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Eugenio Garin: Eugenio Curiel nella storia dell’antifascismo (1965)

Ritratto di Curiel. Renato Guttuso

Questo profilo di Eugenio Curiel, scritto da Eugenio Garin, fu pubblicato sulla rivista Studi Storici, Anno 6, No. 1 (gennaio – marzo 1965), pp. 3-24. La rivista in una nota precisava che si trattava del “testo, corredato di alcune note, di una conferenza tenuta l’11 marzo 1965 al Circolo «Eugenio Curiel» di Padova”. 

I. Sono tre i nodi intorno a cui e possibile raccogliere l’attività di Eugenio Curiel (1): I: la lotta «legale» contro il fascismo, condotta in seno alle stesse istituzioni fasciste, facendo leva, da un lato, sui giovani intellettuali dei Gruppi universitari, e dall’altro sugli operai, soprattutto sui giovani operai dei sindacati fascisti; 2: la riflessione teorica sopra i principi del marxismo e, insieme, sulla storia d’Italia nel suo processo di unificazione; 3: l’organizzazione della gioventù durante la Resistenza nella prospettiva di un rinnovato sviluppo democratico dell’Italia verso una società socialista (2)
Questi tre nodi si collocano in tre momenti successivi, nettamente scanditi nel tempo: fra il ’37 e il ’39 il primo, ossia durante l’estremo
travaglio della situazione italiana, fra l’intervento in Spagna e la conclusione del Patto d’Acciaio con l’asservimento totale al nazismo di un’Italia ormai già anche razzista (il Patto e del 22 maggio I939; l’arresto di Curiel è del 23 giugno). II secondo momento, dal ’39 al ’43, nel carcere di San Vittore a Milano, e poi al confino di Ventotene (dal gennaio del ’40 al luglio del ’43, durante la guerra fino al colpo di stato), è caratterizzato, non solo dall’approfondimento teorico del marxismo e da un ripensamento di alcuni temi centrali della storia italiana, ma dai rapporti personali con gli altri condannati politici e dal definitivo inserimento nel Partito comunista, quasi a conclusione dei precedenti contatti. Il terzo momento, fino alla morte, nel pieno della lotta, è dominato da una visione ormai singolarmente matura della situazione politica italiana e del significato della Resistenza, non fine ma inizio di un’epoca storica di rinnovamento della società: instaurazione, in Italia, di una democrazia progressiva, svincolata, non solo dal fascismo, ma da ogni ipoteca del mondo prefascista.
Questi tre aspetti e momenti dell’opera di Curiel, ancorché nettamente scanditi nel tempo, sono ovviamente saldati fra loro, articolari in una
evidente tendenza unitaria di fondo: operare nella continuità della vita italiana, facendo appello, sempre, a tutte le forze recuperabili, in modo che il trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia progressiva potesse avvenire in un processo di maturazione, suscettibile di inserirsi perfettamente nel tronco vitale della storia d’Italia. Rinnovamento rivoluzionario e aderenza fedele alla realtà storica italiana si saldano nel pensiero di Curiel in sostanziale unità contro ogni schematizzazione programmatica, contro ogni astratta e meccanica imposizione dal di fuori.

Sarebbe vano oggi – sono parole del gennaio I943 – in una situazione interna ed internazionale ancora così fluida, fissare alla democrazia progressiva un programma ed una graduatoria di obbiettivi concreti. Gli obbiettivi della democrazia progressiva non si precisano secondo schemi preconcetti di partito o di classe; si impongono e si imporranno secondo le esigenze nazionali della lotta di liberazione e della ricostruzione. Essenziale è che la classe operaia, classe di governo, non si troverà più in una posizione di minorità politica, reietta ai margini della storia della nazione. La classe operaia, classe di governo, cosciente di costruire la nuova Italia, determinerà, nel giuoco di
un’autentica democrazia, soluzioni nazionali ai problemi che si porranno al nostro popolo sulla via della ricostruzione 3

Nello svolgimento di questo tema, ossia nella determinazione del significato che potevano assumere in una prospettiva italiana «democrazia progressiva» e «dittatura del proletariato», si conclude il lungo viaggio di Curiel: ma per intendere a pieno la conclusione è necessario seguire punto per punto quel viaggio. 

Nel numero del 7 luglio I936 «Lo Stato operaio» pubblicava un articolo molto notevole, che riprendeva nel titolo il mussoliniano Largo ai giovani! Recava a motto un testo di Lenin: «accade spesso che i rappresentanti della generazione dei militanti adulti e degli anziani non sanno avvicinare come conviene la gioventù che, per forza di cose, è obbligata ad accostarsi al socialismo in modo diverso, per un’altra strada, in un’altra forma, in circostanze diverse?» (4). L’articolo illustrava l’inquietudine dei giovani cresciuti nel fascismo, il loro oscuro bisogno di difendersi in qualche modo dalla sistematica pressione esercitata sulle loro coscienze. «Milioni di giovani italiani cercano la via, e cercano una guida». L’appello finale suonava ricco di possibilità:

Se i nostri militanti adulti, e gli operai anziani, e tutti gli anziani pensosi della sorte del paese, si daranno con passione alla mobilitazione di milioni di giovani, di tutti i giovani, maschi e femmine, dei giovani fascisti, cattolici, d’ogni opinione politica o politicamente indifferenti, nelle fabbriche e nelle case operaie, nei circoli, nei fasci giovanili, nelle associazioni cattoliche, nelle campagne, nelle scuole, negli uffici, la parola Largo ai giovani che è servita sino ad oggi come un motivo retorico, diventerà una direttiva di azione capace di unificare le vecchie e le nuove generazioni per tutte le rivendicazioni immediate della gioventù e per liberare l’Italia dagli ostacoli che impediscono alla gioventù di marciare sorridente e felice verso l’avvenire che è suo.

L’importanza della presa di posizione espressa qui da Grieco, delle conseguenze che essa importava nella condotta dell’opposizione al fascismo, non può sfuggire, tanto più che sul medesimo punto insisteranno poi con costanza i collaboratori di «Stato operaio» secondo gli orientamenti decisi dal partito nel settembre del ’36. Nel febbraio del ’38 Agostino Novella postillerà:

Il carattere ultrareazionario ed oppressivo della GIL non deve allontanare da essa i giovani desiderosi di liberarsi della oppressione politica e ideologica del fascismo. Nel seno di questa organizzazione vivono, oggi, le grandi masse dei giovani italiani […] La parola d’ordine Largo ai giovani, che riassume tutte le aspirazioni e tutte le rivendicazioni giovanili […] deve essere sostenuta e agitata, deve diventare la bandiera di tutta la gioventù progressiva5.

Orbene, circa un anno dopo l’articolo di Grieco, nel numero dell’agosto 1937, «II Bo», l’organo degli universitari di Padova, nato alla fine
del ’34 sotto la direzione dello stesso federale fascista Agostino Podestà, pubblicava una «rassegna» di Curiel, l’inizio della sua collaborazione, dal titolo non casuale Cosa significa il «Largo ai giovani»? In forma vivacemente polemica, prendendo lo spunto da alcuni interventi usciti su «Critica fascista», Curiel, mentre combatteva la dittatura dei funzionari di partito attraverso cui la borghesia cercava di «inquinare e monopolizzare la classe dirigente italiana», sosteneva che la nuova classe dirigente non poteva formarsi se non attraverso i sindacati, e doveva essere costituita dalle nuove leve operaie, essendo gli operai – scriveva – gli unici dotati di una «maturità fatta di cosciente responsabilità e di disciplinata decisione». E soggiungeva: «se l’universitario non vorrà morire nella burocrazia[…] dovrai finire con lo spogliarsi di molte delle sue soprastrutture e dovrà soprattutto avvicinarsi alla classe operaia, nel sindacato» (6).

