla, e sostituire una riflessione sulla collettività a quella esaurita sulla rappresentanza politica. Il marxismo-leninismo, in altre parole, non ha mai ricevuto la sua espressione filosofica; o almeno, non fino ad ora e retroattivamente, quando siamo finalmente in grado di percepire che Storia e coscienza di classe non era tanto la filosofia che Marx stesso non è mai riuscito a scrivere, quanto era proprio quella “filosofia del partito” che sembrava mancare in un marxismo-leninismo successivo. Se questo ripristini o meno la sua attualità è un’altra questione; ma si può tranquillamente affermare che, per quanto offuscata sia l’immagine del “Partito” nella sua forma stalinista e post-stalinista, la questione organizzativa non sarà mai molto lontana dalla mente delle persone in un periodo di effervescenza politica come quello in cui sembra che stiamo nuovamente entrando.
L’opera dal titolo bizzarro “Tailism and the Dialectic” (codismo e dialettica) – splendidamente tradotta qui da Esther Leslie e contestualizzata da un’introduzione di John Rees e una conclusione di Slavoj Zizek (entrambe stimolanti e suggestive) mette in scena una replica e un contrattacco a due critici – Laszlo Rudas e Abram Deborin – che offrono utilmente lezioni più generali sulla dialettica stessa. La replica è incompiuta e il titolo insolito (‘tailism’ – chvostismus , inventato da Lenin dalla parola russa per coda e che designa la politica di coloro che si accontentano di seguire le masse piuttosto che guidarle) è in linea con la retorica leninista piuttosto bizzarra e pesante del periodo. (Forse era stato chiarito da qualche parte prima di pagina 42.)
Le lezioni sono duplici. La prima, impartita a Rudas, riguarda essenzialmente questioni di coscienza di classe e in particolare il problema della soggettività e la famigerata idea della cosiddetta coscienza “imputata”, o, in altre parole, la possibilità oggettiva per una data classe di conoscere una totalità sociale che, tuttavia, non è stata ancora attualizzata soggettivamente. Questo è, quindi, l’esatto opposto della problematica di EP Thompson in The Making of the English Working Class, che, come è ben noto, riguarda l’educazione graduale di una classe “per sé stessa” mentre lentamente diventa consapevole della sua situazione e del suo sfruttamento, insieme ai suoi eventuali poteri e solidarietà. Piuttosto, la nozione di Lukács mette in primo piano le condizioni oggettive o strutturali di possibilità di tale consapevolezza.
La critica presumibilmente menscevica di Deborin è l’occasione per una revisione del problema di una dialettica della natura. Voglio discuterne prima, per dimostrare la continua rilevanza di questo vecchio argomento per noi oggi. È, naturalmente, saggezza convenzionale definire il cosiddetto marxismo occidentale distinguendo tra materialismo storico e materialismo dialettico. Il primo limita la validità del marxismo alla storia in quanto tale e adotta uno scetticismo propriamente viconiano: “l’uomo può comprendere solo ciò che l’uomo stesso ha fatto”; la natura rimane quindi, se non inconoscibile, almeno accessibile solo attraverso le categorie kantiane opportunamente ristrette (o, in altre parole, per noi e non in sé, fenomeno piuttosto che noumeno).
Il materialismo dialettico, tuttavia, inventato da Engels sulla base della Filosofia della natura di Hegel e poi promosso in uno stalinismo metafisico, postula la dialettica all’opera nel mondo oggettivo stesso. Marx e Hegel scoprirono così le leggi della natura insieme alle leggi della storia in quanto tali: e attraverso questa porta semiaperta si insinua la famigerata “teoria della riflessione” di Lenin, ricongiungendosi alla nozione secolare (e non dialettica) di verità come “adeguazione” dei concetti alle cose.
La discussione recentemente rivelata in “Tailism” mostra ora che Lukács – identificato da Merleau-Ponty come il progenitore stesso del “marxismo occidentale” – era agnostico sull’intera questione, e piuttosto ragionevole rispetto agli ideologi metafisici di entrambe le parti.
Se la dialettica possa davvero essere applicata alla natura è un problema che non può ancora essere risolto, né lo sarà mai. È una posizione storicista, che Lukács considera un rifiuto dell’“immediatezza”, molto simile allo spirito di Hegel: “ciò che i miei critici chiamano il mio agnosticismo non è altro che la mia negazione dell’esistenza di un rapporto socialmente non mediato, cioè immediato, dell’uomo con la natura nell’attuale stadio di sviluppo sociale”. Significativamente, aggiunge, “rifiuto di entrare in dispute sulle possibilità utopiche del futuro”.
