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Noam Chomsky: Contare i cadaveri. Sul Libro Nero del comunismo

Questo articolo di Noam Chomsky fu pubblicato su  Spectre No.9 2001. Chomsky, che non è mai stato un sostenitore del bolscevismo e tantomeno dello stalinismo, smonta il Libro nero del comunismo, una scadente opera storica che ha però influenzato come poche altre il senso comune a livello internazionale. La cifra di 100 milioni di vittime del comunismo è entrata nell’immaginario collettivo. Sul nuovo anticomunismo consiglio su questo blog Enzo Traverso e J Arch Getty. Buona lettura. 

Cominciamo con la nota litania dei mostri che abbiamo affrontato nel corso del secolo e infine ucciso, un rituale che almeno ha il merito di avere radici nella realtà. I loro terribili crimini sono registrati nel Libro nero del comunismo appena tradotto dallo studioso francese Stephane Courtois e altri, oggetto di recensioni scioccate al momento del passaggio al nuovo millennio. La più seria, almeno tra quelle che ho visto, è quella del filosofo politico Alan Ryan, illustre studioso accademico e commentatore socialdemocratico, nel primo numero dell’anno della New York Times Book Review (2 gennaio).

Il Libro nero rompe finalmente “il silenzio sugli orrori del comunismo”, scrive Ryan, “il silenzio di persone che sono semplicemente sconcertate dallo spettacolo di tanta sofferenza assolutamente futile, inutile e inspiegabile”. Le rivelazioni del libro saranno senza dubbio una sorpresa per coloro che sono riusciti in qualche modo a rimanere all’oscuro del flusso di aspre denunce e rivelazioni dettagliate degli “orrori del comunismo” che ho letto fin dall’infanzia, in particolare nella letteratura di sinistra degli ultimi 80 anni, per non parlare del flusso costante nei media e nelle riviste, nei film, nelle biblioteche traboccanti di libri che spaziano dalla narrativa all’erudizione, tutti incapaci di sollevare il velo del silenzio. Ma lasciamo da parte tutto questo.

Il Libro nero, scrive Ryan, ha lo stile di un “angelo del registro”. È un implacabile “atto d’accusa criminale” per l’omicidio di 100 milioni di persone, “il bilancio di un colossale esperimento sociale, economico, politico e psicologico completamente fallito”. Il male totale, non riscattato nemmeno da un accenno di risultato, si fa beffe “dell’osservazione che non si può fare una frittata senza uova rotte”.

La visione della nostra magnificenza accanto all’incomprensibile mostruosità del nemico – la “cospirazione monolitica e spietata” (John F. Kennedy) dedicata alla “totale cancellazione” di ogni briciolo di decenza nel mondo (Robert McNamara) – ricapitola nei minimi dettagli l’immaginario dell’ultimo mezzo secolo (in realtà, ben oltre, anche se amici e nemici si spostano rapidamente, fino al presente). A parte un’enorme letteratura pubblicata e i media commerciali, è catturato vividamente nel documento interno NSC 68 del 1950, ampiamente riconosciuto come il documento fondante della Guerra Fredda, ma raramente citato, forse per l’imbarazzo della retorica frenetica e isterica dei rispettati statisti Dean Acheson e Paul Nitze; per un esempio, si veda il mio Deterring Democracy, cap. 1. 1.

L’immagine è sempre stata estremamente utile. Rinnovata ancora una volta oggi, ci permette di cancellare completamente l’intero record di atrocità orrende compilato dalla “nostra parte” negli anni passati. Dopotutto, non contano nulla se paragonate al male supremo del nemico. Per quanto grande fosse il crimine, era “necessario” affrontare le forze delle tenebre, ora finalmente riconosciute per quello che erano. Con il più lieve dei rimpianti, possiamo quindi passare al compimento della nostra nobile missione, anche se, come ci ha ricordato il corrispondente del New York Times Michael Wines all’indomani del trionfo umanitario in Kosovo, non dobbiamo trascurare alcune “lezioni profondamente deprimenti”: “La profonda frattura ideologica tra un Nuovo Mondo idealista che vuole porre fine alla disumanità e un Vecchio Mondo altrettanto fatalista che vuole un conflitto senza fine”. Il nemico era l’incarnazione del male totale, ma anche i nostri amici hanno molta strada da fare prima di salire alle nostre vertiginose altezze.

Tuttavia, possiamo marciare in avanti, “puliti di mani e puri di cuore”, come si addice a una nazione guidata da Dio. E, cosa fondamentale, possiamo liquidare con il ridicolo ogni sciocca indagine sulle radici istituzionali dei crimini del sistema statale- aziendale, mere banalità che non offuscano in alcun modo l’immagine del Bene contro il Male, e non insegnano alcuna lezione, “profondamente sobria” o meno, su ciò che ci aspetta – una posizione molto comoda, per ragioni troppo ovvie da elaborare.