A un anno di distanza, il programma indicato dai comunisti di «Stato operaio» trovava risposta su un giornale fascista. Non a caso, ovviamente; Curiel e i suoi amici avevano appunto inteso di dare una concreta attuazione all’appello venuto da Parigi. Come èe noto, nel numero di marzo-aprile del ’37, «Lo Stato operaio» aveva pubblicato, a firma Giorgio Intelvi, una lettera proprio di Curiel su I sindacati e la lotta per la democrazia, «frutto – si diceva – della discussione di alcuni lettori» del periodico comunista. Il testo è importante: posto che il sindacato è l’unico organo che riunisca gli operai, tenuto conto che a dirigerlo vengono chiamati spesso «giovani intellettuali della borghesia» avviati alla carriera sindacale attraverso i GUF, una seria azione antifascista non può svilupparsi che su due direttrici: tra i giovani universitari, portando a chiarezza entusiasmi sociali confusi e non sorretti da consapevoli ideologie; fra gli operai, sollecitando stimoli classisti. «Concludendo – osservava Curiel – potremo riassumere le nostre considerazioni sulle applicazioni della nuova tattica ponendo come fondamentali i seguenti punti: I: duplicità di azione coordinata sulla classe intellettuale-sindacale universitaria e sulla classe proletaria; 2: lotta semilegale proletaria sotto la stretta
direzione dei capi del PCI attraverso al gruppo segreto.» (7)

Per rendersi conto di quello che poteva significare nella vita italiana la risoluta iniziativa di Curiel e dei suoi amici, sarebbe necessario rievocare gli anni tra la campagna etiopica e l’intervento in Spagna, mentre si stringevano i legami con la Germania, nell’affacciarsi del razzismo, nel profilarsi della seconda guerra mondiale. La demagogia mussoliniana facendo appello all’Italia proletaria, agitando motivi sociali cari all’oratoria dei suoi anni socialisti, evocava spettri più minacciosi di quanta non pensasse. Spinti dalla dura logica delle cose i giovani scoprivano, di certe parole, risonanze precise, oltre la veste retorica, mentre guerre e miseria ponevano innanzi a crude realtà. Nello stesso tempo il vecchio antifascismo borghese, nato spesso fra le delusioni di un fascismo attivamente favorito, ma non abbastanza docile, si estenuava in vaghe aspirazioni alla libertà, senza idee chiare circa quello che si sarebbe dovuto sostituire al regime mussoliniano; quando, addirittura, non si avevano invece idee chiarissime su ciò che in nessun caso si voleva al posto del fascismo: ossia una società socialista. Rodolfo Morandi, nel marzo del ’36, dinanzi alla formula di un Fronte popolare non definito in senso classista, e tendente a riunire tutto l’antifascismo, domandava:

Compagni socialisti e comunisti[…] che cosa ha da significare «l’abbattimento del fascismo»? Concederemo ai nostri eventuali alleati che la defenestrazione di Mussolini, la cessazione della guerra, il pane e la «libertà», per merito magari di una dittatura militare o di una combutta monarchico papalina, assolva ai compiti del fronte popolare? (8)

Era lo sforzo, nell’incalzare degli eventi, nell’affacciarsi di nuove generazioni, di uscire dagli equivoci del prefascismo, di determinare l’area di un antifascismo non legato alle responsabilità di quei gruppi e di quelle classi che il fascismo avevano promosso o favorito, e che ancora, nella realtà, lo sostenevano, o almeno lo tolleravano come il male minore; era l’urgenza di organizzare una resistenza unita non solo per la lotta ma per il mondo di domani, decisa a non permettere il ritorno del mondo prefascista. In questa prospettiva la linea del fronte popolare non coincideva più con gli schieramenti politici di ieri; era aperta, per le battaglie di domani, a tutti quei giovani che si erano trovati senza colpa in una Italia fascista, nel silenzio, nell’abbandono, qualche volta nel tradimento dei padri e dei maestri, e che cercavano affannosamente una strada. Proprio il loro dramma svuotava di senso l’antifascismo moralistico, di liberaleggianti delusi, di democratici incerti, di socialisti sentimentali, anticomunisti prima che antifascisti. Nel ’38, il is maggio del ’38, Curiel fa una diagnosi sottile di tutto il generico antifascismo italiano svincolato da ogni precisa ideologia, sfumato in forme semplicistiche, fatto di scontento, di velleità e di compromesso.

L’ambiente chiuso, – incalza Curiel – le discussioni che si conducono per anni tra le stesse persone, hanno […] abbassato il livello della coscienza politica marxista ed esaltato invece taluni valori tipicamente piccolo-borghesi (e non in senso spregiativo, quanto limitativo), perciò vaghi, più sentimentali che veramente scientifici [… ], più moraleggianti che sociali (e [… ] intendiamo con questo la prevalenza dell’interesse individuale di fronte a quello politico-classista) (9)

In questo orizzonte, è chiaro che l’opposizione sempre più larga, anche se confusa, delle masse cattoliche; le resistenze inconsce dei giovani, anche se nominalmente fascisti; insomma il lento emergere a livello cosciente, in vaste aree, di una rivolta fondata su esigenze reali, era qualcosa di molto più importante, sul terreno della lotta politica, della solitaria protesta morale, o dello scontento vago ed equivoco di una borghesia spaventata e insoddisfatta.
L’analisi ora citata si trova in un promemoria inviato alla direzione del P.S.I., a firma Nordio, conservato fra le carte Tasca e pubblicato un paio d’anni or sono. Se si accetti l’identificazione di Nordio con Curiel, proposta da StefanoMerli, ed estremamente probabile, si deve ammettere che Curiel operò, probabilmente fino al confino di Ventotene, nel Centro socialista interno, collaborandovi, fra Trieste e Padova, anche con Eugenio Colorni (10).

La collocazione di Curiel, al tempo degli articoli del «Bo», fra i socialisti piuttosto che fra i comunisti, non muta molto le prospettive. Né vi si oppone la lettera di Giorgio Intelvi a «Stato operaio»(11). D’altra parte, non solo Nordio dichiara i suoi contatti coi comunisti e la sua ammirazione per la loro attività, proponendola quasi a modello; le sue lettere, i suoi scritti, la sua opera nel centro socialista, corrispondono alle posizioni già note di Curiel, mediandole e dando loro una consistenza nuova, a livello di elaborazione cosciente e rigorosa. Di là dalla prosa costretta nei limiti di un periodico fascista, si ritrovano punto per punto fondamenti dottrinali e meditazioni di acume singolare. Si deve dire anzi che il recupero dei testi di Nordio conferisce tutt’altro sapore agli articoli di quel Curiel che dovevano far tanto colpo su giovani quali Zangrandi o Lajolo, per prendere solo due testimonianze ben note (12). Nordio, appunto, respingeva nettamente l’idea di un’Italia in cui a «un blocco integro di fascisti» si opponeva «un blocco più o meno ibrido di antifascisti»; soprattutto si rifiutava di schierarsi con i «moralisti» che condannavano senza appello una gioventù senza colpa, che si era trovata, senza volerlo e senza saperlo, a essere nata balilla, press’a poco come si era trovata battezzata, e magari da padri non fascisti e non credenti. A suo parere, anzi, erano proprio quei giovani, resi pensosi da una situazione amara, gli unici che cercassero di riscattare per vie veramente nuove una situazione equivoca, e poco importava che fossero cattolici o fascisti, e magari cattolici e fascisti. 