Lukács si assume il compito di correggere l’equivoco di Engels su Kant e, di conseguenza, di disarmare la più semplicistica opposizione tra un presunto idealismo e l’altrettanto presunto materialismo (di Engels, ma anche dello stesso Lenin):
In quanto processo storico, la conoscenza è solo una parte, solo la parte cosciente (correttamente o falsamente cosciente) dello sviluppo storico di quella trasformazione ininterrotta dell’essere sociale, che avviene ugualmente nell’interazione ininterrotta con la natura.
Gli ortodossi sono quindi liberi di credere, se lo desiderano, che un giorno, in future condizioni utopiche, la rilevanza della dialettica stessa per la natura sarà rivelata oggettivamente.
Tuttavia, questo non affronta un diverso insieme di problemi che emergono quando ci spostiamo dall’asse soggetto-oggetto a quello della verità scientifica e del relativismo storico. Qui la concessione tattica di Lukács non risolve nulla: “È evidente che la dialettica non potrebbe essere efficace come principio oggettivo di sviluppo della società, se non fosse già efficace come principio della natura prima della società”. Perché il problema ora non riguarda la natura stessa, ma la storia e la storicità: “nella misura in cui cogliamo il carattere dialettico della conoscenza, la comprendiamo simultaneamente come un processo storico”.
Ma come emerge la storia dalla natura? La versione marxiana di questa storia evolutiva ruota attorno al concetto di modo di produzione (non realmente teorizzato da nessuna parte da Lukács); è un concetto che solleverebbe subito la questione del rapporto privilegiato tra scienza e capitalismo. Ma anche limitandoci ai due modi di produzione più recenti e “moderni” – capitalismo e socialismo – è abbastanza ovvio che anche questo relativismo limitato richiama lo scandalo di Lysenko e l’ipotesi dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite. Tuttavia, tutte queste questioni problematiche sono implicite nella semplice domanda: “anche le categorie in cui la realtà oggettiva è riassunta per la conoscenza umana in un dato momento sono determinate dalla struttura economica, dall’essere sociale?”
Ciò che voglio sottolineare qui è che dibattiti così antichi e associazioni generate da slogan come “scienza proletaria” e “scienza borghese”, che avrebbero dovuto sparire da tempo nel cestino dell’oblio postmoderno, sono ancora molto presenti tra noi, anche se sotto nomi diversi. Gli attuali dibattiti sono archiviati sotto le rubriche degli studi di genere e scientifici; e gli argomenti di Evelyn Fox-Keller per una scienza naturale femminista sono molto coerenti con la problematica centrale di Storia e coscienza di classe (qualunque ruolo riservino alla classe sociale). Nel frattempo, gli studi scientifici stessi, i cui nomi vanno da David Bloor e Bruno Latour a Isabelle Stengers e Barbara Herrnstein Smith, risvegliano molto tutte le ansie sul relativismo che un’ortodossia marxista sentiva circa ottant’anni fa, ma ora nel seno degli scienziati duri tradizionali occidentali, che non vogliono aprire alcuna porta alla problematica questione delle possibili relazioni tra situazioni storiche concrete e la scoperta di leggi della natura “senza tempo” che hanno avuto luogo al loro interno. Queste conseguenze sono forse riconosciute più francamente nelle risposte di Lukács qui, che nel testo originale.
Per quanto riguarda la prima parte di “Tailism”, ora diventerà chiaro che la questione della cosiddetta “coscienza imputata” di cui si occupa è molto legata alle questioni delle scienze naturali e del relativismo. Il termine peculiare – zugerechnetes Bewusstein , di cui Lukács ammette che avrebbe potuto sceglierne uno migliore – evoca qualcosa come un privilegio epistemologico per quella classe sociale chiamata proletariato. È necessario situare l’idea di Lukács in una corrente significativa del cosiddetto marxismo occidentale e poi ricollocare la nuova problematica tra alcuni pensieri davvero molto contemporanei, prima di esaminare la teoria originale stessa.
Il marxismo occidentale è stato spesso identificato come lo spazio filosofico in cui è stata sviluppata una nuova attenzione alla coscienza e alla soggettività all’interno del marxismo, dalla concezione di Gramsci della pedagogia collettiva e del superamento culturale della subalternità in poi. Questa nuova tradizione desiderava evitare i triplici pericoli di (1) inevitabilità storica nello spirito della Seconda e Terza Internazionale; (2) la gestione del partito leninista; e, d’altra parte, (3) lo spontaneismo e il populismo anti-intellettuale di una fede quasi religiosa nella saggezza delle masse e nelle loro rivolte istintive. Chiaramente, la nuova tradizione creerà un posto per la cultura in quanto tale che non può essere presente nelle altre tre posizioni.
