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Eugenio Curiel, ritratto di Guttuso
Il 24 febbraio 1945, il comunista Eugenio Curiel fu assassinato a Milano, in piazzale Baracca, da una squadra di «brigatisti neri». Elio Vittorini scrisse un articolo a ricordo del compagno ucciso che uscì su L’Unità e su Epoca Nuova (organo centrale del Fronte della Gioventù) rispettivamente il 9 e il 27 aprile del ’45. II testo, allora, non comparve integralmente nella sua stesura originaria, ma fu pubblicato completo in seguito, in un numero (16, 1945) della rivista Mercurio. Il quotidiano L’Unità lo ripubblicò il 24 febbraio 1965 “per concessione dell’autore”. Vittorini, su Mercurio, aggiunse una breve nota: « La Resistenza nel Nord? Per me significa Eugenio Curiel, la persona a cui sono – stato più vicino dall’autunno del 1943 al febbraio del 1945. Ma non posso fare un discorso nuovo su di lui; mi ritrovo in bocca le stesse parole che dissi quando Curiel venne ucciso. Lo scritto fu pubblicato sul numero de L’Unita clandestina in cui annunciammo la sua morte. Nè fu pubblicato completo; Curiel era in mano loro, sulla tavola dell’obitorio, e si pensò di non dar loro la certezza che proprio quella salma fosse Curiel. La parte dello scritto che non venne pubblicata e qui data in corsivo. “Giorgio” era il nome di battaglia con il quale chiamavamo Curiel (e.v.)»
CHI ERA
I cani sanguinari che ancora battono le vie di Milano, in questi ultimi giorni della loro repubblica protetta dal Reich, possono cantare vittoria per una volta. Non per un orologio. una penna stilografica e alcune migliaia di lire di cui hanno fatto bollino. Nè per il sangue in cui hanno affondato il muso. Per molto di più.
L’uomo che una loro pattuglia di militi uccise e derubò in piazzale Baracca, alle tre del pomeriggio, qui a Milano, non era uno «di nessuno». Era «nostro», del Partito comunista italiano e dell’Italia che lotta; uno dei migliori e dei capi tra i «nostri». Era Giorgio; aveva trentadue anni, il volto gentile di un ragazzo, tanto di più se sorrideva nei momenti lieti, con quei suoi denti bruciati dal fumo; e tanto di più anche nei momenti duri, se porgeva ad altri la sua fiducia, la sua sicurezza, la sua forza.
Alto di statura, anzi, molto alto, aveva nel modo di muoversi qualcosa di arruffato e non pronto come se avesse preferito esser piccolo. Uomo che aveva studiato scienze esatte, fanatico di cultura, intellettuale, metteva nel modo di pronunciare le parole acute una verecondia e un impaccio, come se avesse preferito essere uno dei più semplici fra gli operai, per i quali scelse un giorno di combattere.
Venne al comunismo per maturazione solitaria, individuale. Ma fu subito tra gli attivisti e, quando nel novembre ’43 si stabili di nuovo a Milano, era uno che aveva terminato, da appena due mesi, di completare in carcere e al confino la preparazione di se stesso. Ricominciò allora a lavorare come lui era capace di lavorare, anche per diciotto ore di seguito, sempre nello stesso freddo e nello stesso deserto di una camera. L’Unità, La Nostra Lotta, erano, in gran parte, scritti da lui. Era suo lavoro molto di quello che nella nostra stampa, dal novembre
’43 a questo febbraio, è stato esame del nostro operato. analisi dei difetti del nostro operato, ricerca dei motivi di tali difetti e suggerimento di come occorresse fare per far meglio. E molto era suo degli sforzi compiuti per realizzare in Italia l’idea della «democrazia progressiva», e l’idea del «potere ai Comitati di Liberazione»; molto era suo anche nell’opera assidua con la quale il nostro Partito cerca di trasformare i propri organismi. malgrado le condizioni imposte dall’attività clandestina, in organismi democratici.