Riteniamo – soggiungeva Curiel – che nuove forze progressive vadano maturando nella situazione attuale [tali per esempio] le forze cattoliche che oggi stanno scendendo in campo in modo avverso al fascismo aggressore e razzista, la media e piccola borghesia commerciale e industriale, profondamente toccata da una crisi che oggi è veramente senza rimedio. Ed infine la forza dei giovani, per molti lati incognita, ma la cui trasformazione si comincia ad avvertire per diversi segni talvolta ancora equivoci (noto a questo proposito che esprimo opinioni personali, trincerandosi buona parte dei compagni nella «sanzione morale» alla gioventù fascista). (13)

Contemporaneamente, e rivolgendosi alle mormorazioni di un certo antifascismo borghese, Curiel osservava ancora: «riteniamo assurda l’idea di un’Italia nella quale soltanto la repressione continua e spietata riesce a mantenere in piedi il regime fascista contro la volontà unanime degli Italiani». Forze ben determinate di classe, gruppi di potere, istituti che il fascismo avevano voluto, lo volevano tuttora, anche se non ne erano sempre in tutto soddisfatti. Di contro, mentre nella Chiesa sembrava finalmente fermentare «qualcosa di progressivo nei confronti del fascismo« i sindacati fascisti medesimi apparivano suscettibili di farsi strumenti di organizzazione proletaria (14).
Il 30 gennaio ’39 Faravelli faceva arrivare a Tasca, a Parigi, un ampio saggio, anch’esso con ogni probabilità di Curiel, dove la possibilità della lotta antifascista nell’ambito dei sindacati fascisti è prospettata con molta precisione. E vero, infatti, che il sindacato fascista vuol essere strumento dell’oppressione operaia, mezzo di divisione, ostacolo alla formazione di una coscienza di classe. Eppure, in quel momento, esso sembrava a Curiel «il solo organismo basato su una distinzione classista della società».
L’analisi di Curiel e condotta in una dimensione storica molto precisa:

La psicologia della condanna morale del sindacato fascista poteva avere il suo peso ai primi tempi del totalitarismo, quando erano vivi e attivi i quadri del sindacalismo libero, quando non era ancora spenta l’eco delle lotte rivoluzionarie del proletariato italiano. Ma ormai oltre al distaccarsi nel tempo del ricordo del sindacalismo libero, bisogna tener conto dell’irrompere nella vita operaia delle masse giovanili.

I giovani, «l’obbiettivo più importante della lotta», non potevano formulare una condanna del sindacato fascista, a cui non trovavano alternative. Di qui in Curiel – e questo va sottolineato per intendere la sua posizione di quegli anni – una condanna del «moralismo» socialista e una valutazione positiva dell’atteggiamento antisettario dei comunisti.

L’inutilità, la sterilità di una condanna morale del fascismo nella persona delle masse iscritte al Partito fascista, condanna che investiva anche il basso funzionariato, spesso suo malgrado strumento della volontà dei gerarchi antioperai, riesce sempre più evidente per la pressione irresistibile delle nuove generazioni ed anche per l’azione antisettaria dei comunisti (15).

II Partito comunista ha il merito di essersi proposto senza settarismo «il problema dei rapporti fra operai fascisti o influenzati dal fascismo ed operai antifascisti, socialisti o popolari», e nell’avere individuato oltre «le barriere dell’ideologia» le possibilità di una riunificazione del proletariato attraverso una presa di coscienza di classe, facendo leva sulla stanchezza delle guerre, dei sacrifici, dello sfruttamento, delle promesse non mantenute.
Il 10 maggio 1939, in una lettera inviata da Ginevra a Faravelli, il rapporto fra socialisti e comunisti è affrontato in pieno. Se il proletariato deve essere «avanguardia della rivoluzione italiana», i comunisti «sono esempio […] di coraggio e decisione, talvolta avventata, talvolta cieca, ma pur sempre esempio di dedizione alla causa della rivoluzione italiana».

Scrive Modigliani che soltanto l’anticomunismo potrà dare vita al nostro Partito. No, non e l’anticomunismo che darà vita al nostro partito; la vita, la giovinezza, ci verrà dall’azione concreta, azione che condurremo tra gli operai e i contadini […]. Io sono, e non io solo, ma i miei compagni tutti, siamo socialisti, amanti della libertà, e la nostra ambizione maggiore e di poter dire un giorno di essere stati utili alla classe operaia italiana ed internazionale, fedeli alla grande tradizione rivoluzionaria, non a Nenni, o a Tasca, o a chiunque altro di cui siamo incapaci di fare il mit0 (16).

Nordio eguale Curiel, scioglieva Faravelli scrivendo a Tasca; tutti i dati concordano, mentre si chiarisce lo sviluppo del pensiero di Curiel nelle sue ragioni profonde; la sua collaborazione al «Bo», e la sua opera, mostrano di fondarsi su una consapevolezza singolare delle varie forme e forze dell’antifascismo italiano, delle questioni da affrontare nelle lotte per il socialismo e per la formazione di una nuova classe dirigente espressa dal mondo del lavoro, al di fuori di ogni ipoteca delle eredità prefasciste – quelle eredità che, invece, purtroppo riemersero dopo la Liberazione: il ritorno dei morti, come diceva Dorso, che cercò di bloccare la ricostruzione italiana.

Ma per rimanere al «Bo», circola in quelle pagine di Curiel pubblicate sotto l’egida del fascismo una rara aderenza alla storia. Si esalta l’unità del popolo cinese nella sua lotta contro il Giappone; si attacca nel filosofo Carlini l’arretramento degli idealisti convertiti rispetto all’attualismo medesimo, per quel loro voler distaccare il mondo dei valori reali da quello della vita politica fino a svuotare di senso la storia terrena; ai poveri di Zavattini, «bambini vecchi», si oppongono «le forti pagine verghiane, dove dal mondo tormentato della miseria sorge una forte volontà di vita e non una velleità incomposta di evasione»(17). Su tutto, martellato, un vigoroso richiamo classista (18): non esistono i giovani in astratto, ma i giovani operai, i giovani contadini, i giovani universitari. «E non si venga fuori adesso colla solita obbiezione del superamento della lotta di classe. Che essa sia superata lo sappiamo tutti, ma cosa voglia dire superarla non lo si sa troppo»: sono parole comparse nel «Bo» del 4 dicembre 1937; e la loro carica d’ironia non e ancora esaurita. Di nuovo, nell’aprile del ’38: «la classe dirigente ha da essere espressa attraverso la dura selezione sindacale»; gli universitari non sono gl’interpreti autorizzati dei lavoratori e dei loro bisogni; al loro cuore gonfio d’entusiasmo non sempre corrisponde l’attrezzatura della mente, ne costituiscono una élite predestinata al comando. Autogoverno di categoria, autonomia delle masse lavoratrici, funzione rivoluzionaria dei sindacati, rielaborazione attiva dei problemi del lavoro: su questi temi batte ancora Curiel in un articolo di «Corrente» del 13 maggio 1939 (19). Le cosidette leggi razziali lo avevano già colpito; di lì a poco, il 23 giugno, sarebbe stato arrestato a Trieste dopo il tentativo di passare in Francia attraverso la frontiera svizzera.
Si concludeva un periodo della sua vita: mentre da un lato i documenti dell’archivio Tasca mettono a fuoco il travaglio e la profondità della formazione di Curiel, i testi del «Bo», uniti al ricordo di tutta la sua attività, illuminano il senso realistico e il coraggio morale della sua lotta «legale» contro il fascismo, dentro il fascismo. E se è vero che in chi non sapeva, dal di fuori, potevano nascere dubbi e perplessità, e determinarsi equivoci, è pur vero che lo sforzo generoso di rompere l’isolamento delle nuove generazioni, di recuperare le masse lavoratrici riunificandole, di stabilire un rapporto fra tutte le forze vive del paese, al di là di barriere oppressive, significava il distacco necessario dall’Italia che aveva generato il fascismo, e lo manteneva per un’Italia nuova e diversa.
Era veramente ii prologo della ribellione autentica contro il fascismo e tutto ciò che esso significava nella storia d’Italia(20).