Nella sua risposta ai critici, Lukács insiste fortemente sull’importanza della soggettività in Storia e coscienza di classe. Ha in mente il vecchio dilemma teologico del determinismo e del libero arbitrio, ora giocato nella dialettica rivoluzionaria tra le condizioni oggettive (siamo in una situazione autenticamente rivoluzionaria) e la volontà soggettiva e la preparazione della classe rivoluzionaria stessa: una congiunzione che può presumibilmente essere giudicata solo a posteriori. Lukács sottolinea, in uno dei momenti più illuminanti di ‘Tailism’, che non sono i fatti – statistiche sulla carestia o qualche indice di insoddisfazione proletaria – a essere variabili qui, ma piuttosto le categorie di soggetto e oggetto stesse. La ‘situazione oggettiva’ può essere vista pienamente come una valutazione soggettiva tanto quanto la soggettività rivoluzionaria può essere colta oggettivamente:
L’interazione dialettica di soggetto e oggetto nel processo storico consiste nel fatto che il momento soggettivo è, come sottolineo più e più volte, un prodotto, un momento del processo oggettivo. Esso lavora a ritroso sul processo, in certe situazioni storiche, la cui emersione è chiamata in causa dal processo oggettivo (ad esempio HCC, p. 313), e gli dà una direzione. Questo lavoro a ritroso è possibile solo nella prassi, solo nel presente … Una volta completata l’azione, il momento soggettivo si inserisce di nuovo nella sequenza dei momenti oggettivi.
Questa particolare lezione di dialettica rafforza il requisito di apprezzamento e intelligenza politica, piuttosto che consentire al problema soggetto/oggetto di essere una scusa per formule dogmatiche. Menzionerò solo altre due intuizioni del genere, che qui sono necessariamente poco sviluppate, ma chiaramente ricche di intuizioni. Una ha a che fare con l’analisi ideologica: “anche la “falsa coscienza” può essere falsa in modo dialettico e meccanico”. (Questo ci riporta alla nozione originale di Hegel dell’interrelazione tra verità ed errore). Nel frattempo un’altra osservazione – “per un dialettico, il concetto di coscienza è necessariamente inseparabile dal suo contenuto” – allontana utilmente i formalismi kantiani e ci mette sulla strada di una dialettica che è tanto pratica quanto formale. Ma nessuna di queste discussioni solleva la questione della cultura, ed è a questo punto, penso, che dobbiamo distinguere le posizioni di Lukács in Storia e coscienza di classe dai fraintendimenti di quelle posizioni da cui potrebbe benissimo essere scaturito il cosiddetto marxismo occidentale.
Non dobbiamo perdere molto tempo sulle obiezioni più stupide all’idea di “coscienza imputata”: vale a dire, quelle empiriche, riflesse in domande come, in quel caso, perché i lavoratori edili non sono più intelligenti dei fisici nucleari (borghesi)? La coscienza imputata è una nozione strutturale, strettamente correlata a quell’altro (tanto denigrato) concetto strutturale, la totalità sociale. A un livello molto elementare, quell'”aspirazione alla totalità” che è forse la frase più famosa in Storia e coscienza di classe significa semplicemente fare connessioni. Non implica che qualcuno là fuori – il “soggetto che dovrebbe sapere” di Lacan – veda tutte le relazioni sociali e abbia una conoscenza privilegiata dall’alto. (Se non altro, la conoscenza del proletariato è una conoscenza dal basso.)
Piuttosto, drammatizza il superamento di due tipi di frammentazione: quella delle discipline accademiche (in cui ciò che conta come conoscenza scientifica è suddiviso in una moltitudine di specializzazioni); e quella dell’esperienza sociale, in cui le varie classi e frazioni di classe o sottogruppi sono sistematicamente separate le une dalle altre, in un’ignoranza reciproca appena alleviata dagli stereotipi mediatici. Entrambe queste forme di frammentazione sono intensificate nell’attuale società capitalista ben oltre qualsiasi cosa Lukács (o lo stesso Lenin) avrebbero potuto immaginare.