Noi non intendiamo ingannare i cani che lo hanno ucciso. Accusiamo il colpo che abbiamo ricevuto, la gravità della nostra perdita, e la portata di quella che, per avercela ciecamente arrecata, essi dovranno pagare. Come se ci avessero ucciso Giovanni Roveda.
E diciamo questo nome scoperto a tutti, per dare a loro una pietra di paragone. Perchè essi sappiano che cosa ha fatto una pattuglia di loro in piazzale Baracca, alle tre del pomeriggio, il 24 febbraio, intendendo fare non di più di quello che tutti loro fanno, uccidere e derubare gli uccisi, in questi ultimi giorni loro.
CHI E’ ORA
Per il Partito comunista non v’è niente che sia irreparabile. Se non ci sarà un compagno che possa fare da solo tutto quello che Giorgio poteva fare da solo, ci saranno due compagni o ve ne saranno tre, a farlo insiem. Irreparabile è per noi solo la perdita del nostro affetto.
Dov’è ora Giorgio per il nostro affetto?
Legato a quello che gli è accaduto. Fermo come un orologio a quelle ore tre del pomeriggio, in quel piazzale Baracca, quel 21 febbraio. Viene da una strada diretto ad entrare in una altra, attraverso il piazzale, nel sole che è stato di quell’ora, e una cieca scarica di piombo gli becca e trapunge le gambe. Giorgio cade ma non sa perchè sia caduto. Non fanno male le ferite al momento stesso in cui le riceviamo. Giorgio vuole rialzarsi, capire che cosa sin stato, e appoggia in terra le mani, forse si siede. Cerca anche gli occhiali? Certo Giorgio, cadendo, ha perduto gli occhiali. Allora lo percuote nell’addome la seconda scarica che lo ferma.
E questo è ora Giorgio per noi, fermato in quel punto per sempre, e il nostro affetto, che lo vede, diventa in noi qualcosa di più: forza di più
e fiducia di più, sicurezza di più che conquisteremo tutto quello in cui Giorgio credeva, una vita migliore in fondo a tutta questa lotta, libera per tutti gli uomini, felice per tutti gli uomini. Questo e ora Giorgio per noi.
Fermo nell’atto in cui fu assassinato: e la sua fiducia ferma in noi, la sua sicurezza ferma in noi, donata da lui a noi pur in mezzo alla nostra perdita.
Egli non entra, come i fascisti avrebbero voluto, nel numero degli «sconosciuti», uccisi ogni giorno su un piazzale, su un viale, per il bisogno di cani sanguinari che i fascisti hanno ogni giorno di uccidere. Al contrario: tutti gli «sconosciuti» uccisi entrano ora nel suo nome: uomini oscuri abbattuti per «tentativo di fuga», per «atteggiamento sospetto», o solo per «errore» e derubati anche dopo riconosciuto l’«errore», privati sempre dei documenti perchè restassero sconosciuti, lasciati a porgere le morte facce dalle tavole nude dell’obitorio; tanti ogni giorno, e dal settembre della «ripresa» a oggi migliaia: e tutti ora entrano, migliaia come sono, nel nome di Giorgio; tutti si chiamano
Giorgio.
Li vendicheremo tutti con Giorgio?
La sua faccia era gentile e sempre si irrigidiva quando sentiva parlare di rappresaglia. Egli sapeva che vendicarsi e far rappresaglia può occorrere a chi non ha niente dinanzi a se; ai fascisti può occorrere: non a noi che abbiamo molto dinanzi a noi. A noi occorre altro: lottare per questo «molto», e intensificare la nostra lotta, questo si, essere più fitti tra noi, più assidui, più duri nella lotta, e ormai, ora che anche lui è caduto, affrettare con ogni mezzo la fine del dominio dei cani sanguinari.
La morte, su ogni uomo, è insieme di luce e di oscurità. Su un uomo che cade com’è caduto Giorgio, la morte si divide: lascia la luce di sé sul caduto, e l’oscurità cammina, copre i colpevoli e suggella l’infamia su di loro.
Elio Vittorini
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