2. Questo tipo di rottura, decisiva e senza appello, presupponeva innanzitutto una presa di posizione teorica: una concezione dell’uomo e della società, dell’opera umana e della storia. Presupponeva altresì una interpretazione della vicenda italiana, della formazione dell’unità nazionale, e perciò stesso del significato del fascismo nella storia d’Italia: se dovesse considerarsi una parentesi di barbarie da cancellare per tornare al punto di prima, o il momento di un processo, l’affermarsi di forze reali, di volontà di gruppi ben determinati. Chiarire tutto questo era essenziale ai fini della lotta. Per Croce, e per l’antifascismo crociano, il fascismo si configurava come l’inserzione abnorme nella vita italiana di un momento di degenerazione. Perciò lo scopo finale della lotta consisteva in una palingenesi morale e in un ritorno alle origini: alla situazione cioè di quell’Italia prefascista che aveva espresso dal proprio seno il fascismo. Ma non meno importante era la decisione sul primo punto, veramente fondamentale; accettare un processo fatale della storia, secondo schemi rigidi, in ritmi prefissati, importava infatti il rispetto passivo di previsioni scaturite da analisi rigorose. «Il deperimento del “fatalismo” e del “meccanicismo” indica una grande svolta storica», diceva Gramsci che, non a caso, concentrò le sue meditazioni del carcere, con una insistenza quasi tormentosa, sulla filosofia della prassi, sulla prassi rivoluzionaria, e, insieme, sulla storia d’Italia e sul Risorgimento. Non diversamente alcuni anni dopo Curiel, con corrispondenze ed incontri insieme sconcertanti e significativi; infatti, mentre in Gramsci prevaleva una cultura umanistica e storicistica, Curiel era studioso di formazione scientifica, nel campo delle discipline fisico matematiche. Di qui il rilievo del parallelismo di certe loro posizioni, specialmente nella critica del manuale di Bukharin, condotta da Gramsci nel 1933-34, e da Curiel, in modo del tutto autonomo, a Ventotene nel ’42 (21).

Non lontano da tale problematica, Rodolfo Morandi nel carcere di Saluzzo, nel ’42, affrontava anch’egli la questione del «grande trapasso», ossia del passaggio «dall’idealismo al marxismo», e quindi dell’interpretazione del marxismo (22). In altri termini, gli esponenti del pensiero e dell’azione socialista verificavano il diritto all’egemonia della classe operaia prendendo posizione di fronte alla cultura che l’egemonia aveva conquistato e tenuto in precedenza. E quel che più importa, mentre ne mettevano in evidenza i limiti e i punti di crisi, ne riconoscevano e ne facevano proprie alcune istanze positive per la vita italiana.
Non a caso il discorso di Curiel, come quello di Gramsci, si lega alla polemica antipositivistica condotta cosi da Antonio Labriola come dal neohegelismo e dallo storicismo del Croce. Al rifiuto, nettissimo, delle mistificazioni idealistiche corrisponde, altrettanto netto, il rifiuto degli equivoci del positivismo (23).

Senza dubbio un’analisi adeguata del testo di Curiel su Materialismo dialettico e scientismo presuppone due accertamenti preliminari: del clima culturale italiano fra le due guerre, nella crisi assai complessa dell’idealismo dominante fino alla prima guerra mondiale; delle discussioni, su piano europeo, suscitate dal manuale di Bukharin e dal marxismo teorico in genere. Entrambi gli accertamenti, almeno in parte, sono stati tentati, né è il caso di riprenderli qui, se non per allusioni; qui si tratta di sottolineare la posizione di Curiel e il suo contributo (24).
Anche Curiel, come Gramsci, aveva discusso a lungo, con gli amici, le posizioni del Croce e del Gentile; ne aveva – lui scienziato – colti i limiti; come dimostra la sua critica al Carlini, aveva visto molto bene la dissoluzione dell’idealismo in uno spiritualismo evasivo in cui si disperdeva l’ultima eco umanistica e storicistica del neohegelismo italiano (25).
Col positivismo era entrato in contatto molto presto attraverso i rapporti familiari con lo zio Ludovico Limentani, allievo in Padova di Ardigò e Marchesini; ma nei confronti dei positivisti aveva accettato le istanze critiche, non solo di Antonio Labriola, ma anche di Benedetto Croce.
Proprio nello scritto su Bulkharin Curiel, polemizzando col sociologismo, e discutendo il rapporto fra scienza e filosofia, distingue nel positivismo due orientamenti: l’uno verso «una grossolana metafisica materialistica o naturalistica», caratterizzato da un materialismo rigido; l’altro verso una concezione più smaliziata, «che alla scienza si rivolge con la consapevolezza dei limiti di essa, che alla entificazione di qualche feticcio preferisce, come pietra basilare del suo sistema concettuale il fenomeno, che rifugge dal determinismo etico per un vago finalismo umanitario fondato sugli imperativi categorici kantiani»(26). A queste posizioni più smaliziate, appunto, si era avvicinato in Italia il Limentani, e con lui il suo fraterno amico Alessandro Levi, per certi accenti, a sua volta, legato a Rodolfo Mondolfo e alla sua ben nota interpretazione del marxismo, che costituì uno dei momenti salienti nello svolgimento ideologico del socialismo italiano, e che assunse posizioni molto chiare nei confronti così di Labriola come di Lenin, e più tardi, sempre ad opera del Mondolfo, di Gramsci, a sua volta critico molto vivace della tematica del Mondolfo (27).
Anche in Italia, come si vede, sono individuabili i riflessi sia di un socialismo kantiano, che di un materialismo volgare. Di fronte ad essi, e al loro comune sfondo positivistico, il marxismo italiano, per opera di Labriola prima, e di Gramsci poi – Curiel si porrà nella medesima linea – fa uso, non solo della lezione della dialettica hegeliana, ma anche di alcuni
degli strumenti polemici messi in opera da neohegeliani come Croce (28). 

Questo è importante, non solo come indicazione di una presa di posizione teorica, ma anche come punto di riferimento per individuare una volontà consapevole di inserirsi in una tradizione culturale, anzi in quella tradizione che aveva conquistato l’egemonia in Italia, e che ora si doveva oltrepassare, rovesciare, ma facendosene eredi, ossia assumendone le funzioni in un paese rinnovato radicalmente nelle sue strutture e nei suoi gruppi dirigenti. Le masse lavoratrici che rovesceranno il fascismo ed esprimeranno la nuova classe dirigente dovranno non solo elaborare una nuova cultura, ma una cultura che erediti criticamente tutte le conquiste e le esigenze valide della più alta tradizione nazionale. 

Questo fu il programma di Gramsci; in questo stesso senso si muoverà Curiel, che dichiarerà il proprio metodo critico, e quindi il proprio punto di partenza, molto nettamente: «il metodo che vorremmo seguire [è] il metodo genetico, secondo la locuzione di Labriola». E ancora: «i nostri ben educati cervelli – abituati alla discorsiva levita di un Labriola»; e più oltre, facendo proprio un tema fondamentale di Labriola, essere la filosofia implicita nel materialismo storico una tendenza critico-formale: «in tale analisi e in tale implicito giudizio siamo confortati dalla stessa concezione del Labriola che fa della dottrina [del marxismo] una “tendenza” al monismo critico, realizzantesi perciò solo nella ricerca concreta e in quanto la dottrina sia determinata in leggi logiche ne fa il momento astratto della ricerca storiografica» (29). È evidente, in queste parole, accanto alla testuale citazione di Labriola, l’eco di una nota formula crociana. Curiel riconosce questo debito nei confronti dell’idealismo, ma limitatamente alla «riluttanza – i termini sono suoi – dal fissare alcun elemento della dottrina» del marxismo. Se hegelismo o neohegelismo offrono, accanto agli strumenti critici, l’avvio a una concezione dialettica della realtà contro neokantiani e materialisti volgari, ossia contro il determinismo e la «metafisica»; il moto della storia, e il rapporto storia-filosofia, si configurano in modo tutt’affatto diverso da quello caro all’idealismo.