La nozione di “coscienza imputata”, quindi, era il preludio all’ipotesi di Lukács secondo cui il “punto di vista” del proletariato, dal basso, offriva un approccio epistemologico alla totalità sociale non disponibile nelle altre posizioni di classe o di gruppo. Ma è proprio questa ipotesi centrale che oggi è messa in discussione ovunque, non solo nell’allontanamento dall’analisi di classe e dalla coscienza di classe, ma soprattutto nell’emergere delle varie identità di gruppo così spesso riassunte sotto lo slogan della politica dell’identità. In effetti, la nozione di Lukács di un “punto di vista” epistemologico ha molto interesse per qualsiasi politica dell’identità conseguente oggi, ed è piuttosto diversa dalla questione ispirata da Lukács dell’identità di un nuovo “soggetto della storia” rivoluzionario che ha dominato i dibattiti teorici degli anni ’60. Tuttavia, per quanto ne so, solo un femminismo socialista ha apprezzato l’utilità del contributo di Lukács in questo caso, e dobbiamo a Sandra Harding l’aver sviluppato una nozione di “teoria del punto di vista” in cui l’esperienza collettiva (e i traumi collettivi) dei vari gruppi possono essere valutati politicamente, e in cui le forme di identità di gruppo possono essere colte come forme di resistenza a forme specifiche, ma strutturalmente distinte, di oppressione.
Oltre la “politica dell’identità”, per certo, c’è qualcos’altro, per il quale ibridazione e teoria queer non sono designazioni del tutto soddisfacenti. Questo è il punto in cui la costruttività rialza di nuovo la testa; e la costruttività della verità scientifica della natura si ricongiunge alla costruttività (o “performatività”?) dell’identità sociale stessa. Il dilemma che ogni filosofia della costruttività deve affrontare è ovviamente quello della resistenza della materia prima stessa. Si può davvero diventare qualcosa? L’obiezione è una caricatura del problema ontologico più fondamentale di ogni idealismo assoluto, che sia quello di Fichte o di Sartre, vale a dire i vincoli che conosciamo dall’esperienza ma che non sembrano riflettersi nei termini della teoria.
La teoria del punto di vista di Lukács sembrerebbe offrire almeno una via d’uscita da questo dilemma, teorizzando i limiti strutturali di una situazione all’interno della quale sono disponibili una serie di scelte esistenziali ed epistemologiche.
Ciò serve a ricordarci che Storia e coscienza di classe resta un libro aperto e un progetto incompiuto. Ma è giusto concludere, come fanno sia John Rees che Slavoj Zizek, che è un libro leninista aperto e che, ovunque ci conduca, dovrebbe anche riportarci al problema filosofico fondamentale del partito stesso e, in particolare, del partito leninista. Rees ricorda anche che è proprio la nozione di “coscienza imputata” a garantire la vocazione di quel partito e il ruolo dei suoi intellettuali, nella misura in cui rimane un divario strutturale tra ciò che il proletariato può potenzialmente sapere e ciò che sa empiricamente, il più delle volte sotto forma di “economismo” o politica sindacale. Lukács sosteneva, ci dice Rees, “che gli effetti combinati della collocazione di classe, della struttura mercantile del capitalismo moderno e della lotta di classe hanno plasmato la coscienza di classe”. È un’eccellente formulazione; solo che ritengo che Rees tenda, nella sua altrimenti utile introduzione, ad appiattire l’analisi di ciò che ho chiamato il “privilegio epistemologico” del proletariato e a trarne la puntura dialettica, a dissipare tutto ciò che è paradossale in una posizione per la quale è proprio la mercificazione del proletariato a dargli quel privilegio speciale. Non è perché il proletariato deve lottare contro l’alienazione che può imparare qualcosa di significativo. Lo facciamo tutti e tutti impariamo qualcosa o altro. È piuttosto perché il proletariato è diventato niente più che una merce (la merce della forza lavoro). È perché il proletariato è letteralmente niente, non possiede niente, non ha identità, che può imparare, non solo qualcosa, ma tutto. Questa è la versione epistemologica di Lukács di quelle “catene radicali” celebrate dal giovane Marx; e qualunque cosa possiamo pensare di questa idea – la cui nozione di dénouement Benjamin avrebbe potuto chiamare “teologica” – è stato un salto filosofico sorprendentemente originale da lui compiuto, in esilio politico a Vienna, dopo il fallimento della rivoluzione ungherese; e non dovremmo privarlo di questa originalità. Anche qui, forse, in quel ritorno alle teorie della mercificazione imposte da un nuovo consumismo globale e dall’americanizzazione, il vecchio libro di Lukács potrebbe avere ancora qualcosa da insegnarci.
Fredric Jameson
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