Come altri, Ryan sceglie ragionevolmente come reperto A dell’atto d’accusa criminale le carestie cinesi del 1958-61, con un bilancio di 25-40 milioni di morti, riferisce, una fetta consistente dei 100 milioni di cadaveri che gli “angeli della registrazione” attribuiscono al “comunismo” (qualunque cosa sia, ma usiamo il termine convenzionale). Questa terribile atrocità merita pienamente la dura condanna che ha ricevuto per molti anni, rinnovata in questa sede. È inoltre corretto attribuire la carestia al comunismo. Questa conclusione è stata stabilita in modo autorevole dall’economista Amartya Sen, il cui paragone tra la carestia cinese e i risultati dell’India democratica ha ricevuto particolare attenzione in occasione del conferimento del Premio Nobel qualche anno fa. Scrivendo all’inizio degli anni ’80, Sen osservava che l’India non aveva sofferto una simile carestia. Egli attribuiva la differenza tra India e Cina al “sistema politico indiano di giornalismo e opposizione”, mentre al contrario il regime totalitario cinese soffriva di “disinformazione” che ostacolava una risposta seria, e c’era “poca pressione politica” da parte dei gruppi di opposizione e di un pubblico informato (Jean Dreze e Amartya Sen, Hunger and Public Action, 1989; essi stimano le morti tra i 16,5 e i 29,5 milioni).

L’esempio si pone come un drammatico “atto d’accusa criminale” del comunismo totalitario, esattamente come scrive Ryan. Ma prima di chiudere il libro sull’atto d’accusa, vorremmo soffermarci sull’altra metà del confronto India-Cina di Sen, che in qualche modo non sembra mai emergere nonostante l’enfasi che Sen vi ha dato. Egli osserva che all’inizio della pianificazione dello sviluppo, 50 anni fa, l’India e la Cina presentavano “somiglianze piuttosto sorprendenti”, tra cui i tassi di mortalità. “Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che, per quanto riguarda la morbilità, la mortalità e la longevità, la Cina ha un vantaggio ampio e decisivo sull’India” (anche per quanto riguarda l’istruzione e altri indicatori sociali). Secondo le sue stime, l’eccesso di mortalità in India rispetto alla Cina si avvicina ai 4 milioni di persone all’anno: “L’India sembra riuscire a riempire il suo armadio con più scheletri ogni otto anni di quanti ne abbia messi la Cina nei suoi anni della vergogna”, 1958-1961 (Dreze e Sen).

In entrambi i casi, i risultati hanno a che fare con le “predisposizioni ideologiche” dei sistemi politici: per la Cina, una distribuzione relativamente equa delle risorse mediche, compresi i servizi sanitari rurali, e la distribuzione pubblica di cibo, che mancano in India. Questo prima del 1979, quando “la tendenza alla diminuzione della mortalità [in Cina] è stata almeno arrestata, e forse invertita”, grazie alle riforme di mercato istituite in quell’anno.

Superata l’amnesia, supponiamo di applicare la metodologia del Libro Nero e dei suoi recensori all’intera storia, non solo alla metà dottrinalmente accettabile. Concludiamo quindi che in India l’“esperimento” capitalista democratico dal 1947 ha causato più morti che nell’intera storia del “colossale, completamente fallito… esperimento” del comunismo ovunque dal 1917: oltre 100 milioni di morti entro il 1979, altre decine di milioni da allora, solo in India. L’“accusa criminale” dell’“esperimento capitalista democratico” diventa ancora più dura se si considerano i suoi effetti dopo la caduta del comunismo: milioni di cadaveri in Russia, per citare un caso, mentre la Russia seguiva la fiduciosa prescrizione della Banca Mondiale secondo cui “i Paesi che si liberalizzano rapidamente e in modo estensivo si riprendono più rapidamente [di quelli che non lo fanno]”, tornando a qualcosa di simile a ciò che era stato prima della prima guerra mondiale, un quadro familiare in tutto il “terzo mondo”. Ma “non si può fare una frittata senza uova rotte”, come avrebbe detto Stalin. L’accusa diventa molto più dura se consideriamo queste vaste aree che sono rimaste sotto la tutela dell’Occidente, producendo un record davvero “colossale” di scheletri e “sofferenze assolutamente futili, inutili e inspiegabili” (Ryan). L’accusa acquista ulteriore forza se si aggiungono i Paesi devastati dagli assalti diretti del potere occidentale e dei suoi clienti negli stessi anni.

Non è necessario esaminare la documentazione in questa sede, anche se sembra essere sconosciuta all’opinione pubblica rispettabile come lo erano i crimini del comunismo prima della comparsa del Libro Nero. Gli autori del Libro nero, osserva Ryan, non si sono tirati indietro di fronte alla “grande questione”: “la relativa immoralità del comunismo e del nazismo”. Sebbene “il conteggio dei cadaveri penda a sfavore del comunismo”, Ryan conclude che il nazismo si colloca comunque ai livelli più bassi dell’immoralità. Un’altra “grande questione” posta dalla “conta dei cadaveri”, una volta superata l’amnesia ideologica, non è stata affrontata.

Per essere chiaro, non sto esprimendo i miei giudizi; piuttosto quelli che derivano dai principi che vengono utilizzati per stabilire le verità preferite – o che deriverebbero, se si potessero rimuovere i filtri dottrinali.

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