La storia – insiste Curiel – non e per noi il flusso omogeneo del mondo concettuale [storia della filosofia, dicevano gli attualisti]; e storia delle lotte di classe e [del] come tale moto di esse [porti] fino a radicali trasformazioni verso nuove configurazioni sociali: non è processo omogeneo, ma «epocale», di epoca in epoca; non è nemmeno processo, ma vicenda di faticose incubazioni e di turbinose trasformazioni rivoluzionarie (30).

In altri termini l’esperienza labrioliana e neohegeliana serve a Curiel – come a Gramsci, del resto – a respingere, di Bukharin, la riduzione del marxismo a naturalismo deterministico; gli serve a respingere una storia tutta condizionata, ove il metodo delle scienze della natura è trasferito allo studio della società, per «ricavare sperimentalmente – le parole sono di Gramsci, ma servono anche per Curiel – le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l’avvenire con la stessa precisione con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia», nell’illusione «di descrivere e classificare sistematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costituiti sul modello delle scienze naturali». Tutta l’insidia della riduzione del mondo umano a quello naturale risulta allorché la schematizzazione sociologica alla Bukharin si mette a confronto con la realtà storica concreta. Le grandi masse della popolazione – l’analisi è ancora gramsciana – hanno cessato di essere «essenzialmente passive». 
Organizzati i grandi partiti, i popoli hanno ormai cominciato a muoversi in modo critico e consapevole, sottraendosi alla standardizzazione e alla previsione necessitante; funzionano i piani estranei agli schemi; «i fatti particolari sono impazziti». Il fatalismo e il meccanicismo alla Bukharin – questo risulta alla luce di una discussione genetica, ossia storicizzante – corrisponde a una condizione subalterna delle masse; mentre la rivolta contro quel fatalismo, la conquista del significato della prassi rivoluzionaria, è simmetrica al momento della lotta per l’egemonia delle masse lavoratrici.
Questo, ovviamente, non significa che sia destituita di fondamento la ricerca di «leggi di uniformità». Significa la restituzione dello scientismo, del positivismo, del nesso comtiano scienza-previsione, a un momento dell’evoluzione borghese. Quel determinismo, quel meccanicismo, quel fatalismo, sboccano alla conservazione, e sono, più di quanto non sembri, legati a un certo momento della parabola dell’idealismo. La scientificità del socialismo e il rigore razionale con cui si prende coscienza di una situazione storica per modificarla con una decisione consapevole e ben fondata, non velleitaria nè ciecamente volontaristica, seguendo, non linee rigidamente prefissate, che renderebbero incomprensibile la stessa prassi rivoluzionaria, ma <?tendenze? reali immanenti al processo, e tuttavia rese operanti solo attraverso scelte consapevoli.
Proprio perché ormai pone la propria candidatura a classe dirigente, proprio perché lotta per l’egemonia, il movimento operaio elabora la dottrina socialista come dottrina di libertà, di concreta libertà, e respinge a un tempo le mistificazioni evasive delle «libertà» idealistiche e il determinismo dello scientismo, e del materialismo volgare. Né va sottovalutato
il fatto che le reazioni più interessanti al manuale di Bukharin, uscito nel ’21, tradotto in tedesco nel ’22, in inglese nel ’25, in francese nel ’27, si manifestarono subito in scritti di pensatori come Fogarasi o Lukacs, e proprio come rifiuto delle schematizzazioni astratte e astoriche delle visioni naturalistiche e meccanicistiche. D’altra parte nessuno, in Europa, come Gramsci e Curiel, seppe condurre la critica così avanti, e con tanta precisione: né al discorso di Curiel scienziato si può più muovere l’appunto di limitatezza umanistica che qualcuno ha rivolto al discorso di Gramsci. Non
minore interesse hanno, nei confronti dei testi gramsciani, i cenni di Curiel sul nesso filosofia-storiografia, sullo sviluppo dell’ideologia, sugl’individui storici, sulle «epoche», sul rapporto fra processo storico e successione cronologica. Purtroppo il materiale di cui si dispone è a volte troppo esiguo per un’adeguata disamina. Comunque quello che più preme è sottolineare che questa delucidazione teorica del marxismo permise a Curiel una visione più ricca di alcuni aspetti del Risorgimento considerato come nodo della storia italiana, e nello stesso tempo gli consentì una presa di posizione chiarissima nella lotta aperta dell’ultimo periodo della vita. Restano così alcune notazioni illuminanti, particolarmente sul Veneto e sul suo scarso peso nella vita nazionale; sulla funzione dei Toscani fra crisi della Destra e avvento della Sinistra; su Mazzini e, infine, sul sindacalismo di tipo soreliano e sui suoi legami con l’idealismo.

Idealismo volontaristico – scrive fra il ’42 e il ’43 – come giustificazione della guerra superatrice di contraddizioni in alto [nei ceti dominanti];
come freno alla decomposizione nei [ceti] medi, che abbandonano la democrazia giacobina per una [concezione] produttivistica; [come] guida del complesso [della società] verso una reazione primitiva, antistorica contro l’inevitabile scomparsa [del sistema capitalistico]. Ecco il legame [dell’ideologia sindacalista] con l’idealismo [dei ceti dominanti] (31).

3. «La ricchezza della storia […] oltrepassa ogni tentativo di previsione meccanica». Sono parole scritte, probabilmente, nel marzo del ’44; più che un punto d’approdo costituiscono il punto di partenza per la lotta e la ricostruzione: una formula emblematica sotto cui raccogliere i risultati di una doppia riflessione: sui principi teorici del marxismo e sulle vicende della società italiana. Nel punto in cui una classe scopre in se stessa le possibilità di divenire soggetto della storia, artefice della propria sorte; nel momento in cui si presenta come avente diritto all’egemonia, afferma la libertà contro ogni necessità e ogni schema.
Nella tragedia delle guerre e delle reazioni fasciste scoppiavano tutte le contraddizioni di una società che si veniva sanguinosamente disgregando.
Nuove forze, nuovi uomini, nuove classi si facevano ormai avanti a determinare il corso della storia, mentre la crisi del secondo conflitto mondiale dava origine a un fenomeno nuovo: al presentarsi di larghe masse popolari che si inserivano impetuosamente ma consapevolmente nella lotta, organizzate, capaci di governarsi e di governare. La Resistenza si presenta come un fatto decisivo: non l’estrema rivolta di uomini incapaci di soffrire ancora, ma un’iniziativa popolare capace di articolarsi in nuove strutture, in nuovi organismi, con dinamismo e decisione, con possibilità incredibili,
quasi paradossali: all’interno di un campo di sterminio, in un ghetto votato alla distruzione. Dall’ultima contraddizione di un mondo in sfacelo si liberano le forze del rinnovamento. Per questo la Resistenza è intessuta di slancio costruttivo, è tutta proiettata verso il futuro: non è vincolata all’estremo moto convulso della guerra, né vi si esaurisce – é un inizio;
con la Resistenza del secondo conflitto mondiale la Resistenza comincia, ossia comincia un processo destinato a traversare tutta la nuova storia d’Europa, d’Africa, d’Asia e d’America, in forme diverse, attraverso sconfitte e delusioni continue, ma anche nella consapevolezza crescente delle possibilità di liberazione e di autogoverno dei popoli, contro le oppressioni fasciste, razziali, coloniali, imperialiste: contro la miseria e la fame. È la scoperta che non ci sono né armamenti così moderni, né potenze così grandi, né forze cosi soverchianti, contro cui non possano organizzarsi vittoriosamente nuclei attivi e decisi, solo che esprimano, a livello cosciente, le aspirazioni e le volontà popolari. È, veramente, la scoperta delle nuove strade della libertà. Ebbene, le pagine dell’ultimo Curiel, quelle pagine in cui si traduce la sua attività di organizzatore dei giovani nella lotta contro il fascismo e il nazismo, sono piene di questa presa di coscienza. Di qui il preciso rifiuto di ogni equivoco richiamo al Risorgimento, ossia a un’unità di tutti in nome della patria, oltre le classi e i partiti. «Oggi la nazione […] è ” nazione di partiti “; la loro funzione è, sì, di lotta, ma anche di composizione».
Di qui un «no» risoluto a tutti i blocchi nazionali che all’insegna del patriottismo avevano aperto la strada al fascismo, ma anche un «si» al C.L.N. come strumento di collaborazione democratica.

Noi non pensiamo che l’azione dei partiti possa turbare la guerra di liberazione nazionale, ma anzi pensiamo che essa sia la condizione per il trionfo dell’Italia libera […] La democrazia popolare […] non è chiacchiericcio inconcludente, ma é azione che tende a convogliare tutte le forze sane della nazione sulla via del progresso. (32)

Di qui un’analisi precisa delle forze operanti nel paese, e delle loro responsabilità:

Noi dobbiamo mettere alla gogna gli industriali, responsabili e profittatori della tragedia italiana, i magnati dell’industria e della finanza che sovvenzionano il fascismo [… ] Chi forma la maggioranza dei distaccamenti partigiani? Operai e contadini. Chi guida l’azione delle masse popolari urbane con lo sciopero e la guerriglia? Operai.

I giovani intellettuali potranno uscire a loro volta dalla «solitudine sociale, e quindi spirituale», in cui il fascismo li ha chiusi, collaborando col movimento operaio.
Di qui il rifiuto di ogni schematismo dottrinario; di qui la valorizzazione del fattore nazionale; di qui la sottolineatura del valore della partecipazione delle masse cattoliche alla lotta («molto deve agli operai, ai contadini, agli intellettuali cattolici la nuova Italia che va sorgendo dalla lotta di liberazione»), di qui il rifiuto di ogni divisione religiosa.
Le ultime pagine di Curiel, intese a illustrare ii concetto di democrazia progressiva in rapporto alla dittatura del proletariato, sono ancor oggi, dopo più di venti anni, di un interesse singolare. Ferma restando la necessità di liberare l’Italia, non solo da ogni residuo di fascismo, ma anche da ogni tentativo di ritorno alle posizioni che al fascismo avevano dato origine, la nuova democrazia dovrà essere, non «una condizione di equilibrio di forze sociali», ma un «continuo progresso sociale», una «sempre più decisa partecipazione popolare al governo», una «sempre più matura egemonia
della classe operaia»; una graduale attuazione del socialismo; un «metodo per la soluzione dei problemi politici e sociali». Un metodo – e su questo Curiel insiste con forza – per dare soluzioni nazionali ai problemi italiani, nella collaborazione delle varie forze attive del mondo del lavoro. 

Il contadino deve affrontare i problemi del suo villaggio, l’operaio deve affrontare i problemi della sua fabbrica, ogni italiano deve affrontare e saper risolvere, nel quadro degli interessi nazionali, il problema specifico che lo tocca da vicino […] La via che conduce alla nuova Italia […] è una via fatta del lavoro concreto di ogni giorno, del lavoro concreto di ogni italiano, e su questa via marcerà la classe operaia, classe di governo, conscia che soltanto così essa potrà realizzare, nella democrazia progressiva, la sua funzione d’avanguardia, la sua funzione nazionale.

La dittatura del proletariato non è la dittatura di una minoranza audace; è, dice Curiel, l’unione del popolo che lavora. Il punto in cui la democrazia progressiva nel suo sviluppo cederà il posto alia dittatura del proletariato non è prevedibile, né programmabile; nè prevedibile o programmabile il modo. «Rifarsi necessariamente alle forme che tale rottura ha assunto nell’URSS – incalza Curiel – è criterio storicamente falso»; neppure può dirsi se sarà rottura o «trasformazione qualitativa diluita nel tempo». Di più: ogni programma totale e definitivo, ogni confine precostituito, sarebbero «una limitazione dell’importanza e della fecondità della democrazia progressiva». Quello che importa è che il processo verso una società socialista si realizzi nella maniera «la meno costosa possibile per la classe operaia e per tutta la nazione». Dire di più è vano, perché «la ricchezza della storia» è «ricchezza che oltrepassa ogni tentativo di previsione meccanica»  (33).
IL rapporto di Curiel alla conferenza milanese dei giovani comunisti del 20 gennaio 1945, circa un mese prima della morte, è pieno di questo senso della ricchezza della storia, della libertà dell’uomo artefice della sua storia: i giovani, tutti i giovani, accolti nel fronte comune della gioventù, gli sembrano quasi concretare questo perenne riaprirsi di possibilità, questo fiorire di iniziative, che nessuno schema deve rinchiudere; che la lezione del passato deve orientare, non imprigionare.(34) Anch’egli era un giovane: e giovane resta la sua opera, cosi piena di esigenze di rigore, ma così aperta, così làntana da ogni dogmatismo, cosi libera, cosi viva – ed è lì a ricordarci, fra tante altre cose, che il fatto storico cui si da il nome di Resistenza, non è un evento concluso, da raccontare e commemorare, ma un processo in atto, intessuto ancora di sconfitte, di delusioni, di diserzioni; una lotta contro nemici non spenti e contro forze non distrutte: quelle forze medesime che ancora straziano il mondo, anche se con volto diverso. 

Eugenio Garin

NOTE

  1. Dei testi di Curiel si fa riferimento a quelli contenuti nel volume Classi e generazioni nel secondo Risorgimento, introduzione di Enzo Modica, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1955 (l’introduzione del Modica si raccomanda per le molte notizie e testimonianze che
    raccoglie). Si utilizzano inoltre i testi editi da Stefano Merli in appendice al saggio La ricostruzione del movimento socialista in Italia e la lotta contro il fascismo dal 1934 alla seconda guerra mondiale, Annali 1962, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, 1963, pp. 541-844.
  2.  Per questo ultimo punto sono da vedere anche le Direttive per l’organizzazione del fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà, un opuscolo di pagine 40
  3. Classi e generazioni, p. 260
  4. Largo ai giovani!, «Lo Stato operaio», 1927-1939. Antologia a cura di Franco Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1964, vol. 11, p. 442 sgg. Nel numero del 10 ottobre 1936, «Lo Stato operaio» pubblicava l’intervento di Celeste Negarville nella discussione della sessione di settembre del CC del P.C.I. col titolo Per un movimento giovanile italiano (Antologia cit., vol.II, pp. 464-74)
    Negarville sottolineava la necessità che il movimento della gioventù italiana nascesse «sul terreno di quella originalità che 14 anni di fascismo avevano impresso nella mentalità dei […] giovani».
    E soggiungeva: «I giovani hanno preso sui serio l’anticapitalismo di cui il fascismo si fa paladino a parole […] Molti antifascisti vedono qui soltanto l’aspetto esteriore del fatto e sorridono, con sufficienza, di fronte […] all’ingenuità politica della gioventù italiana. Ma costoro dimenticano che questa gioventù s’è formata in regime fascista, che dal fascismo ha ricevuto la risposta a tutte le questioni che s’è posta. L’anticapitalismo, diciamo cosi giovanile, se nasce sui terreno di una società capitalistica, si sviluppa con l’aiuto della demagogia fascista che – come sappiamo – è un’arma a doppio taglio. È precisamente il doppio taglio dell’arma che certi antifascisti non vogliono prendere in considerazione».
    E continuava: «Non sono dei timidi, questi giovani, non sono dei conservatori, non sono dei reazionari!… Sono giovani del nostro popolo, della nostra gente, sono giovani italiani pensosi dell’avvenire del nostro paese, dell’avvenire della loro generazione e che, coi loro sforzi, dimostrano che il fascismo non ha distrutto nella gioventù italiana l’anelito verso una visione di giustizia e di progresso sociale».
    E sui tema del Largo ai giovani ! : «Per questo noi diciamo che largo ai giovani è la parola d’ordine del movimento della gioventù che noi dobbiamo aiutare a sorgere nel seno delle masse giovanili».
  5. Agostino Novella, La gioventù italiana del littorio, «Lo Stato operaio», vol. n, p. 569.
  6. Classi e generazioni, p. 13.
  7. II testo è riprodotto in Classi e generazioni, p. 3 sgg. Non sono invece riprodotte per intero le osservazioni che e. g. (Egidio Gennari) faceva seguir, a mo’ di postilla, al testo di Giorgio Intelvi. Su questa postilla cfr. anche S. Merli, op. cit., p. 585, n. 116; su tutta la questione, ivi, pp. 608-11.
  8. Rodolfo Morandi, La Democrazia del Socialismo, 1923-1937, Torino, Einaudi, 1961, p. 158 (e S. Merli, op. cit., p. 572)
  9. S. Merli, op. cit., p. 800.
  10. S. Merli, op. cit., p. 804, nota 1 al documento n. 86. Su Eugenio Colorni, ben noto studioso di filosofia, cfr. S. Merli, p. 757. A dare consistenza alla figura del Colorni può giovare il ricordo dei suoi scritti filosofici: una importante monografia su L’estetica di Benedetto
    Croce (Milano, «La Cultura», 1932) ; una notevole collaborazione alla martinettiana «Rivista di filosofia», soprattutto con contributi leibniziani; un’antologia leibniziana pubblicata nella collana di testi diretta dal Gentile (Firenze, Sansoni, 1935). Alcuni interessanti inediti su problemi concernenti i rapporti filosofia e scienza furono pubblicati dopo la guerra («Sigma», 1947 e 1948; «Analysis», 1947). Una raccolta dei suoi lavori rimasti inediti, promossa da F. Rossi Landi, sembra non abbia avuto attuazione. Eppure sarebbe un documento interessante per comprendere la crisi sotterranea della cultura filosofica italiana, parallela alla crisi politica.
    Né c’è bisogno di sottolineare la corrispondenza fra certi temi della riflessione di Curiel e alcuni dei problemi agitati dal Colorni.
  11. Sembrano giuste alcune delle osservazioni del Merli, op. cit., p. 609 sgg., sul carattere «unitario, non partitico» del lavoro illegale, e soprattutto andrà tenuta presente la difficoltà di tracciare, in ogni caso e in ogni momento, linee di demarcazione troppo nette.
  12. Di Ruggero Zangrandi è da vedere Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 102 sgg., anche per il complesso di indicazioni che dà su «Il Bo» e per quanto dice in particolare, lì e altrove, di Curiel e dei suoi amici. Di Davide Lajolo sono da vedere (Il «voltagabbana», Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 137 segg.) le pagine dove sono riferiti i testi di Curiel usati per una conferenza sindacale. 
  13. S. Merli, op. cit., p. 80
  14. S. Merli, op. cit., p. 801.
  15. S. Merli, op. cit., pp. 813-23
  16. S. Merli, op. cit., p. 83
  17. Classi e generazioni, pp. 27 sgg., 30 sgg., 43
  18. Sul «rigido classismo» di Curiel richiama l’attenzione Luciano Cafagna (e la nota del Cafagna fu sottolineata dal Merli) nella presentazione dell’articolo edito nel «Bo» il 20 agosto 1938 ed incluso nell’antologia Il Nord nella storia d’Italia, Bari, Laterza, 1962, pp. 2, pp. 597-602.
  19. Classi e generazioni, pp. 76-9
  20. Nel numero dell’ottobre 1936 de «Lo Stato operaio» Ruggero Grieco, nell’articolo A voi, uomini di cultura, aveva detto: «Ma che i nostri intellettuali escano dal guscio ove pare siano chiusi. Escano all’aria aperta, penetrino in tutte le società culturali, nelle riviste e nei giornali, si cimentino sui terreno delle idee, prendano delle iniziative culturali, editoriali, con la intelligenza che l’ora richiede, si avvicinino ai giovani, valorizzino quanto i giovani hanno da dire, li aiutino, li appoggino, li difendano, siano i loro maestri e le loro guide». E rivolgendosi singolarmente a insegnanti, scrittori, artisti, filosofi, storici, li esortava a dire la verità. 
    In particolare ai filosofi raccomandava di appoggiare intanto «tutte le correnti non marxiste, che si spostano sul terreno radicale, nel senso moderno della parola», dando opera nello stesso tempo a rafforzare «la spinta, che esiste già, verso la restaurazione della sinistra hegeliana».
    Si determinava cosi una posizione che ha delle analogie, anche se su un piano ben diverso, con quella, molto realistica, del Croce, illustrata una volta da Pancrazi (Questo è il fascismo. 20 conferenze alla Radio Firenze, Firenze, L’Impronta, 1945, p. 64). Al Pancrazi, che gli esprimeva il proprio disagio per la collaborazione a giornali fascisti, «il Croce rispose […] quello che soleva rispondere ai professori in posizione analoga: – Spiegare appropriatamente anche un sonetto del Petrarca è fare opera di antifascismo. Continuate!».
    Per quanto riguarda l’opera di Curiel in seno alle organizzazioni fasciste, Longo osservava giustamente: «non si dimentichi che quando Curiel svolgeva la sua azione nelle colonne del «Bo» egli era già in contatto con il partito comunista…, perciò questa sua attività particolare non va giudicata a sé, ma vista come parte dell’azione generale che il partito svolgeva in quel tempo, dentro e fuori delle organizzazioni fasciste…» (L’insegnamento di Curiel, «Rinascita», XII, 1955, PP. 514-5). 
  21. Va tuttavia tenuto presente che nelle pagine di Curiel il discorso si mantiene sul terreno di una discussione filosofica e storica, saldata alla situazione italiana dominata dalle posizioni idealistiche. Un uso particolare il Curiel sembra fare, anche se in forma talora estremamente critica, dell’opera di Georges Friedmann, La crise du progrés. Esquisse d’histoire des idées, Paris, Gallimard, 1936, che aveva destato al suo apparire un notevole interesse. Lucien Febvre l’aveva recensita nel ’37; e del concetto che aveva dell’autore è documento l’affettuosa menzione del ’52: «Georges Friedmann, pénétrant analyste d’ames individuelles et collectives, de Leibniz et de Spinoza aux servants anonymes de la machine». Può essere utile ricordare che il Friedmann nel ’37 aveva scritto Autour des réformateur sociaux, «Commune», (Paris), 1937, pp. 1097-1107 (a proposito del volume di A. Cornu, A. Cuvillier, P. Labérenne, L. Prenant, A la lumiére du marxime…, Paris, 1937); è del ’39 il saggio La Révolution de 1769 et quelques courants de la pensée sociale en Russie au XIXe siécle, «Revue de philosophie de la France et de l’Etranger», pp. 172-92. Né va infine dimenticato, per comprendere alcune osservazioni di Curiel, come in quegli anni la discussione sull’idea di progresso fosse all’ordine del giorno, e si moltiplicassero libri ed articoli. Non a caso La notion de progrés devant la science actuelle fu il tema della «Sixiéme semaine de synthèse», i cui contributi (di G. Ferrero, di E. Le Roy, di P. Janet, di J. Rostand, di A. Rey, e cosi via) uscirono a stampa in volume nel ’38 (Paris, Alean) con larga eco di discussioni e recensioni.
  22. Rodolfo Morandi, Lotta di popolo, Torino, Einaudi, 1958, p. 15 sgg. II titolo Il grande trapasso, dato per la censura, fu poi sostituito dall’altro Dall’idealismo al marxismo. Ciò non toglie che il primo resti molto significativo.
  23. Forse converrebbe ricordare che nel ’38 usci una traduzione francese (a cura di H. Lefebvre e N. Guterman) dei Quaderni di Lenin su Hegel (già pubblicati nel ’29-30, ma non ancora diffusi; anche Croce farà cenno su «La Critica», 38, 1940, pp. 43-4, della traduzione
    francese).
    Lenin aveva fatto testo con Materialismo ed empiriocriticismo. Ora, nelle note a Hegel, si poteva leggere: «Aforisma. Non si può comprendere perfettamente il Capitale di Marx e particolarmente il primo capitolo, se non si è compresa e studiata attentamente tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo, nessun marxista ha compreso Marx!» (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano, Feltrinelli, 1958, p. 171).
    Id. : «Hegel ha effettivamente dimostrato che le forme e le leggi logiche non sono un guscio vuoto, ma il rispecchiamento del mondo oggettivo. Per meglio dire, non dimostrato, ma genialmente presentito»; (p. 232) «Il compendio e il riassunto, l’ultima parola e il nocciolo della Logica di Hegel è il metodo dialettico – cosa estremamente importante. E ancora una osservazione: in quest’opera di Hegel che è la più idealistica vi è il meno di idealismo e il più di materialismo. È  “contraddittorio”, ma è un fatto»; (p. 265): «Qui un pensiero molto profondo e giusto, un pensiero nella sostanza materialistico: la storia reale è la base, l’essere, a cui tien dietro la coscienza», (p. 276) : «l’idealismo intelligente è più vicino al materialismo intelligente di quanto non lo sia il materialismo sciocco. Idealismo dialettico al posto di intelligente; metafisico, atrofizzato, morto, rozzo, statico, al posto di sciocco».
    Può essere interessante notare che Gramsci, scrivendo il 4 luglio 1927 dal carcere di Milano a Berti, gli esprimesse l’opinione che nell’insegnamento della filosofia si dovrebbe cominciare con l’insistere su un sistema filosofico concreto, «quello hegeliano, sviscerandolo e criticandolo in tutti i suoi aspetti».
    Scriverà più tardi il traduttore francese delle note di Lenin: C’è un abisso fra Materialismo  ed empiriocriticismo, e le annotazioni sulla Logica di Hegel… Io credo che Lenin nel 1914 diventasse un vero dialettico, mentre non lo era che a mezzo nelle sue prime opere, almeno sul piano dell’elaborazione teorica. E credo che allora egli si liberasse dalle polemiche un po’ ristrette del movimento russo e della Seconda Internazionale» (H. Lefebvre, La somme et le reste, La Nef de Paris, 1959, vol. n, p. 498). C’è probabilmente dell’esagerazione nelle battute di Lefebvre; ma converrà tenere presente la formazione di studiosi come Labriola, Gramsci e Curiel, attraverso un’esperienza hegeliana, per comprenderne la fisionomia cosi caratteristica, e la forza cosi singolare.
  24. In particolare sul «Manuale» di Bukharin è da segnalare il saggio di Aldo Zanardo, Il «Manuale» di Bukharin visto dai comunisti e da Gramsci, in Studi gramsciani, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 337-68.
  25. Classi e generazioni, p. 19 sgg. La filosofia del Carlini «ci porta in un complesso di antitesi ben più gravi di quella attualistica. Abbiamo un individuo che, in fondo, finisce ancora col contrapporsi alla società, o meglio alle due società, quella politica e quella morale…Invece dell’individuo astratto, ma chiaro e determinato, della filosofia idealistica, ci troviamo di fronte a un individuo simbolico…».
  26. Classi e generazioni, p. 112-3. Curiel continua: «Cosi il positivismo finisce col corroborare, a forza di prudenziali limitazioni, le conclusioni pessimistiche dell’idealismo, per quanto cerchi di ricostruire sui terreno minato dell’idealismo un qualche modus vivendi. Si direbbe che il positivismo, riconosciuto il naufragio dei grandi ideali settecenteschi, tenti di salvare qualche rottame, mentre lo scientismo non vuol riconoscere naufragi di sorta e si ricollega disperatamente alla vecchia certezza dei materialisti del Settecento, in un vano tentativo di far rivivere ciò che è definitivamente tramontato». È  significativo e importante che nella discussione del materialismo volgare ricorra il nome di Labriola.
  27. Sui rapporti del Curiel con lo zio, fratello della madre, Ludovico Limentani, cfr. la prefazione del Modica a Classi e generazioni, pp. XIV-XV, anche se il cenno alia posizione del Limentani non è forse del tutto soddisfacente. Non va dimenticato, soprattutto in rapporto
    alla «previsione», e a quello che ne dice Curiel, che il Limentani aveva pubblicato sull’argomento il suo primo libro importante, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907, in cui assumeva già un atteggiamento molto originale nell’ambito positivistico. Il libro suscitò l’interesse e le discussioni cosi di Croce come di Vailati, e l’eco ne è presente in Gramsci, attraverso Croce (Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, 1949, p. 5, n.). Per la sua posizione etica, per le sue conclusioni, molto fedelmente, anche se criticamente delineate da Curiel nella presentazione del positivismo «smaliziato», cfr. L. Limentani, Il positivismo italiano, «Logos», VII, 1924, pp. 1-38.
    Quanto al Mondolfo, è da vedere la sua prefazione a Filippo Turati, Le vie maestre del socialismo, Bologna, Cappelli, 1921, e, soprattutto, il noto libro Sulle orme di Marx, terza ed. in due volumi, Bologna, Cappelli, 1923. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1949, p. 82, rimproverava al Mondolfo di non aver mai abbandonato completamente le posizioni di Ardigò e parlava, a proposito del libro del Diambrini-Palazzi su Labriola, di «povertà di concetti e di direttive dell’insegnamento universitario del Mondolfo stesso». II Mondolfo ha ripreso, a livello molto nobile, la discussione con Gramsci
    nel volume Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia, 1961.
  28. E dicendo di Croce, e della sua influenza, si vuol dire anche del peso che, in vario modo, ebbe in Italia Sorel. Gramsci si rese ben conto di quanto la questione fosse importante, anche se la presentò quasi rovesciandola: «Lo studio di Sorel è specialmente interessante da questo punto di vista, perché attraverso il Sorel e la sua fortuna si possono avere di ciò [della riduzione crociana della filosofia della prassi a canone empirico di ricerca storica] molti indizi in proposito; cosi dicasi del Croce. Ma lo studio più importante pare debba essere quello della filosofia bergsoniana e del pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico della filosofia della prassi» (Il materialismo storico, p. 83).
    Labriola aveva respinto subito Sorel, e Curiel ha ben presente Labriola.
  29. Classi e generazioni, pp. 102, 103, 104.
  30. Classi e generazioni, pp. 104-5.
  31. Classi e generazioni, pp. 155-7- Si tratta di appunti, appena buttati giù, ma interessanti per la discussione di certi terni soreliani. 
  32. Classi e generazioni, p. 175.
  33. Classi e generazioni, p. 220.
  34.  Il tema della libertà, nel senso sopra illustrato, è il centro delle Direttive per l’Organizzazione del Fronte della gioventù.

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